Thursday, February 11, 2010

Diario Carioca



Madrid, 30 gennaio 2010
Sempre lo stesso vissuto. Scarsa voglia di partire, ansia per il viaggio, come se gli affetti ti si facessero presenti solo nel momento in cui li perdi (anche se solo per poco tempo). Una morte simbolica, come è il viaggio ogni volta. Nella terra di mezzo che sta tra partenza e arrivo, non luogo e non tempo, pensi, rifletti, la memoria si attiva. L'altra soglia ti apre il mondo nuovo. Ainda uma vez, Brasil!

Rio de Janeiro, 31 gennaio 2010
Domenica a Ipanema. L'Arpoador, quella lingua di pietra che fende il mare separando la spiaggia di Copacabana dal litorale di Ipanema e Leblon, rosseggia come sempre all'alba. Il popolo dei barraqueiros, dei coqueiros, dei mille ambulanti allestisce come ogni giorno il suo palcoscenico. Come formiche, in fila, i forzati della marcia tonica solcano il lungomare, avanti e indietro. L'ultimo lembo di terra, dopo Leblon, lascia scorgere la favela di Vidigal che si tuffa nel mare proprio sopra allo Sheraton-Rio: la sintesi di una città. Esco. Respiro l'odore della salsedine, mischiato a quello di cento creme solari, del pudim de leite, del maracujà. Attraverso il Parque do Arpoador. Dopo la messa nella Igresia da Resurreçao, guadagno la Praça General Osorio, in qualche modo il cuore di Ipanema. Agli angoli le nuove fermate del metro. Poco più avanti le cuciniere bahiane con il loro abito tradizionale, bianco, stanno preparando l'acarajè. Mi immergo nella Feira Hippy, il mercato dell'artigianato: cuoio, argento, rendas, pedras. Se sai evitare i banchi più commerciali e conosci la lingua ti si apre un mondo. Compro dei sandali. Mi cuciono il cinturino sul momento. Due americani intanto si fanno rifilare un portafoglio di cuoio a un prezzo assurdo. L'artigiano mi guarda, alza le spalle e sorride: "Gringos...". Faccio sosta al Brasilerinho: caipirinha di lime senza zucchero, carne con riso e fagioli neri, dolce di zucca e cannella. Penso a Jorge Amado, alla sua Gabriela. Torno al'Arpoador. Poso il mio bottino e sono in spiaggia. Le acque dell'Oceano non sono fredde come al solito. Riguadagno la mia camera. Sul letto penso che a una strada da qui Vinicio componeva i suoi versi. La baia rosseggia e una lama di luce taglia l'orizzonte. La gente sulla spiaggia applaude il sole per lo spettacolo. Quando i Carioca dicono che questo è il posto più bello del mondo sanno di avere ragione...

Santa Marta, 3 febbraio 2010
Il morro di Santa Marta è uno dei più verticali della città. Ti arrampichi per scale che arrivano fino in cima alla montagna, da dove hai una delle viste più belle di Rio, quasi a 360 gradi, dal Redentor, al Pao d'Açucar, alle spiagge di Copacabana e Ipanema. Santa Marta è una comunidade di circa 4000 persone. Qui è nato il traffico di droga, negli anni Settanta. Qui la Prefeitura di Rio ha iniziato il suo programma di "pacificazione" delle 41 favelas di Rio de Janeiro, una sorta di patto che consente alla polizia di riappropriarsi di un territorio che altrimenti sarebbe rimasto off-limits. Del programma fa parte anche la formazione di nuovi poliziotti, formati apposta per lavorare in questi contesti così da evitare che possano agire per vendetta o per interesse. Il risultato è che adesso tutti vengono a Santa Marta: ci era stata Madonna, con grande clamore; nella mattinata che ci sono rimasto, ho incontrato una troupe della televisione tedesca e un'altra troupe che girava una nota telenovela di Rede Globo. Alla Prefeitura fa gioco: in vista di Olimpiadi e Mondiale deve smontare l'immagine di Rio città violenta. Il problema è che Santa Marta non è un giardino zoologico e i suoi abitanti sono persone normali e non attrazioni da fiera!
Entro a Santa Marta con Dulce, Slavisa, suo marito André, Alexandre e Chico. Dulce ha lavorato al Ministero dell'Educazione Federale fino al 2002: adesso fa parte di un programma della Fondazione Roberto Marinho per l'alfabetizzazione delle fasce povere. Alexandre è un ex-poliziotto: quando ha realizzato che la sua vita poteva finire per un "tiro de um adolescente" o che avrebbe potuto lui ammazzare per sbaglio un bambino in qualche raid, si è licenziato, si è iscritto alla Facoltà di Geografia e adesso vuole entrare in favela non più per sparare, ma per aiutare la gente a realizzare i suoi sogni. Slavisa e André sono insegnanti. Straordinari! Lui musicista di origini olandesi, lei, di famiglia serba, media educator. Tengono una oficina di produzione video con un gruppo di ragazzi che si ispira ai miei lavori sulla Media Education. Chico è responsabile del Progetto Telecentros: luoghi in cui con la metodologia Paulo Freire gruppi di persone di tutte le età riprendono (o cominciano) a studiare. Ne visito uno. Fabiana, l'educatrice, è molto brava. La turma è composta di 5 allievi oggi. Vediamo un DVD sulle fonti energetiche. Si discute. L'attenzione cade sui rifiuti che sono il grande problema del morro: di difficile smaltimento, vengono buttati nei canali a cielo aperto che ne costituiscono il sistema di fognatura finendo per intasarli. "Dovrebbero venire qui a vedere, quelli della Prefeitura!". Saliamo più in alto. Nella piattaforma di una delle fermate della cremagliera che serve la comunidade registriamo una sessione di lavoro con i ragazzi dell'oficina video. Il tema è l'educazione ai media. Mi accorgo che i consumi sono gli stessi anche qui: televisione, cellulare, internet. Faccio domande. Ricevo risposte incredibili, precise, mature. Tutti sono un po' timidi, tranne Junior (intelligentissimo), Ila e Alas. Alas (con me e Ila nella foto) è il più piccolo. Ha dodici anni. Segue tutta la discussione serissimo. Alla mia domanda se le immagini sono realtà o costruzioni, Alas risponde: "Costruzioni. Perché chi sta dietro la macchina sceglie cosa riprendere e poi monta quello che vuole. Come facciamo noi...". "Parabens Alas - gli dico - Voce è muito intelligente. Gostei muito da sua risposta!". Registro una testimonianza per il video che André e Slavisa stanno realizzando insieme ai ragazzi. Dopo si va. Ila e Alas vengono a salutarmi. "Eu sou torcidor do Flamengo e voceis?". Ila ride: "Noceis também. Olhe là!" e mi mostra la bandiera del Flamengo che sventola di fianco a quella brasiliana sul tetto di una baracca. Ordem e Progresso. Alas mi abbraccia.Vado via commosso. Ho visto negli occhi di questi ragazzi la voglia di imparare, di prendersi la vita. Il Paese dovrebbe ripartire da qui, da questa risorsa umana straordinaria che è la sua vera ricchezza. Un macaco ci guarda con il suo piccolo sul dorso. Due bimbi bellissimi, per mano alla loro mamma bambina li indicano e ridono. Ringrazio Dulce, André e Slavisa. Spero che sia un inizio e non una visita-ninja, come chiamano i ragazzi del morro alcuni progetti delle ONG: ninja, perché arrivano all'improvviso e all'improvviso finiscono, senza cambiare nulla. Un altro spunto di riflessione per un Occidente che sta capendo poco, anche di quel che vuol dire aiuto e promozione dell'uomo.

