Friday, May 31, 2019

Viaggio a Kobe

1. L'aeroporto di Osaka è sul mare. Costruito su un'isola artificiale su progetto di Renzo Piano: sulla terra ferma non ci sarebbe stato un metro di spazio. La sala arrivi è piena di personale con la mascherina calata sulla bocca e sul naso. Il controllo passaporti prevede la lettura dell'iride e dell'impronta digitale: ma ad assisterti c'è una giovanissima donna che ti sorride di continuo; se è una guardia di frontiera non te ne accorgi proprio. Ossessione per il contagio e gentilezza sconfinata: la prima immagine del Giappone.
Il bus che ti porta a Kobe non esce mai dall'abitato: per un'ora e mezza i docks del porto sulla sinistra e case e grattacieli sulla destra. Keihanshin, l'agglomerato urbano di Osaka (che comprende Kobe e Kyoto) è un continuum urbano di 17 milioni di abitanti, il secondo del Giappone dopo Tokio.
Trovata sistemazione in albergo (una stanza piccolissima dove è difficile, quasi, girarsi) si esce. Il contrasto (e l'incontro) tra Occidente e Oriente, tradizione e futuro, è dappertutto: piccoli templi buddhisti e shintoisti si aprono all'improvviso tra i grattacieli. Sopraelevate a tre, quattro livelli, sottopassi e sovrappassi pedonali: Blade runner è il presente, ma senza angoscia, solo dinamismo, velocità, vita che pulsa dappertutto. Sul muro di una casa un murale condensa un intero manuale di psicologia dell'interazione in rete o di sociologia delle relazioni al tempo di internet.



All'imbrunire le insegne luminose ridisegnano il profilo dei palazzi e compare un'altra città. C'è tempo per il sushi. Sapori e varietà sconosciute: quello che si mangia da noi è un surrogato, anzi,
forse proprio un altro cibo. Ancora sorrisi. Notte.



2. La Shinwa University si trova in un sobborgo di Kobe. Case basse, senza imposte, senza cancellate. La si raggiunge in bus, attraverso una lunga galleria che ti fa entrare nel cuore della città e uscire nel verde lussureggiante di una foresta urbana; poi ancora case, finalmente l'entrata del campus.
Saluti accademici, e ancora sorrisi. Chiunque nel campus sorride e saluta: "Buongionno!". Erano stati avvisati del nostro arrivo e istruiti. Come in una recita ben preparata sorrisi e saluti: "Buongionno!".
Visitiamo la biblioteca, che conserva incunaboli e libri antichi di straordinario valore, come una copia a mano illustrata della fiaba tradizionale giapponese della Principessa della luna. Le mie studentesse la riconoscono: è uno dei loro cartoni animati d'infanzia. I miei erano Atlas UFO Robot e Mazinga: scarti generazionali. Accanto ad essa la prima edizione di Rashomon, il romanzo di Ryosuke Akutagawa che suggerì al maestro Akira Kurosawa lo spunto per il suo omonimo capolavoro: un apologo sulla verità che non si possiede mai fino in fondo ma costringe a un lungo lavoro di analisi e di confronto. E poi una splendida copia illustrata di Lost Paradise di Milton. Ancora una volta Oriente e Occidente.



3. Troviamo il tempo per sbirciare dentro la sala da tè didattica dell'Università: qui si insegna alle studentesse l'antica arte, con i ritmi e le forme della cerimonia. Un mondo senza differenze sociali quello della sala da tè: senza rumori, isolato, una sorta di limen in cui tutto è sospeso, il tempo come il ritmo della vita ordinaria. Insegnarne il senso oggi, nella società dell'accelerazione, è di fondamentale importanza. Anche se poi quella giapponese è una società che fila velocissima, un intricato e ordinatissimo incrocio di vite che rimbalzano da una parte all'altra dello spazio urbano, orme che disegnano l'orientamento delle file nelle stazioni della metropolitana, gente che corre in silenzio (perché negli spazi pubblici regna un silenzio surreale) e alla sera con la cravatta allentata si infila in un locale a prendere un ramen, spesso con la faccia rivolta alla parete.



4. Di pomeriggio il primo incontro delle studentesse giapponesi con i nostri studenti. Hanno preparato un piccolo spettacolo. Prima suonano per noi con il loro ensemble. Poi ci dedicano quattro canzoni in giapponese. La grazia, le voci struggenti, e ancora i sorrisi emozionano tutti: non trattengo le lacrime all'accenno di Tomorrow. L'applauso è scrosciante e ripetuto. Poi studenti italiani e giapponesi si mischiano, fanno dei giochi insieme. Ancora il tempo che alcuni dei miei allievi presentino la nostra Università e il nostro corso di laurea. Adesso la commozione mi prende perché vedo quanto sono cresciuti negli anni dei loro studi: provo orgoglio mentre li osservo parlare, rispondere alle domande. Ancora una volta mi dico che sono loro ciò che mi fa amare questo mestiere: senza non potrei stare, anzi, probabilmente avrei già fatto altro.


