Wednesday, October 27, 2010

Mobile Learning

L'edizione di quest'anno di Teniamoci per mouse si intitola: "La classe è mobile". Nel mio intervento, in apertura, cerco di definire il Mobile Learning (rilanciato con forza dalla diffusione dell'I-pad e della nuova generazione di dispositivi touch suoi stretti parenti). Lo faccio rispondendo a tre domande:
1) cosa è? (asse concettuale)
2) a cosa serve? (asse socio-culturale)
3) come si fa? (asse didattico-tecnologico)

1. Una definizione
In senso proprio si può parlare di "apprendimento mobile", con due significati storicizzabili in precisi momenti dell'evoluzione della tecnologia e delle didattiche dell'e-learning.
Nel primo di questi momenti il ML è pensato come la possibilità di emancipare l'apprendimento dalla postazione fissa, sganciando spazio-temporalmente il soggetto. Siamo negli anni '90 (Keagan, Peters), in concomitanza con la diffusione del palmare. In questo contesto il ML si lega sostanzialmente all'accessibilità real time ed everywhere di contenuti e servizi di piattaforma (accedere alla bacheca del LMS, vedere il proprio grade-book), soprattutto nell'istruzione superiore.
Oggi il ML cambia decisamente di significato e viene concepito come una possibilità per mettere in continuità pratiche di apprendimento e pratiche ordinarie, individuali e sociali. Come da alcune esperienze europee (London Mobile Learning Group) viene indicato, il ML diviene quindi un modo per usufruire dello stesso strumento (I-pod, cellulare, I-pad) per comunicare nelle proprie reti sociali e per svolgere compiti e funzioni nel contesto della classe.
Volendo sintetizzare: dalla tecnologia come opportunità per esportare la scuola nel sociale, alla tecnologia come opportunità per importare il sociale nella scuola.

2. Lo scenario
Così inteso, il ML consente di dare risposta, grazie alla portabilità e alla connettività della tecnologia (ubiquitous computing), ad alcune nuove esigenze dello scenario socio-culturale attuale.
Anzitutto consente di registrare e valorizzare il nuovo ruolo dell'informale, e cioè:
- workflow learning (Cross), che vuol dire che si apprende sempre, a prescindere da quel che si fa;
- friends storing (Siemens), ovvero molto della nostra conoscenza è archiviato nei nostri amici;
- user generated contexts (Haque), che vuol dire la tendenza dei soggetti ad appropriarsi del mondo costruendo mappe delle loro esperienze e sintesi delle loro conoscenze.
In seconda battuta, il ML interpreta il nuovo ruolo della tecnologia, e cioè:
- quello di esternalizzare una parte delle funzioni che le teorie classiche dell'apprendimento collocavano nella mente (come l'archiviazione delle informazioni, appunto);
- quello di consentire la costruzione e il mantenimento di reti sociali.
Il ML fa questo in due modi.
1) Supporta gli studenti nel collegare scuola e mondo della vita (Jenkins, 2010):
- costruendo passerelle conversazionali tra dentro e fuori, casa e scuola;
- usando il cellulare (il dispositivo mobile) come strumento di continuità tra i due mondi.
2) Crea contesti mediali di apprendimento:
- favorendo la ricezione del dispositivo mobile come risorsa culturale degna di stare in classe;
- progettando situazioni di apprendimento di cui il mobile device sia protagonista.

3. Tecnologia, didattica
Il versante applicativo si può leggere a tre livelli:
a) gli usi. Sono quelli censiti dal rapporto BECTA 2008 realizzato dall'Università di Nottingham e su cui torno in A scuola con i media digitali. Sostanzialmente il dispositivo mobile come: memoria elettronica, agenda elettronica, centrale di comunicazione, macchina creativa;
b) i modi. Qui è centrale il concetto di EAS (Episodio di Apprendimento Situato), ovvero un'attività al centro della quale vi sia l'uso motivato della tecnologia. Esempi di EAS sono: scattare fotografie di angoli come compito a casa; girare un video di 30 secondi per presentare un personaggio storico; usare il voice recorder per salvare la discussione all'interno del proprio gruppo e poi farne una sitesi, ecc.
c) il ruolo dell'insegnante, in tutto questo, come la vignetta di Glasbergen in apertura suggerisce, è di regista della situazione, con l'attenzione però a non versare vino vecchio nelle nuove botti.

Riferimenti bibliografici:
H. Jenkins (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Milano: Guerini.