Niteroi, 4 febbraio 2010
I Carioca per scherzare dicono che l'unica cosa bella di Niteroi è la vista di Rio de Janeiro. In verità la geografia pare proprio dar loro ragione. La città sorge infatti sull'altra sponda della Baia di Guanabara. La punta estrema di Niteroi, la Fortaleza de Santa Cruz, dal 1555 ha difeso da chi arrivava dal mare aperto l'ingresso via mare alla città. Ma Niteroi non ha solo la vista di Rio (peraltro meravigliosa). C'è almeno un altro motivo per farci una scappata, e cioè il "caminho de Niemayer", ovvero un asse stradale su cui si trovano le principali realizzazioni che il grande architetto fece in questa città, dall'imbarcadero dell'aliscafo per Rio al MAC, il Museo di Arte Contemporanea. Qui l'opera d'arte è il contenitore. Niemayer immagina il museo come un'astronave che sfida la forza di gravità poggiando, grazie a uno stelo di cemento armato, su un promontorio roccioso. La scelta del luogo non è casuale. Sul retro del museo, lungo il lato rivolto verso il mare, si apre una vetrata che consente allo sguardo di spaziare tutto intorno con una vista mozzafiato. Il messaggio dell'edificio è che l'arte è la fuori. E lo conferma con il ricorso agli specchi d'acqua a raso che hanno contribuito a rendere grande la fama del Maestro nel mondo . Il ponte - sempre di Niemayer - che collega Niteroi a Rio ci riporta verso Ipanema. Le piattaforme di petrolio, i cargo alla rada, le banchine del porto fanno da contrappunto all'arte e alla natura. Dall'altra parte del viadotto una delle tante scuole di samba sta facendo gli ultimi preparativi per il Carnevale. Tra sabato e domenica diversi blocos saranno già per le strade.

Rio de Janeiro, 5 febbraio 2010
Sono le 22.00. Il Canecao (uno dei santuari dello show dal vivo Carioca) è pieno. Si attende l'inizio di "Isto è Brasil", una fantasia di danza popolare brasiliana. Il maestro, insieme coreografo e protagonista, dello spettacolo è Carlinho de Jesus, uno dei grandi interpreti della danza brasiliana contemporanea. Dicono che la sua jinga - ovvero il movimento fluttuante del corpo nella danza - non abbia uguali.
Lo show è semplice, come costruzione e come messaggio. Mostrando come la danza brasiliana abbia le sue radici in quella africana e poi si contamini con altri elementi generando una varietà enorme di generi e stili (foro, frevo, samba, chorinho), Carlinho dice a tutti che "Questo è il Brasile", una terra dove le differenze non sono mai discriminate ma integrate diventando ingredienti di un mix di razze e culture senza uguali. Per dimostrare questa tesi, Carlinho ha invitato a far parte dello show Ana Botafogo, la più importante ballerina classica del Paese. Gira con lui nello spettacolo da sei anni. Il messaggio è che danza classica e popolare possono convivere: la cultura bassa è parte della cultura alta e viceversa.
La compagnia è fantastica. I corpi ammiccano, si incontrano, scivolano gli uni sugli altri: nella danza brasiliana (come in quella caraibica e nel tango) l'erotismo è fortemente presente, la sensualità è parte del gioco. Nelle figure che i ballerini disegnano sul palco come se stessero volando lo spettatore riconosce la vita e la morte, le scene di tutti i giorni, l'essenza dell'uomo, come Borges diceva del tango. Lo spettacolo si chiude nel tripudio dei presenti. La compagnia saluta il pubblico danzando l'inno brasiliano rifatto a tempo di forò. Carlinho bacia la bandiera e si batte il cuore. Dico ai miei amici Carioca che in Italia questo orgoglio del Paese e questo amore della bandiera non lo conosciamo. Flavia mi risponde: "Nem aquì! Sò acontece no palco. Ou no ano da Copa do Mundo, se a seleçao ganhar...". Rido. Il taxi mi riporta all'Arpoador. Negli occhi la jinga di Carlinho, ma anche della splendida ballerina di colore che aprirà il desfile delle scuole nel Sambodromo venerdì prossimo.