5. La sera è tempo di manzo, manzo di Kobe. Uno spettacolo, non solo per la qualità di questa celeberrima carne, ma per il vero e proprio rito cui ci è dato di assistere davanti a noi. Il giovane chef taglia il manzo e le verdure con una precisione chirurgica, poi le dispone sulla piastra di cottura come un pittore con i colori sulla tavolozza, infine consiglia come mangiare: carne da sola, con il wasabe, con l'aglio fritto e tagliato a fettine sottilissime. La cucina in Giappone è un'arte, mangiare un'esperienza estetica. Ne ho avuto conferma anche al Sushi Restaurant del Plaza e al diciottesimo piano della Harbour Tower durante una cena a base di shabo shabo: brodo che bolle al centro della tavola, i commensali che vi scottano la carne e le verdure. Intorno donne vestite in kimono tradizionali si muovono veloci, precise e silenziose, portando via i piatti e curando che tutto proceda per il meglio. Usciamo accompagnati da un cameriere che in un inglese improbabile ci invita a tornare. Inchini. Sorrisi. Notte.



6. Due giorni passati tra una scuola dell'infanzia e le aule dell'Università Shinwa ci restituiscono un'immagine dell'educazione giapponese fortemente basata sul gioco e sulla musica come occasioni per fissare le routines e formare le pratiche. Tutti apprendono vedendo fare. L'insegnante (anche all'Università) è poco protagonista: non fa lezione, ma supporta e commenta il lavoro fatto. In aula le studentesse sono spesso chiamate a simulare, con le compagne a fare la parte dei bambini.
I quadri teorici non si vedono o non vengono esplicitati: tutto è molto laboratoriale, dalla musica alle scienze, dalla lingua giapponese alle didattiche agite.
La didattica è ripartita in 5 grandi aree, che sono poi le stesse delle Indicazioni Nazionali:
1) Arte ed espressione
2) Relazioni sociali
3) Salute
4) Sostenibilità e ambiente
5) Linguaggi (cultura e tradizione).


7. I bambini... sono bambini. Socializzano subito. Dopo pochi minuti giocano con gli amici italiani parlandoti in giapponese, come se li capissi. Li guardiamo svolgere una lezione di salto ritmico: musica, ritmo scandito dalla maestra con le mani e loro che saltano dentro e fuori delle aste di legno appoggiate sul pavimento. Stupiscono la coordinazione, la concentrazione, la capacità di stare in fila ad aspettare il proprio turno: tutto in bambini di 5 anni.


L'applicazione, la tenacia, l'ordine, sono il contenuto dell'imprinting che questi bambini ricevono fin da piccolissimi. Come suggerisce l'haiku del poeta giapponese Matsuo Basho (1644 – 1694):

Prendiamo
il sentiero paludoso
per arrivare alle nuvole.


Di quest'etica insegnata fin da piccolissimi ci siamo accorti visitando il Centro Educativo della Shinwa: uno spazio in cui educatrici di prima infanzia e tirocinanti dell'Università offrono gratuitamente alle mamme del quartiere e ai loro bambini un'occasione per crescere e confrontarsi.

8. L'isola di Awaji è collegata alla più grande isola di Honshu (su cui sorge Kobe) dal ponte sospeso più lungo del mondo. Raggiungiamo uno dei più famosi teatri di Joruri del Giappone. Il Joruri (o Bunraku) è un teatro di marionette: grandi, articolate, con la testa e il volto che si aprono in mille espressioni. Le animano tre artisti per ciascuna, vestiti di nero nel tradizionale shinobi shozoku: il primo, l'omozukai, muove la testa e la mano destra; il secondo, l'hidaruzukai, muove il braccio destro; l'ultimo, l'ashizukai, si occupa della parte bassa del corpo. Fuori scena un suonatore di shamisen (la tradizionale chitarra verticale giapponese) accompagna la voce di un cantastorie.
Nel teatro di marionette, come nel kabuki, l'azione è rarefatta e il dramma dei personaggi è tutto interiore: di qui l'importanza di conoscere la notazione simbolica di cui i burattinai si servono per far piangere o ridere il loro doppio.


9. Kyoto è stata una delle capitali del Giappone. Ne testimoniamo l'antico splendore i molti templi e il palazzo dello shogunato. Si entra scalzi e si segue la successione delle stanze: anticamera, sala di attesa, sala delle udienze, sale private. Sulle pareti, interamente coperte di foglie d'oro, colpiscono le tigri, i pini d'inverno, i sakura (i ciliegi): la grafica è modernissima, rende chiare le riprese che ne farà l'art nouveau, a tratti anticipa le geometrie astratte di un Mondrian o di un Klee. Prima di rientrare ci dirigiamo al grande tempio dei 1001 Buddha. L'effetto è di vero e proprio choc estetico: 1001 Buddha di cipresso dorato allineati popolano la stanze lunga e stretta del tempio. Solo un'altra volta ero rimasto preda di questo vero e proprio stato di stordimento: a Xian, davanti all'esercito di terracotta dell'imperatore Qin.

