Personal Blog of Pier Cesare Rivoltella. A place where it's possible to talk about Media, ICT and Education
Monday, October 31, 2011
Innovazione e tradizione
Qualsiasi innovazione prima o poi si converte in tradizione. Riflettevo su questa constatazione di Walter Benjamin venerdì scorso mentre assistevo al Teatro Carignano di Torino a Man of flesh & cardboard (Uomo di carne e cartone), lo spettacolo con cui Alberto Jona e la direzione del Festival del Teatro di Figura hanno riportato in Italia dopo anni i Bread and Puppet, la storica compagnia di teatro d'avanguardia fondata a New York da Peter Schumann nel 1961.
Bread and puppet vuol dire pane e burattini. Sono i due elementi che hanno sempre contraddistinto la proposta di Schumann: le grandi sagome che sono i veri protagonisti dei suoi spettacoli e il pane che la compagnia distribuisce agli spettatori alla fine della performance, un rito laico che è simbolo di condivisione e allo stesso tempo della quotidiana necessità del teatro. Sì, perché il teatro per Bread and Puppet ha sempre voluto dire impegno politico e partecipazione: una concezione non-spettacolare, volta, secondo i dettami del Nuovo Teatro, ad affermare che la scena è vita e non finzione.
Lo spettacolo presentato a Torino non fa eccezione. Esso mette in scena la vicenda del soldato Manning, in attesa di esecuzione in un carcere militare della Virginia per aver rivelato i dettagli di un massacro di civili compiuto da un elicottero dell'esercito americano nel 2009 a Baghdad. L'allestimento presenta tutte le scelte espressive caratteristiche della compagnia: la presenza di Schumann sulla scena - i lunghi capelli e la barba bianchi - in qualità di officiante del rito; la poetica straniante volta di continuo a strappare lo spettatore all'incanto del teatro; la dimensione corale, a rovesciare la logica dell'attore in quella del gruppo e a riprendere la tradizione della tragedia greca, dove proprio il coro rappresenta il punto di vista esterno sui fatti e lo spazio in cui si organizza la coscienza civile; le scelte espressive rarefatte, densamente simboliche, di chiara provenienza orientale (dal kabuki al bunraku, cui sembrano alludere gli attori-burattinai completamente vestiti di nero). Ma il dispositivo spettacolare non innesca più la protesta, non produce l'adesione dello spettatore. Sono cambiati il clima e il contesto. Negli anni '60 durante la guerra del Vietnam Schumann faceva controinformazione, svegliava l'America e le indicava dove stesse la verità, dietro ai depistaggi dei militari. Oggi la guerra ci è già entrata in casa mille volte grazie alla pervasività dei media: ci ha già sensibilizzati e poi gradualmente assuefatti. Così lo spettacolo si sgonfia e dimostra il suo vero funzionamento, al di là delle intenzioni dello stesso Schumann: è archeologia teatrale, è la messa in scena di un gruppo che è ormai storia. Lo conferma il contesto del Carignano, un gioiello architettonico, ma assolutamente contrastante come spazio-ambiente di un gruppo, i Bread and Puppet, che hanno sempre agito i loro happening nelle strade. Insomma, il vissuto è di non essere a teatro, ma in un museo. Per noi che la poetica del Gruppo l'abbiamo conosciuta sui banchi dell'Università una straordinaria (ma anche un po' nostalgica) madeleine; per alcuni giovani due file dietro a me e all'amico Fabio, una provocazione incomprensibile: "Abbiamo pagato!".
Proprio con Fabio ed Enrica, gli amici torinesi che devo ringraziare per la serata, si commentava lo spettacolo, uscendo dalla sala, mentre Irene ed Eugenia - le adorabili figlie di Enrica - si portavano via come trofeo la testa di un burattino fatta di pane. Si commentava organizzando nel dialogo queste considerazioni che ho provato in gran sintesi a restituire. L'Avanguardia, ciò che negli anni '60 era Avanguardia, oggi è tradizione. Vedere i Bread and Puppet a teatro è un'operazione da intellettuali: negli anni '60 era una forma di protesta. Ma mentre noi - come in un cineforum - "leggiamo" il dato culturale, il soldato Manning sta veramente aspettando l'esecuzione e le madri e i bambini di Baghdad sono veramente morti sotto il tiro degli americani. La verità attorno a cui lo spettacolo ruota è nella frase che si organizza sulla lavagna a fogli mobili che Peter Schumann usa nell'angolo del palco. Su quella lavagna, parole sparse cercano un loro ordine durante l'azione. Quando finalmente lo trovano, la frase che ne risulta è: "Where are we going?". Dove stiamo andando? La domanda è per ciascuno di noi.