Tijuca, 6 febbraio 2010
La Tijuca è un quartiere popolare di Rio de Janeiro, collocato tra il centro della città e un morro oltre il quale si estende il nuovo quartiere della Barra, la Maiami di Rio de Janeiro, con le case dei ricchi, gli shopping più moderni, i locali alla moda. A Tijuca si trova una delle scuole di samba più tradizionali di Rio de Janeiro, la escola do Salgueiro, campione in carica dallo scorso Carnevale. Salgueiro è il nome della comunidade che di solito sempre sta dietro a una scuola di samba. E' sabato e in vista del Carnevale la scuola apre al pubblico (come ogni sabato da novembre a febbraio) una delle prove che "a bateria" fa.
Il meccanismo del Carnevale a Rio è complesso. Non è anarchia, ma ordine. Le scuole sono qualcosa di simile alle contrade senesi: ciascuna con i suoi colori, la sua academia, la sua macchina organizzativa. Lavorano un anno intero per sfilare nel Sambodromo, vicino a Central do Brasil (la stazione di Rio, ombelico del mondo e luogo di raccolta di tutte le povertà umane): in palio l'onore, ma anche tanti soldi.
Una scuola che sfila è composta di una "bateria", ovvero un gruppo (fino a 200 e più) di percussionisti coordinato dal mestre da bateria, che detta i tempi e scandisce le scelte di ritmo. Si tratta del cuore della scuola: il Samba è sostanzialmente batida, potrebbe anche fare a meno degli altri strumenti. Dietro e davanti alla bateria sfilano i gruppi di figuranti (alas) e i carri allegorici. Apre la sfilata la "reina da bateria": secondo tradizione la ballerina più bella e più brava (oggi spesso un'attrice, comunque un personaggio famoso). Le fa da contraltare il puxador: il cantante, che ha come compito quello appunto di puxar, di tirare, il gruppo.
Mentre le scuole sfilano (ogni sfilata, dal giovedì prima di Carnevale al martedì successivo) si apre attorno alle 20.30 e può terminare anche la mattina dopo) delle giurie specializzate assegnano i punteggi: tra i "criterios" ci sono i travestimenti (fantasia), la bravura dei ballerini, la precisione/coordinamento/armonia della bateria, la qualità del tema sviluppato.
Un mondo complesso, quasi una società parallela che vive e lavora un anno intero in funzione del Carnevale. Con una funzione di equilibrio sociale. Infatti, per tradizione, le scuole di samba appartengono ai quartieri poveri; spesso i padroni devono chiedere ai loro inservienti di poter sfilare; e inoltre chi balla e chi suona ha nella scuola la sua rivincita sociale, "conta", è qualcuno.
Ma negli ultimi anni la spinta degli interessi commerciali sta travolgendo tutto. Le allegorie sono sempre più care, così per sfilare occorre pagare: e quindi lo spirito popolare si va perdendo. A sfilare sono i ricchi, che "possono". I Carioca sono critici su questo sviluppo del sistema e già guardano al passato con un po' di saudade.
Mentre ero nel mezzo della academia di Salgueiro (con qualche migliaio di persone) mi guardavo intorno. Guardavo i percussionisti e i ballerini: tempi e ritmi forsennati, che non a caso sono gli stessi del candomblé e arrivano a indurre la trance. Ma anche la gente comune è letteralmente fuori di sé: c'è corpo, c'è natura. Più che la trasgressione è l'anima nera, africana, di un popolo intero che si libera. In Brasile tutto è etnografia, sempre. Un europeo può provare a capire: ma ha altri battiti dentro. Pensa di assistere a uno spettacolo: ma il Carnevale, a Rio, è ancora un rito. E' il disordine che lotta con l'ordine, è un gigantesco dispositivo sociale di disinnesco della violenza: nel pagliaccio che non può entrare in Chiesa e viene cacciato da tutti si riconosce l'ombra del capro espiatorio. Occorre tornare a rileggere René Girard, che proprio a Rio ha dato l'intervista che rappresenta la panoramica più sintetica e completa del suo pensiero.

Rio de Janeiro, 9 febbraio 2010
Il teatro Rival è uno dei luoghi classici della musica dal vivo a Rio. Nel cuore di Cinelandia (il centro della città, con il Teatro Municipal riconsegnato allo splendore di un tempo dal restauro, e la Biblioteca Nacional) ha visto passare sul suo palco tutti i grandi interpreti della musica brasiliana. Questa sera è Teresa Cristina di scena. Una delle voci più belle della nuova generazione. Fa samba de raizes, Teresa: è il samba più tradizionale e intimo che ha come maestro Paulinho da Viola. Teresa l'ho sentita la prima volta nel Club Democraticos, una sala da musica che si trova alla base della salita che porta a Santa Teresa, il quartiere degli artisti di fine Ottocento, la Montmartre di Rio. Sono passati sei anni. E' diventata famosa. La voce è sempre meravigliosa, come meravigliosi sono i suoi musicisti: tre alle percussioni, uno alla chitarra, uno al cavaquinho. Il repertorio è dei suoi: spazia dal ritmo bahiano a Paulinho e concede alla platea qualche grande classico. E' la mia despedida da Rio, il mio saluto. Torno in albergo con le parole di Paulinho nella testa: "Eu sou assim, quem gostar de mim eu sou assim...". Sembra parlare di Rio de Janeiro. Il mio volo per Madrid parte domani. Il mio pezzo di alma carioca mi aspetterà qui, da qualche parte, fino alla prossima volta che, ne sono certo, ci sarà.