Saturday, October 23, 2010

Da Marc Prensky... a Marc Prensky

Marc Prensky è l'autore di un articolo, Digital natives, digital immigrants, che ha segnato gli ultimi anni del dibattito sulle tecnologie dell'educazione. In quell'articolo, adottando una metafora normalmente usata per spiegare le migrazioni di popoli (o la differenza tra un madrelingua e qualcuno che la lingua l'ha imparata già avanti con gli anni), Prensky addebitava al fatto che in mezzo alle tecnologie i più giovani ci fossero nati, una serie di gap difficilmente componibili con il molto adulto: usi differenti delle tecnologie, stili cognitivi differenti, culture differenti.

Sulle due categorie dei nativi e degli immigranti sono sempre stato abbastanza critico e in un paio di post in questo blog già le avevo criticate. Le ragioni sono tre:
1) alcuni adulti stanno diventando nativi. Pensiamo all'uso del cellulare per messaggiare i figli, alla massiccia presenza nel social network, all'i-pod attaccato anche alle nostre orecchie, non solo a quelle degli adolescenti. Insomma, proprio come quando si studiano le culture altre sul campo, anche noi stiamo via via "going natives", diventando nativi;
2) diverse ricerche recenti dimostrano che l'uso delle tecnologie non separa ma avvicina le generazioni. Pensiamo al videogame come spazio conviviale tra genitori e figli, al cellulare come oggetto di negoziazione e quindi di dialogo, al social network come occasione di creare complicità e condividere interessi;
3) infine, l'esperienza dell'adulto immigrante, a prescindere dalla sua bravura nell'uso dei media, può essere utile al nativo per promuovere la sua riflessione, per invitarlo a pensare le sue pratiche, insomma per fargli maturare senso critico.
A distanza di un po' di anni da quell'articolo, Prensky, motivandola su per giù con le stesse motivazioni, accoglie quest'idea e riconosce in un nuovo articolo che quelle due categorie hanno fatto il loro tempo. Per superarle Prensky propone tre nuovi profili:
a) quello del saggio digitale (digital wisdom). Si tratta di un utente, giovane o anziano che sia, capace di un uso critico e responsabile delle tecnolgoie digitali;
b) quello dello smanettone digitale (digital skilness). E' colui che possiede le competenze tecniche già attribuite al nativo: rapido, esperto, dotato di grande dimestichezza rispetto ai diversi supporti;
c) quello dello stupido digitale (digital stupidity). E' colui che delle tecnologie fa usi impropri, dannosi, trasgressivi; o anche colui che rifiuta apriori di avvicinarsi ad esse ritenendole fonte di tutti i mali.
Il problema per Prensky è tendere verso la saggezza digitale e trovare il mondo di accompagnarvi tutti. Si tratta di una questione che ci suggerisce in conclusione tre sintetiche considerazioni.
Non mi sembra vi sia molta differenza tra la saggezza di cui Prensky parla e l'obiettivo che da decenni la Media Literacy si propone: responsabilità, senso critico, consapevolezza nell'uso dei media sono da sempre "nel mirino" di un movimento vastissimo e con una tradizione enorme.
Sicuramente la saggezza digitale corrisponde a quell'idea di competenza digitale cui la Comunità Europea pensa quando la indica all'interno del framework delle competenze di cittadinanza.
Infine, proprio prendendo spunto da quest'ultimo cenno, mi pare che la competenza digitale (la saggezza digitale) costituisca oggi un problema importante non solo dell'educazione ai media digitali, ma dell'educazione alla cittadinanza tout court.

Monday, October 18, 2010

La famiglia digitale

Negli ultimi tempi, in maniera sempre più convinta, la letteratura di area psico-sociale e gli studi sulla comunicazione neomediale parlano di "famiglia digitale" in riferimento al ruolo che il cellulare e il social network stanno assumendo in relazione alle pratiche familiari. Grazie a questi media la famiglia:
- può restare connessa (pensiamo a come questo sia vero per la famiglia degli immigrati, che spesso rimane nel loro paese di origine);
- ricongiungersi (re-connectivity);
- estendere le proprie interazioni sociali e/o mantenerle (come nel caso delle "amicizie" in Facebook).
Su questo fenomeno mi è capitato di recente di intervenire (per la formazione dei genitori e degli operatori dei servizi educativi per l'infanzia, nell'ambito di un seminario di ricerca presso l'Università di Bolzano-Bressanone) e coordino, insieme a Camillo Regalia (amico e collega di psicologia sociale), in Università Cattolica un progetto di ricerca: Family.tag.
Provo in questo post a inquadrare rapidamente i termini della questione ragionando su tre descrittori: lo scenario, le fragilità, l'intervento educativo.

