Tuesday, October 25, 2011

Fare scuola in ospedale


Da qualche mese il CREMIT, il centro di ricerca che dirigo in Università Cattolica, sta prendendo parte a un percorso di formazione che l'USR della Lombardia ha attivato per i dirigenti e gli insegnanti delle scuole lombarde che hanno una sezione di scuola in ospedale. Si tratta di un percorso importante sotto tanti punti di vista: da quello organizzativo (il percorso si è aperto con una ricerca volta alla definizione di bisogni, modelli didattici e buone pratiche delle scuole partecipanti) a quello didattico (questa proposta di formazione giunge a distanza di diverso tempo dall'ultimo progetto organico al riguardo che risale a una decina di anni fa). Inoltre il percorso di formazione prevede che, sulla base della ridefinizione dei modelli di intervento, si possano sperimentare anche tecnologie innovative a supporto dell'insegnamento e degli apprendimenti, con un accento particolare sul mobile learning.
Dopo i primi due moduli, dedicati rispettivamente alla ricerca sui bisogni e alla relazione inclusiva con lo studente, stiamo per varare il terzo modulo sulle didattiche. Tre sono i punti di attenzione che dalla fase di ricerca sono emersi e che secondo me occorre tenere presenti.
1. Il modello didattico di riferimento, quando si opera in una sezione ospedaliera, non può essere quello dell'insegnamento. Infatti, da una parte, nelle situazioni di gruppo, si presentano tutte le classiche problematiche delle pluriclasse (bambini e ragazzi di tutte le età), dall'altra, nel lavoro individuale (che nel caso dell'istruzione domiciliare è la condizione obbligata), si creano situazioni di relazione molto differenti da quelle della lezione. Tutto indica nella direzione di un cambio di paradigma verso didattiche di tipo tutoriale attraverso l'attivazione di due livelli di intervento:
- il peering e il reciprocal teaching. Ovvero il ricorso alle pratiche di apprendimento tra pari e di reciproco insegnamento in cui il ragazzo più esperto si fa trainer del meno esperto. Sono strategie tipiche delle cultura partecipative giovanile che si aggregano nel social network: un elemento in più per adottarle nella didattica;
- il one-to-one. Ovvero il ricorso a tutte quelle tecniche di aiuto individuale che nel linguaggio del costruttivismo sono indicate come scaffolding, cognitivo ed emotivo.
2. La tecnologia spesso viene salutata per la sua funzione motivazionale e di supporto rispetto agli apprendimenti e all'attività didattica. Di fatto la ricerca recente dimostra che non è tanto la tecnologia a risultare motivante di per sé, quanto piuttosto le attività che ne prevedono l'uso. Questo significa che non è dando un I-pad a ogni ragazzo che si possono ottenere risultati, ma progettando attività interessanti di cui l'I-pad sia il baricentro. Il primato non va dato alla tecnologia, ma alla condivisione delle pratiche.
3. Un ultimo rilievo lo meritano le nuove competenze che proprio la diffusione dei media digitali sta richiedendo di sviluppare e che svolgono un ruolo centrale soprattutto in una didattica atipica come quella che si volge "oltre l'aula". ne accenniamo solo alcune, sulla falsariga di Jenkins (2010):
- le abilità di ricerca;
- il gioco: saper fare esperienze e maturare attitudine al problem solving;
- la simulazione: saper costruire modelli dei processi del mondo reale;
- l'appropriazione: ovvero, come ricavare il massimo dall'abitudine al cut and paste;
- la conoscenza distribuita: come saper archiviare le proprie informazioni e richiamarle al momento opportuno;
- giudizio: valutare credibilità e affidabilità delle fonti.
Si tratta di un obiettivo da far raggiungere, non sono agli studenti ma prima ancora agli insegnanti.

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