Thursday, February 4, 2010

Il volto sociale di Facebook


Dal punto di vista antropologico, per chi vi apre un account, Facebook costituisce un momento
effettivo della costruzione del sé, attraverso tre tipi di operazione:
- la propria autorappresentazione, che prende corpo nella “fotina”, nell’immagine con cui l’utente sceglie di identificarsi sulla propria home page;
- la propria autonarrazione, che si esplicita nella definizione del “profilo” che ogni utente ha in
Facebook e che contiene le informazioni (gusti, tendenze, passioni) che servono agli altri utenti per farne la conoscenza;
- le narrazioni condivise con gli “amici”, ovvero tutte le tracce che un utente lascia di sé nella
propria pagina e che sono rese accessibili a coloro che fanno parte del suo social network: fotografie che riguardano la propria biografia, frasi sulla bacheca, note, ecc.
Quello che sorprende di queste operazioni è la retorica dell’esposizione che le attraversa, ovvero la tendenza delle persone che “sono in Facebook” a “portar fuori” quello che tradizionalmente veniva gelosamente custodito dalla possibilità di essere scrutato dallo sguardo altrui: quello che si percepisce chiaramente è lo spostamento (lo slittamento) del confine tra ciò che a partire
dall’Illuminismo definiamo abitualmente come sfera pubblica e sfera privata. Non è una
prerogativa di Facebook, ma del fenomeno del social networking e della diffusione dei nuovi media in generale. Stefana Broadbent (2009), antropologa e visiting scholar presso lo University College di Londra, ha fatto notare come proprio questo aspetto costituisca uno degli effetti più rilevanti dell’impatto sociale delle ICT. Casa e lavoro, nella nostra tradizione, sono concettualizzati come situazioni da tenere necessariamente separate; serietà e impegno dentro un’organizzazione sono direttamente funzionali alla capacità di chi lavora di “tenere fuori” tutto ciò che è personale e riconducibile alla casa, come attesta esemplarmente il sistema-scuola: «The strict separation between home and workplace, meant that when entering the work arena the "personal" self must be shed. (...) The school therefore represents the first institution in which an oppositional model of private/professional, is enacted. The main techniques to ensure a successful cleavage between the environments will subsequently be repeated in the workplace: physical separation of the center of activity from the homes of the participants, rituals of entry in the environment, separation from other communities by markers (uniforms, badges, Ids), control of entry and exit, schedules, rituals for group bonding (assemblies, house system, teams, competitions, hierarchies, punishment for lack of participation) control of attention».
Facebook e gli altri ambienti di social networking scardinano questo schema facendo irrompere la comunicazione personale anche dentro spazi e tempi che tradizionalmente non la prevedevano.
Leggi l'intero contributo

Friday, January 22, 2010

Educare ai media nell'extra-scuola


Il 22 gennaio si è svolto a Milano, presso la sede della Curia Arcivescovile, un convegno sulla Media Education e l'extra-scuola. Al centro dell'attenzione soprattutto l'oratorio (ma non solo) come spazio privilegiato per l'intervento educativo con e sui media. La giornata, costruita su due sessioni di lavoro, ha consentito di riflettere sia sui quadri teorici che sulle pratiche. Nel mio intervento, sulla base della sintetica descrizione del paesaggio in trasformazione dei media digitali, ho ragionato attorno a tre ordini di considerazioni.
Anzitutto l'individuazione di tre fatti nuovi che consentono di elaborare il tradizionale "scuolacentrismo" della Media Education. Il primo è che i "nuovi" media (come il cellulare e gli applicativi del Social Network) stanno spostando massicciamente il baricentro delle pratiche individuali e sociali verso l'informale. Questo comporta (secondo fatto) il vantaggio posizionale dell'extra-scuola: su questi temi può affiancare i giovani al di là dell'imposizione e degli atteggiamenti didascalici che magari la famiglia e la scuola possono suggerire. Infine (terzo fatto) mi pare si possa parlare a proposito del rapporto dell'extra-scuola con i media e i giovani di mediazione necessaria: la famiglia manifesta disagio (disagio nell'educare in generale, non solo nell'educare a un corretto rapporto con i media), la scuola accusa ritardo; spesso l'oratorio, il centro di aggregazione giovanile, ma anche i circoli e le associazioni culturali come qualcuno in sala faceva notare, sono l'unico spazio entro cui il ragazzo può attenere risposte.
Alla luce di questo possibile protagonismo si possono disegnare tre spazi di lavoro. Li definiamo così:
- fare i media. Il giornale on line dell'oratorio, il blog dell'oratorio, il canale You-tube dell'oratorio, la Web-radio dell'oratorio sono tutte modalità di lavoro possibili (spesso già realizzate) per costruire il protagonismo dei giovani in quanto "autori" attorno alla creazione di messaggi multimediali;
- fare con i media. Il podcasting per la catechesi (già praticato nella Diocesi di Milano per alcune iniziative a vantaggio dei giovani), SMS e Twitter per la comunicazione, Facebook per l'aggregazione e il gruppo, lo streaming per la comunicazione liturgica (come l'iniziativa di Don Paolo Padrini, a Tortona, dimostra: web-cam sul pulpito la domenica mattina e alcuni giovani ministri del culto che si recano nelle case degli ammalati con un portatile dotato di chiave usb per la connessione consentendo loro di seguire la celebrazione);
- riflettere sui media. Quale volto e quale identità in Facebook? Quale verità nella rete? Quali possibilità di promozione dell'uomo? Quale idea del bene e del male? Cosa è la religiosità dei media (digitali)? Quale spiritualità? Quale senso della Trascendenza?
Segnalo infine tre questioni da considerare possibili piste di lavoro.
Innanzitutto: quale spazio per i media nella formazione dei presbiteri dentro i seminari? Quale rapporto con la pastorale (soptrattutto giovanile) e la liturgia?
Seconda questione: come formare educatori, catechisti, educatori, animatori? Quale rapporto con la vita dell'oratorio?
Infine: quale supporto in funzione della produzione di materiali, dell'assistenza tecnica, della disponibilità dei servizi?
Si tratta di punti di discussione aperti dalla cui ricezione dipende la capacità di dare risposte che i giovani non possono aspettare di avere molto a lungo.