Tuesday, October 25, 2011
Fare scuola in ospedale
Da qualche mese il CREMIT, il centro di ricerca che dirigo in Università Cattolica, sta prendendo parte a un percorso di formazione che l'USR della Lombardia ha attivato per i dirigenti e gli insegnanti delle scuole lombarde che hanno una sezione di scuola in ospedale. Si tratta di un percorso importante sotto tanti punti di vista: da quello organizzativo (il percorso si è aperto con una ricerca volta alla definizione di bisogni, modelli didattici e buone pratiche delle scuole partecipanti) a quello didattico (questa proposta di formazione giunge a distanza di diverso tempo dall'ultimo progetto organico al riguardo che risale a una decina di anni fa). Inoltre il percorso di formazione prevede che, sulla base della ridefinizione dei modelli di intervento, si possano sperimentare anche tecnologie innovative a supporto dell'insegnamento e degli apprendimenti, con un accento particolare sul mobile learning.
Dopo i primi due moduli, dedicati rispettivamente alla ricerca sui bisogni e alla relazione inclusiva con lo studente, stiamo per varare il terzo modulo sulle didattiche. Tre sono i punti di attenzione che dalla fase di ricerca sono emersi e che secondo me occorre tenere presenti.
1. Il modello didattico di riferimento, quando si opera in una sezione ospedaliera, non può essere quello dell'insegnamento. Infatti, da una parte, nelle situazioni di gruppo, si presentano tutte le classiche problematiche delle pluriclasse (bambini e ragazzi di tutte le età), dall'altra, nel lavoro individuale (che nel caso dell'istruzione domiciliare è la condizione obbligata), si creano situazioni di relazione molto differenti da quelle della lezione. Tutto indica nella direzione di un cambio di paradigma verso didattiche di tipo tutoriale attraverso l'attivazione di due livelli di intervento:
- il peering e il reciprocal teaching. Ovvero il ricorso alle pratiche di apprendimento tra pari e di reciproco insegnamento in cui il ragazzo più esperto si fa trainer del meno esperto. Sono strategie tipiche delle cultura partecipative giovanile che si aggregano nel social network: un elemento in più per adottarle nella didattica;
- il one-to-one. Ovvero il ricorso a tutte quelle tecniche di aiuto individuale che nel linguaggio del costruttivismo sono indicate come scaffolding, cognitivo ed emotivo.
2. La tecnologia spesso viene salutata per la sua funzione motivazionale e di supporto rispetto agli apprendimenti e all'attività didattica. Di fatto la ricerca recente dimostra che non è tanto la tecnologia a risultare motivante di per sé, quanto piuttosto le attività che ne prevedono l'uso. Questo significa che non è dando un I-pad a ogni ragazzo che si possono ottenere risultati, ma progettando attività interessanti di cui l'I-pad sia il baricentro. Il primato non va dato alla tecnologia, ma alla condivisione delle pratiche.
3. Un ultimo rilievo lo meritano le nuove competenze che proprio la diffusione dei media digitali sta richiedendo di sviluppare e che svolgono un ruolo centrale soprattutto in una didattica atipica come quella che si volge "oltre l'aula". ne accenniamo solo alcune, sulla falsariga di Jenkins (2010):
- le abilità di ricerca;
- il gioco: saper fare esperienze e maturare attitudine al problem solving;
- la simulazione: saper costruire modelli dei processi del mondo reale;
- l'appropriazione: ovvero, come ricavare il massimo dall'abitudine al cut and paste;
- la conoscenza distribuita: come saper archiviare le proprie informazioni e richiamarle al momento opportuno;
- giudizio: valutare credibilità e affidabilità delle fonti.
Si tratta di un obiettivo da far raggiungere, non sono agli studenti ma prima ancora agli insegnanti.
Saturday, October 1, 2011
Media, tecnologie, formazione degli insegnanti
Si è tenuto il 29-30 settembre a Roma il Congresso annuale della SIREM, dedicato quest'anno al tema delle competenze che gli insegnanti devono sviluppare per inserire nella loro didattica i media e le tecnologie. Non voglio ripercorrere qui tutta la ricchezza dei contributi (il programma e la documentazione si possono vedere nel sito della SIREM) ma solo richiamare alcuni temi che al'interno del dibattito sono stati messi a fuoco.
Contenitori della conoscenza. Ne ha parlato Vittorio Midoro nel suo intervento sottolineando come sia soprattutto a questo riguardo che va registrato il principale cambiamento derivante dall'adozione delle tecnologie nella didattica. Con questa categoria inclusiva si fa riferimento tanto ai giacimenti di risorse (contenitori espliciti) quanto alle comunità di pratica (contenitori impliciti). Molte delle questioni didatticamente rilevanti nella ricerca tecnologica oggi passano da qui. Ne ricordo alcuni: l'approccio semantico alla ricerca delle informazioni, le ontologie, la Crowdsourced Education.
