Sunday, May 19, 2013

Il cervello matematico


Venerdì e sabato scorsi sono stato ospite del Festival dell'Innovazione sostenibile di Forlì. L'invito è stato motivato dal mio libro Neurodidattica, nel quale lo scorso anno avevo raccolto il risultato delle mie letture e della mia ricerca in relazione al rapporto tra i processi didattici e di apprendimento e il contributo delle neuroscienze cognitive. Infatti la sezione del Festival nella quale sono stato chiamato a portare il mio contributo discuteva del rapporto tra apprendimento della matematica e neuroscienze.

1. Non mi sono occupato mai di didattica della matematica. Ma spesso ho usato la matematica per fare un esempio agli insegnanti in formazione di cosa significhi insegnare qualcosa in maniera decontestualizzata. O meglio. Sono le loro domande che mi hanno preceduto, subito dopo che magari avevo spiegato che un apprendimento per essere efficace e significativo dev'essere contestualizzato, non astratto: "Ma come si può rinunciare all'astrazione in matematica?". A questa domanda, qualcuno nel seminario forlivese, pare aver dato risposta a conferma, sostenendo che l'apprendimento della matematica è per forza innaturale: in fondo dell'astrazione non si potrebbe fare a meno! Eppure Enriques, la Castelnuovo, dei grandi matematici (e didatti della matematica) sembrano essere di avviso contrario. E le neuroscienze danno loro ragione. La nostra conoscenza è situata, muove sempre dal corpo, anche quando è astratta. Contestualizzare gli apprendimenti non significa necessariamente proiettarli su uno scenario real life: basta collocarli in situazione. La palla torna agli insegnanti di matematica!

2. Il "cervello matematico" non esiste. Nel senso che l'unica capacità matematica innata che abbiamo si riduce a un grappolo di neuroni localizzati nel solco intraparietale. Quei neuroni sono responsabili di quello che si chiama in termine tecnico "senso del numero". Esso consiste nella capacità che il bambino dimostra fin da piccolissimo (e che come specie condividiamo con altre specie) di distinguere piccoli numeri: l'1 dal 3, il 3 dal 5. Non è ancora un contare: è semplicemente capire che 1 è meno di 3. Evolutivamente  è molto probabile che questa capacità si sia fissata per ragioni di sopravvivenza: se loro sono 3 e io sono 1 meglio scappare; 3 mele sono meglio di 1 se sono affamato.

3. I neuroni che si trovano nel solco intraparietale non sono gli unici a essere coinvolti nel calcolo e nel ragionamento matematico. Nel cosiddetto "modello del codice triplo" i neuroscienziati (come Stanislas Dehaene) dimostrano che insieme a quei neuroni se ne attivano di altri due tipi: quelli che presiedono al linguaggio verbale (nell'area di Broca, emisfero sinistro), quelli che popolano le aree delle visione in zona occipitale. Questo significa che la matematica (e il suo apprendimento) non è solo questione di "neuroni del numero" (sempre quelli del solco intraparietale che durante la vita vengono "riciclati", "insegnando" loro a svolgere nuovi compiti), ma anche di visione e di linguaggio. Se non si riescono a "vedere" le figure geometriche, o le soluzioni, è difficile sviluppare attitudine per la matematica. Lo stesso vale per il linguaggio: è dimostrato che molto di quel che non si capisce quando si fa matematica riguarda la comprensione linguistica. Insomma nelle relazioni tra questi tre "codici" (numerico, visivo, linguistico) si celano i misteri dell'apprendimento matematico. Chi ha "il pallino" dei numeri, in fondo, lo deve in qualche modo anche alla sua capacità di gestire i codici linguistico e visivo.



4. Il bambino dagli 0 ai 10 anni, quando lavora sulle grandezze matematiche, lo fa impegnando la zona frontale e prefrontale del cervello. Questo significa che l'attenzione, la concentrazione, la riflessione giocano un ruolo fondamentale. Poi, man mano si cresce, si apprendono routines di soluzione, si memorizzano informazioni, e allora buona parte dell'attività di problem solving si sposta in zona parietale posteriore. In questo modo si lasciano liberi i lobi frontali di fare il lavoro di maggiore qualità. Cosa suggerisce questo, in termini didattici? Almeno un paio di cose. Anzitutto che il ruolo della memoria (ad esempio, le tabelline) è fondamentale, così come l'apprendimento di regole di soluzione, piccole routines. In secondo luogo che il ruolo dell'insegnante è fondamentale, forse ancor più che nel caso delle altre discipline.