Saturday, January 16, 2010

I media, i giovani, l'educazione


Una giornata di studio dell'OEC su "Nuovi media e nuove relazioni. Dialogo, amicizia e identità cristiana" (Brescia, 17 gennaio 2010) mi fornisce lo spunto per un post in cui tornare a ragionare sul rapporto che pone in relazione oggi i media con i giovani e l'educazione.
Lo faccio enunciando tre brevi tesi:
1) i media sono un ambiente, sono parte dell'ambiente;
2) i media esigono e minacciano la mediazione educativa;
3) l'educazione ai media è educazione alla cittadinanza.

1. La natura ambientale dei media si costruisce su tre snodi. Il primo è un'evidenza fenomenologica: i media sono "migrati dentro le nostre vite" (Bell), li indossiamo (Silverstone). Questo dato (secondo snodo) comporta un cambio di paradigma concettuale nella loro comprensione: i media non sono (più) strumenti, ma uno spazio, o meglio, uno scenario di azione sociale (come si può dimostrare attraverso il recupero di una linea di riflessione che da Goffman giunge a Meyrowitz e come io stesso ho provato a far vedere in Costruttivismo e pragmatica della comunicazione on line). Su questo poggia (terzo snodo) la trasformazione del loro ruolo culturale: più che costituire lo spazio della circolazione delle informazioni, i media oggi sono piuttosto uno spazio importante per la costruzione delle rappresentazioni individuali e sociali.

2. Il paesaggio attuale dei media è segnato da almeno due linee di tendenza. La prima è costituita dall'autorialità dei media digitali (dagli applicativi 2.0 al telefonino). Questo comporta una trasformazione del ruolo del consumatore, che diventa consum-attore. In virtù di questo fatto, si assiste anche a una progressiva deprofessionalizzazione della comunicazione: il blogging, il microgiornalismo fanno sempre di più in modo che chiunque, in virtù della semplice possibilità di pubblicare nel Web, si ritrovi a gestire le stesse possibilità e responsabilità nello spazio pubblico che fino a poco tempo fa erano solo delle emittenti e degli editori. Il dato comune a questi fenomeni è rappresentato dalla de-mediazione (o disintermediazione): non servono più gli apparati, non occorrono più i mediatori.

3. Sul piano educativo, come è evidente, la mediazione impatta in maniera consistente. Anzitutto perché essa rafforza l'importanza dell'educazione non formale e della socializzazione a discapito dei compiti della scuola. Inoltre rafforza l'idea di un ritardo proprio della scuola rispetto alle sfide presenti, rilanciando il sospetto sulla sua reale utilità (nella misura in cui, ad esempio, i "nuovi" media sono in sostanza autoalfabetizzanti). Infine, consolida la crisi dell'autorità (o la convinzione che non serva). Ma proprio per questo, credo che rilanci l'esigenza della mediazione educativa: i media la richiedono (per gestirli non bastano skills operativi, servono frame culturali e critici), i giovani stessi la desiderano (come emerge dalle ultime ricerche sui consumi mediali).

Tuesday, January 5, 2010

Ieri era meglio di oggi?