Risultati immagini per 1001 buddha

10. I miei studenti e le mie studentesse hanno dato vita a una discussione serrata. Da una parte chi sostiene che il sistema giapponese è skinneriano: attraverso la ripetizione, trasforma l'intera impresa educativa e didattica in una serie di routines il cui obiettivo è di generare ordine, rispetto delle regole, interiorizzazione delle pratiche in forma di habitus. Dall'altra parte chi invece coglie gli aspetti positivi: sviluppo di autonomia e responsabilità del bambino, correzione del nostro eccesso di teoria con la pratica.
Probabilmente occorre guadagnare distanza dagli estremi. Nelle scuole primarie visitate abbiamo imparato che in Giappone i bambini vanno e tornano da scuola non accompagnati, abbiamo visitato aule di tecnologia dotate di seghe circolari e di cucine per le attività domestiche, abbiamo visto forbici in mano a bambini di 4 e 5 anni, tinozze con dentro gamberi di acqua dolce alla scuola dell'infanzia e bimbi che li prendono in mano e li accarezzano sul ventre.



Alla nostra domanda su come si garantiscano dai rischi, la risposta è disarmante: "Li informiamo sempre prima, spiegando loro cosa non debbano fare". Il controllo sociale, la ripetizione e le regole servono a questo. Ma finiscono anche per condannarti a reprimere i sentimenti, a vivere con l'angoscia di non essere all'altezza delle aspettative o della considerazione sociale.
Le emozioni compresse da tutto il dispositivo sociale devono in qualche modo liberarsi.
Così dopo cena i marciapiedi delle vie del divertimento si popolano di ragazze "buttadentro" - vestite da Kung-fu Panda, da poliziotte, da infermiere - che invitano i passanti in locali in cui si paga perché una ragazza ti appoggi la testa sulla spalla, sulle gambe, per mettere una mano...  Ma ne vediamo anche l'esito bello e più commovente la sera del nostro addio: le ragazze della Shinwa che cantano per noi con le lacrime che rigano loro il volto. Finiscono. L'applauso è lungo. Tutti si abbracciano. Adesso le convenzioni sociali sono lontane: ci sono loro con le loro amiche italiane, e basta.

11. Anche Nara è stata una delle capitali dell'Impero, tra il sec. VII e il sec. IX. Oggi è un parco archeologico, botanico, faunistico unico al mondo. Templi buddhisti e santuari shintoisti sorgono nel verde di una foresta urbana mentre centinaia di cervi si muovono liberi tra i turisti, si lasciano accarezzare, prendono il cibo dalle tue mani. Il cervo a Nara è sacro fin dalla fondazione della città tanto che fino al 1637 ucciderne uno comportava la condanna a morte. La leggenda narra che uno dei quattro dei del santuario Kasuga, Takenomikazuchi-no-mikoto,fosse stato invitato a Nara dalla città di Kashima e che esso sia apparso sul Monte Mikasa-yama a cavallo di un cervo bianco. Secoli di tranquillità producono oggi un fenomeno che non si può ammirare in nessun altro posto al mondo.



12. Sera prima della partenza. Wakako, la nostra interprete, ha scelto un locale caratteristico. Siamo in una saletta riservata, circondati da separé e seduti su piccole panche sotto le quali il pavimento si apre per alloggiare i piedi, rigorosamente senza scarpe. Si mangia sukyiaky. Mi chiedono un brindisi. Poche parole per dire quanto tutto il viaggio sia stato straordinario. Poi mi ritrovo davanti alla pentola del brodo: scotto e smisto fettine di carne, funghi, tofu, verdure. L'atmosfera è conviviale. Si ride, si scherza. Adesso è la mia volta di chiedere a tutti una parola, alzandosi in piedi sulla panca. Vedo sfilare davanti a me i miei tutor e i miei ricercatori, i miei studenti: li ascolto, li osservo orgoglioso e commosso come in una riedizione dell'ultima scena dell'Attimo fuggente. Come in quel caso, a nostro modo, siamo anche noi una piccola Dead Poets Society. Abbiamo deciso di giocare senza maschera, di essere veri. Commento che questo, in fondo, dovrebbe essere l'universitas: non un'istituzione che eroga corsi, ma studenti che scelgono i loro docenti; una comunità, una compagnia. Cum pane, appunto: mangiando insieme, condividendo.
Adesso siamo tutti in piedi sulle panche. Braccia in alto. Si canta a squarciagola e si accompagna con i gesti "Gamberi e granchi": l'abbiamo imparata con i bambini di cinque anni e ce la riportiamo a casa come una sorta di inno del viaggio. Il ristoratore ci ha rinunciato: la caciara italica si impadronisce di tutto e di tutti, anche di Wakako, che ormai balla, grida e piange senza più traccia di alcuna composta giapponesità.
Si chiude al karaoke: tutti insieme, cantando e ridendo. Ragazzi puliti, anche nel divertimento. Poi siamo fuori nella notte di Kobe. Poca voglia di rientrare. Forse sarà after, come dicono i giovani. Il tempo ora è disteso, quasi fermo. Tempo di formulare auguri per chi torna e per il futuro di questi ragazzi e ragazze.

Domani maestri:
siate come ciliegi
sempre fioriti