Saturday, May 4, 2013

I limiti del visibile


Questa mattina si è concluso il secondo di due week end dedicati alla media education nell'ambito del corso di alta formazione che in Università Cattolica, insieme agli amici di Contorno Viola, stiamo conducendo sul tema della Peer & Media Education. Tra i vari temi che sono stati messi in discussione uno è tornato più volte: quello dei limiti del visibile. Mi spiego meglio. Mella giornata di venerdì, con i partecipanti (e, tra i formatori, con l'aiuto di Michele Marangi e Simona Ferrari) abbiamo lavorato sull'analisi di Facebook. Nello specifico abbiamo provato a far funzionare un doppio livello di analisi: il primo livello, semiotico, ci ha fatto riflettere sul profilo del Soggetto Enunciatore e sulla costruzione del Lettore Modello per comprendere i meccanismi di costruzione identitaria all'opera e le strategie di comunicazione attivate con gli "amici" che visitano il profilo; il secondo livello, conversazionale, ci ha portato a ragionare sul contenuto dei post, la loro frequenza, le conversazioni, i commenti, i tags, le condivisioni. A margine di questo lavoro, la domanda che da più corsisti è emersa era relativa al diritto dell'operatore di "entrare" nel privato delle persone attraverso l'analisi dei profili, anche se questo "lavoro" in fondo pare giustificarsi sulla base dell'intervento educativo stesso. Ho provato a rispondere delineando una sintetica storia del modo in cui i media, dall'avvento del cinema in poi, hanno articolato il visibile.

1. La categoria del visibile è sorliniana. Il visibile è quel che si vede quando si guarda un'immagine. Pierre Sorlin, in quel libro straordinario che è Sociologia del cinema, studiando il cinema del neorealismo, nota che nelle immagini di Rossellini, di Zavattini, di De Sica, quel che forse è più interessante non è tanto quello che il regista vuole farci vedere, quanto piuttosto quello che vediamo sullo sfondo delle vicende: ovvero l'Italia del secondo dopoguerra. Marc Ferro, storico delle Annales, lavorando sulla cinematografia sovietica degli anni Venti estende il concetto di visibilità a quel che nell'immagine non si vede. In buona sostanza: il visibile è quel che l'immagine mette in quadro e, allo stesso tempo, è il modo in cui consente allo sguardo dello spettatore di articolarsi. Notando che sempre al vedere corrispondono un sapere e un credere.

2. Il cinema classico, da Meliès agli anni '50, come faceva osservare Francesco Casetti nelle sue lezioni quando ero un giovane studente di filosofia interessato al cinema, costruisce lo sguardo dello spettatore in base alla massima: "Si vede quel che si vede!". Il vedere del cinema classico è un vedere certo, sicuro; mette in forma un sapere altrettanto sicuro, oggettivo; non c'è motivo di non credere che le cose stiano così come ci vengono fatte vedere. Quel tipo di sguardo, con il cinema moderno, viene corretto. Nel cinema moderno (il cinema degli anni '60, di Godard e Truffaut, di Bergman) "si vede come si vede": cioè il cinema "smonta" il suo proprio dispositivo, svelando il set, mostrando i microfoni in scena, facendo guardare in macchina gli attori. Il vedere del cinema moderno è un vedere problematizzante, critico; esso predispone un sapere di secondo livello, decostruttivo; il credere viene smontato, indebolito, sostituito dall'esercizio metodico del dubbio.

3. Il cinema postmoderno e la neotelevisione cambiano ancora le cose. In questo caso vale sempre più che "si vede quel che si vuole vedere". Il visibile si riduce al frammento che può essere isolato dal flusso entro cui è inserito, ricontestualizzato (come nella citazione postmoderna o nel blob), rimontato all'infinito in un gioco di continue risignificazioni. Il sapere che viene predisposto è un sapere locale: quel che so, lo so relativamente a quello che vedo e solo nel momento in cui lo vedo. Chiunque può fare altrettanto senza margini per una comparabilità, per una valutazione che in qualche modo consenta una generalizzazione. Il credere è labile, si consegna alla volontà e all'intenzione, si legittima autonomamente.

4. Quale tipo di sguardo predispongono internet e il social network? Qual è il visibile di Facebook? Giocando sui termini, mi verrebbe da dire che in Facebook "si vede quel che ci viene fatto vedere". In qualche modo questo significa tornare a recuperare lo sguardo del cinema classico, ma con una differenza sostanziale. Quello sguardo portava iscritto un progetto autoriale forte, eticamente consapevole. Nel cinema classico, come Bazin faceva notare, i due tabù della rappresentazione (l'amore e la morte) non vengono mai trasgrediti: si vede quel che si vede, ma nei limiti che al visibile impone il Soggetto Enunciatore. Nell'infosfera, nel social network, al visibile non vengono imposti limiti. Il problema passa al lettore, all'utente: è alla sua responsabilità che sta di ridefinire eticamente quei limiti che il visibile di suo non possiede più. Ecco perché più volte mi è capitato di ribadire che oggi la vera frontiera della media education non è quella del senso critico, ma della responsabilità. Dalla provincia ideologica si deve passare senza esitazioni alla provincia etica.