Come è noto la carta stampata, più in generale l'informazione (anche quella televisiva e sul Web), nella nostra società funziona in larga parte come un gigantesco dispositivo di discorsivizzazione. Costruisce e fa circolare discorsi che normalmente esercitano una duplice funzione: allestiscono veri e propri racconti di emancipazione (come quando si tratta, ad esempio, di celebrare la capacità della tecnologia di abbattere le distanze, o di migliorare la scuola), o al contrario disegnano quadri preoccupati che allungano ombre sui destini della società o del genere umano (come quando in agenda vengono inseriti i temi dell'ambiente, della criminalità, del terrorismo). Questa doppia retorica, al cui fondo si riconosce comunque una logica di assolutizzazione e insieme di semplificazione del dato (spingo all'eccesso l'aspetto che mi interessa, eliminando l'impatto di tutte le altre variabili), risponde a criteri evidenti di notiziabilità: in particolare agisce sul pubblico nel rispetto della cosiddetta legge di McLurg (più vicino al pubblico è il fatto, più ha valore di notizia) e in relazione alla significatività di quel che viene raccontato rispetto al futuro sviluppo di una determinata situazione. Fatti che mi toccano direttamente sono più interessanti per me di fatti che percepisco come lontani; allo stesso modo, fatti che si dimostra possano incidere su cosa sarò o potrò fare domani paiono più rilevanti di altri che invece non sembrano avere questa capacità di impatto. Si tratta di una logica chiara e ben nota, non solo agli specialisti di comunicazione. Eppure molte volte ce ne dimentichiamo lasciando che questi discorsi costruiscano la nostra tappezzeria mentale. È il caso dell'idea dell'infanzia. Una recente ricerca del CREMIT, il Centro di Ricerca sull'Educazione ai Media, all'Informazione e alla Tecnologia dell'Università Cattolica, consente di capirlo indicando alcune evidenze su cui varrebbe la pena soffermarsi quando si parla appunto di bambini, di ragazzi, di minori.
La ricerca (condotta in collaborazione cone la Fondazione Oratori Milanesi e Pepita Onlus) ha eletto a proprio focus l'esperienza del gioco in un campione di 2500 soggetti tra gli 8 e i 16 anni. L'obiettivo era duplice: da una parte, verificare quali siano le abitudini di bambini e ragazzi rispetto al giocare, in particolare se e come la comparsa di giochi tecnologici (videogioci in testa) stia modificando queste abitudini; dall'altra parte, indagare sulla capacità degli adolescenti di sviluppare responsabilità verso i più piccoli se chiamati a svolgere compiti educativi. I risultati sono in netta controtendenza rispetto all'immagine di bambini e ragazzi cui veniamo quotidianamente socializzati.
Innanzitutto quel che emerge è il profilo di bambini e di ragazzi “normali”. Certo la normalità non fa notizia, ma fino a prova contraria costituisce ancora lo spazio più ampio di lavoro per chi si occupa di educazione. Non tutto è patologia, né ci cresciamo in seno sempre e per forza soggetti devianti, anche se la tentazione di crederlo è ricorrente, come Freinet indicava già alla fine degli anni Cinquanta riportando le opinioni degli adulti di allora: “Eh già! Non c'è da stupirsi. I ragazzi d'oggi fanno tutto quello che vogliono. Non c'è più autorità né rispetto. Quando eravamo giovani noi, nessuno osava replicare agli ordini del padre...”. Ecco, il dato rasserenante è che che i nostri ragazzi sono normali. Occorrerebbe ricordarsene, certo non per abbassare la guardia o per minimizzare certi loro comportamenti, ma per accostarsi secondo prospettive più equilibrate ai loro problemi.
Un secondo dato che la ricerca disegna con chiarezza è che il bambino è competente e il genitore assente. Il bambino è competente perché ci sa fare, dimostra di disporre di conoscenze e di abilità (soprattutto riguardo a Internet e alla tecnologia in genere); ma anche perché è più maturo di quanto non si pensi, più consapevole di quel che si sia disposti a credere. In compenso il genitore è tendenzialmente assente, due volte assente: assente perché ha pochissimo tempo da spendere per giocare insieme ai figli, ma assente anche perché quando c'è (è in casa o magari li accompagna al parco) non ci gioca. Si tratta di un'evidenza che suggerisce in modo chiaro due cose. Conferma anzitutto che l'idea di infanzia come quella di adulto sono delle rappresentazioni sociali. E indica che spesso noi continuiamo a usare rappresentazioni del bambino e dell'adulto inattuali: il bambino di oggi non è più quell'adulto in fieri, innocente, immaturo, senza difese che viene descritto dalla letteratura sociale del secondo Ottocento; allo stesso modo si dimostra datata l'idea di un adulto responsabile, capace di tutela e di educazione. Come un bel libro di Anna Mariani recentemente suggerisce, la fragilità è oggi categoria che per paradosso meglio si adatta all'adulto.
Chiaramente sono cambiate le condizioni sociali. L'adulto è sempre meno presente non necessariamente per scelta: entrambe i genitori spesso lavorano (anche se la crisi sta correggendo al tempo imperfetto questa constatazione); questo li porta a passare praticamente l'intera settimana fuori di casa; e anche se lavorano a casa, il tempo della loro permanenza è tempo lavorativo, non è tempo domestico; inoltre temi come l'autorealizzazione personale, la carriera, lo star bene con se stessi, funzionano da distrattori antropologici e finiscono per assorbire anche quei ritagli di tempo che rimarrebbero eventualmente liberi per i figli; per non parlare dell'incidenza della condizione di separati e divorziati per i quali il tempo da condividere con i figli diviene ancora più difficile da trovare e da gestire.
Uno degli effetti di questa situazione è che l'agenda dei minori si riempie, assomiglia sempre di più a quella di un manager. Tempo pieno a scuola fino alle 16.00, martedì e giovedì pomeriggio allenamento, lunedì e mercoledì pomeriggio corso di chitarra, venerdì club degli scacchi o piscina, sabato (o domenica) partita. Anche volendo, sarebbe difficile trovare uno spazio libero: occorre chiedere un appuntamento al proprio figlio, incrociare la nostra agenda con la sua, vedere se vi siano “finestre” libere da condividere.
Dunque, l'occupazione a tempo pieno del genitore produce come effetto l'occupazione a tempo pieno dei figli. Con due rilevanti conseguenze.
La prima. I ragazzi non giocano abbastanza. Uno dei dati più inattesi (e per certi versi inquietanti) che emergono dalla ricerca è che l'11% dei bambini tra gli 8 e i 12 anni dichiara di giocare meno di un'ora al giorno. È poco. E del resto se rimangno a scuola fine alle 16.00 e tornano dalle altre attività pomeridiane alle 18.00 o anche più tardi, di tempo per giocare non ne resta poi molto.
Seconda conseguenza. Quando il ragazzo è a casa, normalmente l'adulto non è presente: questo comporta che venga a mancare il controllo sulle sue attività in generale, su quelle di gioco in particolare. Si tratta di un problema rilevante, soprattutto per quanto riguarda i videogiochi cui dedichiamo l'ultima parte della nostra riflessione.
La ricerca conferma quello che tutti sanno: i videogiochi piacciono molto ai ragazzi. Anzi. Sono la loro attività preferita. La ricerca conferma anche quello che altre recenti ricerche sul consumo di videogiochi hanno evidenziato: i genitori conoscono ben poco dell'attività di videogiocatore dei figli, hanno consapevolezza che videogiocare per troppo tempo fa male, ma non dimostrano di avere consapevolezza che a volte il problema dei contenuti (violenti, ideologici, asociali) di un videogioco è educativamente ben più delicato di quello del tempo che il ragazzo ci passa davanti. Quello che la ricerca dice di nuovo è che lo stesso gradimento dei videogiochi lo riceve da parte dei ragazzi il giocare all'aria aperta con gli amici. I giochi di gruppo, di squadra, piacciono tanto quanto i videogiochi. Con sorpresa scopriamo che bambini e adolescenti di oggi non sono videodipendenti incalliti, tendenzialmente individualisti, chiusi in se stessi e nel mondo virtuale che abitano grazie alla Playstation, destinati a un futuro di obesità dalla loro dieta scorretta e dai loro consumi mediali sedentarizzanti. Rifa' capolino la normalità. Sono normali. E competenti. Lo dimostra il fatto che i videogiochi non cannibalizzino le altre abitudini di gioco: piuttosto si inseriscono tra gli altri consumi e così, oltre a giocare all'aria aperta con gli amici, o a praticare i giochi da tavolo, bambini e adolescenti di oggi videogiocano pure, costruendo delle diete di consumo tutto sommato abbastanza equilibrate. E in ogni caso non sono i videogiochi a rinchiuderli in casa: è piuttosto la mancanza di spazi urbani sicuri, il fatto che spesso il parco pubblico sia lontano da casa e richieda che un adulto ce li accompagni. Il problema sono ancora una volta gli adulti: gli adulti amministratori che non riescono più a progettare città a misura di bambino, gli adulti genitori che per scelta o per necessità si sono dati altre priorità.
E allora forse sarebbe tempo di smetterla di giocare al gioco del “noi e loro”. Il gioco del “noi e loro” è ciò che ci porta a dire che ai nostri tempi era tutta un'altra cosa, che ci bastavano due pezzi di legno e passavamo interi pomeriggi a giocare, che loro non sanno più cosa vuol dire fare fatica, che è tutto troppo comodo per loro. Ma il gioco del “noi e loro” è anche ciò che ci porta a dire che loro sono più svegli, che con le tecnologie digitali si trovano a loro agio perché ci sono nati (i famigerati “nativi digitali”), che riescono a fare tante cose allo stesso tempo perché “pensano in parallelo”. Ancora una volta si tratta solo di un dispositivo discorsivo. Serve a declinare le nostre responsabilità di adulti: serve a dire (soprattutto) a noi stessi che se sono diversi, in fondo, non è colpa nostra. Quel che occorre fare, invece, è rendersi consapevoli che non sono molto diversi da come eravamo noi. Solo così potremo accorgerci che sono migliori di come ce li immaginiamo (e di quanto ce li meritiamo).

