Di rientro dall'Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, torno a riflettere sui tanti temi che mi hanno sollecitato.
1. Il primo è sicuramente il grande impatto di Papa Francesco. Arrivato nell'atrio della Sala Nervi a piedi, con l'ombrello chiuso sotto il braccio, se ne è riandato a piedi, sempre con l'ombrello chiuso sotto il braccio. Nei pochi minuti in cui siamo stati ammessi al suo dialogo con i vescovi, prima dell'"Extra omnes", non ha lesinato indicazioni profonde. Mi porto via il richiamo a "povertà e trasparenza", soprattutto alla povertà, ignazianamente ricordata come "madre e muro": da lì tutto nasce e lì troviamo la nostra protezione. Gli portavo una lettera con i saluti di Padre Vilson Groh, un sacerdote marista che lo aveva incontrato nel febbraio scorso in udienza privata, a Roma. Il giovedì prima dell'Assemblea ero con Vilson, sul Morro di Mont Serrat. Sul morro vivono 17 comunidades (è il nome che in Brasile si dà a quelle che noi spesso indichiamo come favelas): noi eravamo in quella più in cima, dove ancora non c'è una chiesa. Messa in casa, con Vilson e i suoi parrocchiani. Due battesimi, i problemi di tutti i giorni, politica e catechesi. La fede della gente incredibile. Forse sto invecchiando, mi commuovo più facilmente che in passato, ma durante tutta la celebrazione ho trattenuto le lacrime. A Roma, per l'Assemblea, ho capito che la Chiesa è tutte e due le cose: i vescovi e i preti in prima linea. Ma anche molti vescovi sono in prima linea, anzi, a modo loro, forse un po' tutti.
2. Secondo tema: il dialogo con i vescovi. Mi era stato assegnato il compito di far riflettere con la mia relazione l'episcopato sulla missione della Chiesa nel mondo attuale della comunicazione. Era stato Mons. Galantino a chiedermelo e avevo accettato forse con un po' di incoscienza. Due mesi di lavoro: a scrivere, limare, verificare, controllare, riverificare, riscrivere. Il risultato ha dato corpo a una relazione letta davanti ai Vescovi e accompagnata da alcune slides, senza parole, solo immagini: volevo che ancorassero l'attenzione e allo stesso tempo offrissero spunti all'immaginazione pastorale. Dai dialoghi intercorsi con alcuni di loro durante i quattro giorni a Roma devo dire che forse l'obiettivo è stato raggiunto. Non dico nulla della mia relazione. Se avete voglia di leggerla, nella sua versione integrale, la trovate qui.
3. Terzo tema: come rispondere alle tante domande innescate e, soprattutto, cosa dire ai vescovi in chiusura di Assemblea. Ho lavorato a fondo su tutti gli stimoli raccolti e ne è uscita una sintetica restituzione organizzata attorno a quattro punti.
Il Decreto Conciliare Inter Mirifica
Nel 1963, il Vaticano II, dedica al tema dei media e della comunicazione, un Decreto che appunto inizia così. Inter mirifica vuole dire "tra le cose meravigliose". I media sono cose meravigliose! Certo ci sono i rischi e possono far parte di esperienze di peccato, ma dobbiamo guardare al positivo. I media sono opportunità, con le dovute attenzioni, ma sono opportunità. E occorre ricordare che la qualifica di "sociali" alle comunicazioni è una specificità della Chiesa. Perché assecondare gli stereotipi di chi vuole la Chiesa oscurantista? Non aver paura non significa sottovalutare, o ritenere di non aver nessun bisogno del perdono. Vuol dire semplicemente fare una scelta di campo, che forse è anche una scelta di immagine e di compito per la Chiesa. Ne abbiamo bisogno!
Resistere alla tentazione del determinismo tecnologico
Una lettura semplificatoria (e per questo rassicurante) del problema dei media potrebbe farci leggere il loro rapporto con i nostri valori e comportamenti attraverso la categoria di causa-effetto.