1. Lo scenario della famiglia e della comunicazione digitale è segnato da due fenomeni particolarmente importanti, che occorre tenere in considerazione.
Il primo è la democratizzazione delle relazioni all'interno della famiglia con quel che ne consegue:
- la libertà decisionale riconosciuta ai figli (spesso senza condizioni e in età precoce);
- la pariteticità di diritti e doveri tra genitori e figli (ad esempio i piccoli servizi, su cui viene rivendicato il diritto alla turnazione con il risultato che lavorano sempre i genitori);
- la perdita di autorità da parte dei genitori e il tentativo frequente di sostituirla con un innalzamento del tono affettivo.
Il secondo fenomeno è l'esplosione della comunicazione, contraddistinta da:
- pervasività (i media mobili e connessi sono sempre con noi);
- socialità mediata (prolunga oltre i limiti della presenza le relazioni e  le interazioni);
- naturalità (la tecnologia "scompare" sempre più dentro gli oggetti d'uso comune facilitando la nostra appropriazione di essi).

2. Questo scenario consente di inquadrare, nella logica della famiglia digitale, almeno tre fragilità relative ad altrettante parole-chiave (denunciare queste fragilità non significa, naturalmente, disconoscere le enormi opportunità che i social media alla famiglia dischiudono).
a) Tempo. Non c'è più tempo per guardarsi negli occhi, la connettività perenne prolunga il tempo lavorativo ben oltre i suoi limiti con il duplice risultato di produrre una ferializzazione indiscriminata anche del tempo festivo e una colonizzazione anche di quei non-tempi che si sottraevano all'agire (quando non so cosa fare messaggio, telefono, gioco con la play-station, ...).
b) Spazio. Si è sovvertito il rapporto tra dentro e fuori. La comunicazione mediata pare più facile, rapida, efficace. Il risultato è un'estroflessione generalizzata di aspetti personali (pensiamo agli adolescenti in Facebook): alla difesa della privacy di noi adulti, i più giovani rispondo con una gigantesca fuga dal privato.
c) Relazione. La comunicazione si fa rapida, frammentaria, spesso superficiale (se è rapida, difficilmente può essere profonda). Mancano regole condivise che la possano disciplinare.

3. Quali ipotesi di intervento, allora? Ne indico quattro che meriterebbero di essere riprese ed approfondite:
- evitare il surriscaldamento affettivo. Essere troppo teneri, protettivi, remissivi, colloquiali non paga;
- evitare l'effetto-tenaglia. Non paga nemmeno costringere all'angolo, stressare, ripetere fino alla nausea raccomandazioni e divieti che poi magari non si ha la forza di far rispettare (le grida dei Bravi);
- conoscere i linguaggi e le culture. Evitare l'effetto di quella vignetta di Glasbergen in cui un padre dice al figlio che gli chiede se può tenere un blog: "Io e tua madre non sappiamo cosa sia un blog, in ogni caso te lo proibiamo!";
- promuovere una pedagogia del contratto. Una pedagogia del contratto non è sintomo di una resa, ma una strategia dialogica che consente al genitore di riaffermare il suo diritto all'asimmetria educativa, ma allo stesso tempo di promuovere la responsabilità dei figli attraverso il dialogo.