Friday, November 20, 2009

Il giornale in classe

La regione di Castelo Branco si trova a circa 200 chilometri a est di Lisbona. È una regione rurale, dove le distese di ulivi si alternano ai vigneti, che in questa stagione restituiscono splendide colorazioni, con tutti i toni del giallo e del rosso. Mi trovo a Castelo Branco insieme a Evelyne Bevort, del CLEMI di Parigi, in veste di valutatore di un progetto finanziato dalla FCT, Fundacão Ciencia e Cultura. Il progetto, coordinato da un intraprendente giovane giornalista locale, Vitor Tome, che insegna alla Scuola Politecnica (dove si formano i futuri insegnanti), si chiama “EducaMédia. Educar para os Média atravès da produção de jornais escolares”. Costituita una rete di 24 scuole in tutta la regione, Vitor ha costruito degli strumenti (un DVD, un manuale, un content management system per la pubblicazione on line) per aiutare gli insegnanti a produrre dei giornali in classe sull’esempio di altre esperienze internazionali come la Semaine de la presse dans l’ecole in Francia o La prensa en la escuela in Argentina.

Abbiamo visitato tre delle scuole che partecipano al progetto, una a Teixoso, un paese di 3.500 abitanti vicino a Covilhã, sotto la Serra da Estrela (la cima più alta del Portogallo continentale), l’altra a Idanha, a pochi chilometri dalla frontiera spagnola, l'altra ancora a Castelo Branco. Tre scuole molto diverse e che hanno trovato soluzioni altrettanto diverse per far entrare il giornale in classe.

A Teixoso la scuola è bellissima. Costruita su modello svedese è organizzata in piccoli padiglioni. Ciascun padiglione consta di 4/5 aule per la didattica ordinaria e di altrettante aule specializzate (per l’educazione tecnologica, le scienze, la matematica, le lingue straniere). Il blocco principale contiene i servizi: il grande salone per la ricreazione (che all’occorrenza diventa teatro), la radio scolastica, le sale riunioni e di informatica, la sala e il bar dei professori. Proprio qui c’è la sorpresa più grande. In Portogallo il contratto degli insegnanti è di 42 ore settimanali: la scuola (come del resto nel Nord Europa) è un luogo da abitare e questo è subito percepibile, perché lo spazio è vivo, appropriato, non scuola ma casa, una sensazione strana da descrivere. Il giornale scolastico è coordinato da quattro professori, si avvale di quattro giornalisti dell’ottava classe (14 anni) e del contributo dei ragazzi del PIEF che studiano informatica. Il PIEF è il sistema di formazione professionale, integrato alle scuole dell’obbligo (che in Portogallo vanno dalla prima alla nona classe): molte lezioni sono condivise con i compagni, poi la classe si divide e il PIEF segue i suoi corsi professionalizzanti (a Teixoso ci sono tre “canali”: informatica, agricoltura e cucina). Il giornale è assolutamente professionale: formato tabloid, esce in tre numeri l’anno che vengono distribuiti in tutta la zona gratuitamente. L’obiettivo degli insegnanti è di aumentarne la periodicità e di farlo diventare il giornale della comunità locale.

