Saturday, May 12, 2012

Narrazioni digitali e Media Literacy



Ho partecipato a Torino, nell'ambito delle iniziative previste in occasione del Salone del Libro, a un convegno sul tema "Narrazioni mediali e Media Literacy". L'evento era organizzato dagli amici di Antenna Media, ufficio di rappresentanza per l'Italia dei  programmi della Commissione Europea sulla Media Literacy. Nel mio intervento ho messo a tema proprio il concetto di narrazione, in riferimento ai media digitali, provando a verificarne le specificità comunicative e le aderenze con l'educazione mediale.
Il concetto di narrazione neomediale comprende fenomeni diversi: le narrazioni della tv interattiva (perché nell'epoca dei media digitali la televisione è costantemente impegnata
 in un processo di continua ibridazione e ridefinizione del suo statuto rappresentativo), ma anche quelle dei blog, di Facebook, di Twitter, di Youtube.
Quali le caratteristiche distintive di queste narrazioni? Tra le tante possibili ne individuo tre che mi paiono particolarmente significative.
1. Anzitutto esse sono narr-azioni. Questo significa che l'attenzione si sposta dal contenuto, dai racconti, e si concentra sulla relazione, sulla dimensione fatica, sull'agire performativo. Con Jakobson, ha natura fatica quella comunicazione la cui funzione non è tanto di e qualcosa o di riarsi alle cose, quanto piuttosto di mantenere aperto il canale di comunicazione con l'interlocutore, di garantire il contatto. Per la pragmatica, invece, è performativa quella comunicazione che più che pensare alla comprensibilità dei suoi significati, lavora a che i suoi effetti siano efficaci. Sinteticamente - recuperando una suggestione dell'ultimo McLuhan - possiamo dire che le narrazioni neomediali sono spesso più massaggi che messaggi.
2. Le narrazioni neomediali sono anche narrazioni sociali. Non ci sono più i Padri da ascoltare, l'ethos e il nomos del popolo da trasmettere, ma tutti raccontano e si raccontano. Le narrazioni tradizionali erano grandi racconti, recavano iscritto il senso e il valore dell'autorità, erano narrazioni verticali in cui normalmente l'asimmetria (di esperienza, di età, di prestigio sociale) pesava in favore dell'adulto. Narrazioni orizzontali, oggi le narrazioni neomediali sono spesso più happening che spazio per la trasmissione culturale.
3. Narrazioni senza Memoria. Le narrazioni neomediali non sono più lo spazio in cui si materializza la memoria sedimentata, si può incontrare la storia, ma luoghi in cui galleggiare sul presente e mettere in circuito le memorie biografiche individuali, spesso a metà tra tentazione narcisistica e ripiegamento calligrafico. Allo stesso tempo, però, la presa diretta con l'attualità fornisce alle narrazioni neomediali una terribile forza performativa: basta pensare al rapporto tra Twitter e la primavera dei popoli arabi, o alla relazione dei risultati delle recenti elezioni amministrative con un certo uso della blogosfera. Le narrazioni neomediali sono cronaca, irruzioni nel presente, oscillano tra la leggerezza del disimpegno e la drammatica urgenza della convocazione.
Cosa comporta tutto questo dal punto di vista mediaeducativo?
A questo riguardo vedo materializzarsi alcune esigenze che assumono le forme di altrettante frontiere.
1) La prima è la frontiera etica: se la narrazione produce effetti, aggira le mediazioni, si fa emotivamente autoriale, l'azione educativa non chiede più solo che venga sviluppata la consapevolezza critica, ma che maturi la responsabilità di chi non è più solo consumatore, ma diviene consum-attore.
2) La seconda frontiera è metodologica: gli strumenti di analisi vanno riadattati per farli funzionare su forme neotestuali fluide, collettive, disarticolate. Cosa significa oggi fare un'analisi di un profilo in Facebook, di un filo di discussione in Twitter, di un social network?
3) Infine va considerata la frontiera politica: la dialettica tra passato e presente, tra disimpegno e convocazione, attiva la cittadinanza chiedendo alla Media Literacy di diventare educazione civile. Si tratta di un concetto su cui sono spesso tornato e di cui sno sempre più convinto.

Wednesday, May 9, 2012

Tifo, festa, appartenenza



Domenica sera ero in piazza. Come me i miei figli. Avevamo appena vinto lo scudetto, dopo sei anni, dopo la serie B, dopo due stagioni finite in maniera mediocre, dopo aver disperato che saremmo mai tornati. Maglia e sciarpe indossate subito dopo il fischio finale, giusto il tempo di vedere Chiellini soffocato dall'abbraccio dei tifosi e via nel corteo dei tifosi. 
Bambini con cappelli bianconeri a tre punte, trattori a trombe spiegate, scooter con a bordo gli stessi passeggeri che troverebbero posto in una utilitaria. Una folla variopinta. In tutti la voglia di urlare la propria felicità, di trovare un motivo per fare festa, per rivendicare una appartenenza. 
In prossimità della piazza il corteo frena, si ferma. Auto di traverso, parcheggiate dove capita. Al centro della piazza la festa vera del tifo. Cori, "chi non salta è milanista, è". I miei figli incontrano amici, tutti juventini, tranne uno, infiltrato, tifoso del Milan. Poche parole, complimenti di rito. Dalla piazza parte un coro all'indirizzo di Allegri. Il ragazzo annuisce: "Hanno ragione". Poi guarda un gruppo di ragazzi magrebini tra i più accessi, avvolti in maglie e bandiere bianconere: "Erano qui anche l'anno scorso. Facevano festa con noi". 
Fare festa, rivendicare un'appartenenza. C'è un filo invisibile che lega il tifo, l'appartenenza sportiva, con le logiche e le pratiche della cittadinanza e dell'inclusione in una società multiculturale. Per quei ragazzi il problema non è essere della Juve o del Milan, ma sentirsi parte di qualche cosa, trovare un motivo per scendere in piazza. Una questione chiave soprattutto per le seconde generazioni, nate nel nostro Paese, che per una serie di ragioni non si sentono più parte della cultura dei padri ma che per un'altra serie di ragioni avvertono di non essere pienamente "pari" dei loro coetanei. Mentre lasciamo la piazza ci penso e rifletto che il dispositivo è in fondo lo stesso anche per noi. Sentirsi parte di una storia, riconoscersi. Come diceva Vujadin Boskov: "Noi siamo noi, loro sono loro". Un progetto ma allo stesso tempo un problema educativo.