Marc Prensky è l'autore di un articolo, Digital natives, digital immigrants, che ha segnato gli ultimi anni del dibattito sulle tecnologie dell'educazione. In quell'articolo, adottando una metafora normalmente usata per spiegare le migrazioni di popoli (o la differenza tra un madrelingua e qualcuno che la lingua l'ha imparata già avanti con gli anni), Prensky addebitava al fatto che in mezzo alle tecnologie i più giovani ci fossero nati, una serie di gap difficilmente componibili con il molto adulto: usi differenti delle tecnologie, stili cognitivi differenti, culture differenti.
Sulle due categorie dei nativi e degli immigranti sono sempre stato abbastanza critico e in un paio di post in questo blog già le avevo criticate. Le ragioni sono tre:
1) alcuni adulti stanno diventando nativi. Pensiamo all'uso del cellulare per messaggiare i figli, alla massiccia presenza nel social network, all'i-pod attaccato anche alle nostre orecchie, non solo a quelle degli adolescenti. Insomma, proprio come quando si studiano le culture altre sul campo, anche noi stiamo via via "going natives", diventando nativi;
2) diverse ricerche recenti dimostrano che l'uso delle tecnologie non separa ma avvicina le generazioni. Pensiamo al videogame come spazio conviviale tra genitori e figli, al cellulare come oggetto di negoziazione e quindi di dialogo, al social network come occasione di creare complicità e condividere interessi;
3) infine, l'esperienza dell'adulto immigrante, a prescindere dalla sua bravura nell'uso dei media, può essere utile al nativo per promuovere la sua riflessione, per invitarlo a pensare le sue pratiche, insomma per fargli maturare senso critico.
A distanza di un po' di anni da quell'articolo, Prensky, motivandola su per giù con le stesse motivazioni, accoglie quest'idea e riconosce in un nuovo articolo che quelle due categorie hanno fatto il loro tempo. Per superarle Prensky propone tre nuovi profili:
a) quello del saggio digitale (digital wisdom). Si tratta di un utente, giovane o anziano che sia, capace di un uso critico e responsabile delle tecnolgoie digitali;
b) quello dello smanettone digitale (digital skilness). E' colui che possiede le competenze tecniche già attribuite al nativo: rapido, esperto, dotato di grande dimestichezza rispetto ai diversi supporti;
c) quello dello stupido digitale (digital stupidity). E' colui che delle tecnologie fa usi impropri, dannosi, trasgressivi; o anche colui che rifiuta apriori di avvicinarsi ad esse ritenendole fonte di tutti i mali.
Il problema per Prensky è tendere verso la saggezza digitale e trovare il mondo di accompagnarvi tutti. Si tratta di una questione che ci suggerisce in conclusione tre sintetiche considerazioni.
Non mi sembra vi sia molta differenza tra la saggezza di cui Prensky parla e l'obiettivo che da decenni la Media Literacy si propone: responsabilità, senso critico, consapevolezza nell'uso dei media sono da sempre "nel mirino" di un movimento vastissimo e con una tradizione enorme.
Sicuramente la saggezza digitale corrisponde a quell'idea di competenza digitale cui la Comunità Europea pensa quando la indica all'interno del framework delle competenze di cittadinanza.
Infine, proprio prendendo spunto da quest'ultimo cenno, mi pare che la competenza digitale (la saggezza digitale) costituisca oggi un problema importante non solo dell'educazione ai media digitali, ma dell'educazione alla cittadinanza tout court.
Carissimo prof,
ReplyDeletesono una Tutor lim... e oltre.
Mi trovo d'accordo con la sua analisi; anch'io lo scorso anno, riflettendo sul progetto MIUR Cl@ssi 2.0, partendo da Prensky scrivevo:
NATIVI - IMMIGRATI SCAMBI POSSIBILI
(...)È utile confrontare ciò che avviene quando si cerca di imparare una "lingua straniera": se si può si "osserva e copia" l'uso dei nativi; se no si studia. Tuttavia chi apprende una lingua altra, continua a pensare nella sua lingua madre e a "tradurre" in qualche modo passando prima da una sorta di interlingua, adattando differenze e somiglianze con la "grammatica" originaria...
I non nativi digitali per certi versi sono avvantaggiati perché costretti a vivere in una sorta di full immersion nella lingua digitale... eppure non potranno mai uscire dalla situazione di non nativo.
Tuttavia, lo scambio tra "culture" è sempre positivo e permette degli slanci in avanti che favoriscono entrambi (la lingua vive di ciò): il non nativo (non passivo) assorbe, medita ed è portato alla scoperta della "grammatica", ciò può rendere la sua competenza meno immediata, meno "naturale" ma più consapevole (è il docente)..
Il nativo corre il rischio di saper fare bene, molto bene, ma senza riflettere sulle implicazioni (è l’alunno).
Scambi tra nativi e migranti da sempre hanno cambiato (a volte anche in modo doloroso) il modo di intendere la conoscenza e la vita degli uomini.
La questione si ripropone continuamente anche se l'inversione di marcia di Prensky, saggia dopo 10 anni di "verifiche" sul campo di quelle concettualizzazioni (che anche a me erano sempre sembrate deboli), dovrebbe suggerire l'abbandono di tale riferimento. Ma si continuano a pubblicare libri .... Ho recentemente rilanciato la questione su FB (http://www.facebook.com/#!/gianni.marconato/posts/10150112590063513 ma anche in altri thread che si sono collegati) con sostanziale accordo sulla "non esistenza" del ND. Per voce di tanti insegnanti avveduti ed evoluti. La questione per me si pone, ora, per la formazione dello stereotipo del ND, che come tutti gli stereotipi è dannoso. Ci sto riflettendo ... leggo, quindi, con piacere se pur in ritardo, questo tuo post
ReplyDeleteti ho linkato qui:
ReplyDeleteUna interessante classificazione