La scuola di Idanha è più tradizionale, ma lo schema organizzativo è sempre quello e la sensazione di un luogo vivo è comunque presente. Saliamo al piano superiore. Sulla parete delle scale piccoli manifesti creati dai ragazzi riportano dei pay-off sul valore del giornale in classe. Uno recita: “Leggere allunga la vita”. Entriamo in biblioteca: un gruppo di ragazzi sta navigando in Internet con la professoressa di francese, nello spazio multimedia altri ragazzi stanno lavorando al giornale, un professore con la barba è seduto in un salottino e sta “catechizzando” un giovanotto con la testa bassa. L’archivio è occupato da quattro insegnanti che stanno facendo le prove: devono incidere un radiodramma che sarà messo in onda per Natale. Chiediamo scusa e li “sloggiamo”. Comincia l’intervista con le insegnanti. A Idanha il giornale in classe fa parte del progetto educativo di istituto e Cecilia, l’insegnante che stiamo incontrando, lo ha adottato con i 19 allievi della sua classe.

L'ultima scuola, a Castelo Branco, ci accoglie mentre una classe sta svolgendo l'attività sul giornale nell'area di progetto (due ore la settimana da dedicare a temi trasversali alle diverse discipline). La classe è coperta da una wireless area: i ragazzi, a gruppi di quattro, si occupano delle diverse attività della redazione, chi scrive articoli, chi elabora i dati di un'inchiesta condotta in scuola sugli alunni del primo anno, chi sceglie immagini. Una troupe della televisione portoghese è presente in aula: mi intervistano e intervistano i bambini. La giovane professoressa che guida il lavoro è brillante. Mi convinco che possiamo immaginare i progetti più affascinanti del mondo e introdurre in classe le tecnologie più sofisticate, ma alla fine è sempre l'insegnante, nel bene e nel male, a fare la differenza.

Alla fine della giornata tiro le somme e individuo tutti i vantaggi che lavorare al giornale in classe garantisce, così come traspare dalle sperimentazioni delle scuole di Castelo Branco:

- consente di potenziare l’apprendimento della lingua materna (in questo caso il portoghese);

- consente di sollecitare l’abitudine alla lettura;

- consente di valorizzare le diverse competenze dei ragazzi (da chi scrive a chi impagina);

- favorisce la collaborazione e lo scambio tra insegnanti e tra studenti;

- aggrega la comunità nel territorio;

- stimola la partecipazione dei genitori alla vita della scuola;

- costringe gli insegnanti a modificare le loro pratiche.

Ma la produzione del giornale in classe dovrebbe consentire, al di là di questi vantaggi che riguardano la didattica, anche di declinare i temi squisitamente educativi della riflessione critica e della responsabilità autoriale. La consapevolezza che la notizia è sempre una costruzione, la centralità del servizio del giornalista alla verità, il valore della riflessione critica sono le grandi lezioni che la Media Literacy ha sempre legato al lavoro in classe con la e sulla stampa. Nell’anno rimanente del progetto triennale che stanno portando avanti le scuole di Castelo Branco dovranno lavorare soprattutto in questa direzione.

Saturday, October 24, 2009

Constructive controversies in Media Literacy

On 21-24 October 2009 was held in Bellaria (Italy) the Final Congress of the EUROMEDUC Programme. This is a Programme of European Community aimed to recommend to the Community itself some suggestions about Media Literacy in the age of digitalization.
Unfortunately, for me it was no possible to stay in Bellaria during the whole Congress. In the same week (as usual) were concentred a lot of other activities (lessons at the University, another Congress organized by my Department of Education at the Catholic University of Milan). So I was there only during the opening session, on Wednesday 21, and next morning, when I was invited to give my key-note speech. The key-note of the opening session was given by David Buckingham, one of my colleagues, professor at the Institute of Education at the University of London. David's speech described the "changing landscape" of Media Literacy; in it, Media Literacy has surely a lot of new opportunities, but also meets some risks. Tha main of them is the temptation to give to the concept of Media Literacy a too inclusive meaning. Really, nowadays, Media Literacy could mean a lot of things: inclusion, e-partecipation, life-skills, functional competences, information retrieval, efficient use of the media, critical evalutaion of information, pop culture, and so on. As I already said in one of my books (Digital Literacy, IGI, Herschey 2008), when Media Literacy is becoming everything it is the same thing that nothing is Media Literacy. So, according to David (and I agree with him) there are some confusions/risks to take care of:
- education through the media is different from education about the media;
- Media Literacy is not to motivate guys;
- do not put out of our sight the critical question;
- be aware of the "mithology" of the so called digital natives (in this blog we've already talked about this question);
- to refuse a sentimental vision of childhood;
- the fact that media are becoming participative doesn't mean that we are giving the power to the people.
Some of theese risks (in the form of five controversies) were the object of my speech too.
The slides I used at the Congress are published in Slideshare at this URL: http://www.slideshare.net/piercesare.rivooltella/constructive-controversies-in-media-literacy.