Mi chiedo:
- i media generano dipendenza, o offrono a chi è già dipendente un ulteriore elemento da cui dipendere (in sanità si parla di comorbilità)? L'uso eccessivo (non la dipendenza, che scientificamente è ancora da dimostrare) non dipende solo dai media: i fattori sono molteplici, la realtà è complessa;
- i media ci limitano nella nostra libertà, o proprio perché non siamo liberi, troviamo nei media un'ulteriore possibilità per non scegliere di fare il bene? È l'atteggiamentodei cristiani per bene, i primi della classe, quelli con la coscienza a posto, che hanno sempre paura di esporsi, che non aprono le porte ai poveri, che preferiscono i salotti puliti;
- i media ci rendono violenti, ci lacerano, ci deresponsabilizzano, od offrono alla nostra violenza un nuovo potente modo per esprimersi? Quante persone uccidiamo ogni giorno con le nostre parole? Le uccidiamo non per colpa dei media, ma per colpa nostra.
Ecco, credo occorra pensare piuttosto ai media come a dei catalizzatori che non come a dei fattori. Non producono effetti mai da soli: indicano piuttosto le emergenze (ciò-che-emerge), sono preziosi per capire i bisogni dell'uomo di oggi, dell'uomo di sempre. Ecco il compito: riscattare i media dal rischio di pensarli come spazio del peccato, per capire che sono veramente la piazza di oggi, dove incontrare gli uomini, tutti gli uomini, per ascoltare i loro bisogni.
I media non rispondono mai a una logica sostitutiva
Media vecchie nuovi convivono. È vero che le immagini abilitano un pensiero analogico, ma si continua a leggere e scrivere. Non dobbiamo pensare ai media come a qualcosa che toglie (ad esempio il pensiero argomentativo), ma che aggiunge (il pensiero analogico). quel che si deve imparare a pensare è l'et-et e non l'aut-aut, con un atteggiamento che il documento finale ha definito, in maniera mirabile, di "simpatia critica".
Quale atteggiamento verso i media?
In passato, il pensiero dei media era stato all'impronta dell'utopia. Sorretta dall'idea di progresso, l'utopia era costruita sull'idea di una società trasparente in cui la comunicazione sarebbe stata funzione di verità e pace: se tutto è trasparente, non c'è più inganno, sotterfugio, manipolazione (Wiener).
All'utopia si è sostituita la distopia, sorretta dall'idea della crisi, di una società del controllo in cui la comunicazione sarebbe funzione di repressione, condizionamento, illibertà: se tutto è trasparente (la telesorveglianza, i Big data, ...), non c'è più spazio privato, non c'è più libertà (Foucault, Debord).
Oggi, il rischio è di sostituire a entrambe la retrotopia (Bauman). La retrotopia è essere incapaci di immaginare il futuro, averne paura, e quindi tornare indietro, cercare nel passato una zona di conforto.
È retrotopia:
- pensare alla tollerenza zero come modo di risolvere i problemi dell'ordine pubblico;
- tornare alla scuola dei contenuti e dell'autorità;
- tornare alla Chiesa preconciliare, l'ultratradizionalismo, il cattolicesimo che non "esce" ma "si chiude".
Si tratta di una malattia, segnata da miopia storica e, credo, da un peccato di omissione: rifiutarsi di vedere il bene e non farlo.
Alla tentazione della retrotopia la Chiesa deve rispondere come ha sempre risposto, con la profezia. "Coraggio, non temete, sono io!".
Prof. Rivoltella, ci siamo conosciuti ad un convegno a Macerata, la ammiravo per la sua professionalità nell'ambito dell'educazione e dei media, ora sono grato alla Trinità di condividere con lei la fede in Gesù salvatore!! Luca Giancarli
ReplyDeleteChe cos’e la profezia? Tutti ne parlano in modo scontato, ma gli elemeti profondi, i contorni sfumati e incerti sfuggono, almeno a me lettrice occasionale del suo interessante post. Mi piacerebbe leggere qualche sua notazione personale sull’argomento. Grazie.
ReplyDeleteSandra, grazie del commento. Per il credente la profezia è un dono dello Spirito. Esso consiste nel "parlare avanti", nello sporgersi verso il futuro, nel coraggio di guardare al domani senza averne paura e senza rintanarsi nelle sicurezze del passato. Non è sperare che qualcosa miracolosamente muti, la profezia: è non aver paura di proclamare la verità, di esporsi, di dare testimonianza, di fare gesti coraggiosi, di vivere la trasparenza. Si tratta di qualcosa di cui sentiamo tutti un gran bisogno, non sono nella comunità dei credenti.
ReplyDelete