Monday, October 4, 2010

La didattica dell'esperienza


Sabato scorso sono stato invitato da carissimi amici a partecipare alla cerimonia di inaugurazione della loro fattoria didattica, la fattoria Cascina Pezzoli di Treviglio, in provincia di Bergamo. Come l’agronomo e gli altri convenuti hanno ben spiegato, oggi una fattoria didattica (come un agriturismo) rappresenta una forma di mantenimento (o di ampliamento) del reddito agricolo. Sono tempi difficili per chi vive del lavoro della terra: le quote-latte comunitarie hanno imposto una brusca riduzione degli allevamenti, l’urbanizzazione selvaggia ruba sempre nuovi spazi alla campagna, la tropicalizzazione del clima rende ancora più aleatoria la possibilità di giungere al raccolto senza danni. Ma certo una fattoria didattica non è solo questo. È anche (soprattutto) un’opportunità educativa e didattica per bambini e ragazzi che hanno spesso perso il contatto con la natura, non ne conoscono più i ritmi e i frutti. Non si tratta solo di educazione ambientale o storica (che si attinge nella ri-scoperta degli attrezzi di un tempo, del dialetto, dei racconti), si tratta di educare il bambino all'importanza dell'esperienza. Proprio all’insegna dell’esperienza, della sua centralità educativa, ho condotto la mia breve prolusione, partendo da due passi di Freinet, il “maestro” Freinet, che nel 1960 (La formation de l’Enfance et de la Jeunesse) scrive: «Oggi la nostra scuola entra nella vita circostante e ne diventa una componente. Per questo fatto, il fanciullo è automaticamente portato a ricondurre la propria attività nell’ambito di questa vita, il che costituisce sicuramente un fattore di equilibrio e di armonia. Se un cacciatore abbatte un uccello rapace, se un compagno trova un insetto, se un contadino dissotterra un fossile, la scuola riuscirà sempre a trarne un vantaggio. Al rientro, i ragazzi rivolgeranno ai genitori un’infinità di domande su cui dovranno riflettere. La scuola diventa un elemento attivo del villaggio e del quartiere». E nel 1964 (L’organisation de la classe): «Io ritengo (e l’esperienza me lo ha sempre dimostrato) che il fanciullo si educhi non già con le lezioni dall’esterno bensì con il tatonnement sperimentale, nel pieno della vita. Egli assomiglia al corso d’acqua che, all’origine, già possiede una sua forza e una sua portata la quale via via si arricchisce e si rafforza grazie agli apporti generosi dislocati lungo il percorso. Noi vogliamo partire proprio da questa vita. La nutriamo, la sviluppiamo, la arricchiamo».
In questi due brani si possono isolare tre parole-chiave: vita, attivo, tatonemment.

1. Vita. Mettere la vita al centro, nell’agire didattico, vuol dire:
- apprendimento spontaneo, non solo insegnato; cioè riconoscere che qualsiasi situazione quotidiana costituisce uno spazio importante per imparare (e questo vale ancora di più oggi, con lo sviluppo dei media digitali);
- necessità di uscire dall’ambiente scolastico, che è artificiale, per immergersi nei contesti reali;
- bisogno di ritornare all’esperienza senza mediazioni (quanto, invece, nel nostro tempo c’è di mediato nelle nostre conoscenze, nella nostra rappresentazione della storia, ecc-).
Il riferimento teorico obbligato, qui, è Vygotsky, la sua idea che l’apprendimento può avvenire solo in contesto.

2. Attivo. Il valore dell’attività in didattica implica:
- la capacità di andare oltre il libro e la forma-lezione. È ancora una volta Freinet a indicarlo con efficacia rintracciando proprio nel libro di testo e nella lezione i due elementi che più facilmente possono indurre passività negli alunni;
 - la capacità di mettere il bambino al centro, nel segno di quella rivoluzione copernicana dell’educazione che proprio l’attivismo pedagogico ha preparato e voluto.
Anche qui un riferimento teorico è d’obbligo: Dewey, nello specifico la sua idea del learning by doing, dell’apprendere facendo come forma più efficace di problem solving.

3. Tatonemment. Anche qui due sottolineature:
- toccare, tastare, rappresenta il modo più naturale che il bambino ha di apprendere. La centralità dell’esperienza significa quindi collocare l’azione di insegnare in continuità con quella dell’apprendere e fare tutto questo secondo i modi e le forme che al bambino sono più familiari;
- oltre a ciò, fare centro sull’esperienza significa andare al cuore del metodo sperimentale (ipotesi, esperimento, verifica), farne lo strumento attraverso il quale il bambino costruisce conoscenza. Piaget e l’idea che l’apprendimento per scoperta è quello più efficace si impongono a questo livello come riferimento teorico.

Sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda non significa “tornare a Freinet”, ovvero fare un’operazione un po’ vintage di recupero del passato, quanto piuttosto creare le condizioni perché il nostro fare scuola provi a formare quella che si può ritenere la competenza-chiave, ovvero la capacità di gestire il proprio sapere come un processo. Questo vuol dire essere creativi, sapersi confrontare con la complessità, apprendere nella relazione con l’altro, coltivare l’attitudine all’indagine. La didattica laboratoriale che nella fattoria didattica si può fare risponde a queste esigenze: sviluppa la creatività permettendo ai bambini di esprimere le loro emozioni e di riappropriarsi del piacere del fare; li pone di fronte alla complessità di un mondo, quello rurale, che è fatto di saperi, culture, tecnologie; sviluppa la dimensione relazionale nella collaborazione e nel lavoro per gruppi; infine, avvia all’indagine proprio grazie al principio dell’esperienza.