Coltivatori digitali. Nicola Paparella, intervenendo nel dibattito, ha sottolineato come in materia di tecnologie dell'informazione e della comunicazione siamo passati senza step intermedi dall'uomo "raccoglitore" all'uomo "cacciatore". Il primo pedina le informazioni, le recupera, le ordina. Il secondo le "stana" senza molta strategia e quando trova qualcosa la infila nel carniere. Mentre Nicola parlava pensavo a molti miei studenti: non hanno più bisogno di essere raccoglitori, perché la riserva di caccia del web è a portata di clic; ma la caccia è spesso frettolosa, condotta senza metodo, "si tira" alla prima cosa che si muove. Continuando sul filo della metafora l'indicazione è di lavorare a costruire dei coltivatori digitali. Per esserlo occorrono scienza ed esperienza, il rapporto con il territorio, la consapevolezza dei tempi, la pazienza della semina e la capacità di scegliere i tempi del raccolto. Insomma, tutto quello che si addice ad un atteggiamento di saggezza, la virtù per eccellenza dell'etica digitale.
Un nuovo maestro Manzi. Si auspica di vederlo spuntare all'orizzonte Alfio Andronico, uno dei padri di AICA e dell'informatica nella didattica in Italia. Anche qui il suggerimento mi piace. Perché il Maestro Manzi aveva capito che con i media (nel suo caso la televisione) si può essere efficaci solo se si comprendono in profondità i loro linguaggi e si è capaci di esprimersi con essi. Si tratta di un'operazione di traduzione linguistica e culturale senza di cui è difficile andare lontano.
Questioni aperte. Sono anche emerse tutta una serie di questioni che meritano attenzione: il problema della definizione di uno standard (o quanto meno di linee-guida) per le competenze digitali degli insegnanti; il problema della certificazione di queste competenze; il problema della spinta a che, anche in Italia, si possa diffondere - come già all'estero - la buona prassi di istituire nelle università Centri che si occupino di Teaching and Learning; da ultimo il problema di riconoscere alle università la possibilità di occuparsi della formazione iniziale degli insegnanti anche in modalità e-learning, venendo incontro alle esigenze di molti insegnanti a diverso titolo già professionalmente impegnati.
Un documento di programma. La SIREM, durante il convegno, ha presentato e discusso un documento che, integrato e modificato, diventerà la proposta ufficiale che la Società Scientifica farà al MIUR e alla CRUI per avviare una discussione seria su un tema non aggirabile. La competenza digitale nel 2011 non può essere considerata un optional o un "pallino" di alcuni insegnanti "tecnologici", ma deve diventare un sapere professionale proprio come gli altri che entrano fattivamente a costituire il profilo professionale di chi insegna. E' un impegno.
Tuesday, May 31, 2011
I ragazzi, gli adulti e i media
Su richiesta degli amici delle ASL liguri torno sui contenuti del dibattito che fece seguito al mio intervento “genovese” di cui ho già riferito in un recente post di questo blog. Si discuteva di “nativi” e “migranti” e di come colmare il gap esistente tra loro per facilitarne la comunicazione. Avevo organizzato le risposte alle domande – tante e tutte interessanti – attorno a tre grandi item:
- i concetti;
- gli attori;
- le pratiche.
Restituisco in sintesi in questo post l’intelaiatura del mio discorso a tutti e tre questi livelli.
1. I concetti
Un primo focus riguarda categorie come quelle di “virtualità” e di “informazione” che continuano a fare problema. Ci si chiede, infatti, se “essere sociali” nel Web sia la stessa cosa che esserlo “nel sociale”: la preoccupazione è, insomma, che alla lunga la socialità mediata sottragga tempo e spessore alla socialità “in carne ed ossa”. Sul versante dell’informazione, invece, soprattutto da parte di chi opera nella prevenzione, è sempre più chiaro che la conoscenza del rischio non è sufficiente a garantire che il ragazzo lo eviti.
La prima questione mi consente di dire che la categoria del virtuale, in quanto contrapposta a quella del reale, va definitivamente dichiarata superata. Ci aveva già pensato diversi anni orsono Pierre Levy a far osservare che l’opposto del virtuale non è il reale, ma l'attuale. Aristotelicamente, la virtus (ovvero la potenza, la entelechia) non è nulla, ma una forma d’essere assolutamente "reale": nel seme il frutto è in potenza, nel frutto la potenzialità del seme è portata all’atto. Vale lo stesso per la tecnologia. Una relazione mediata da computer non è priva di realtà, al contrario: soprattutto non è alternativa rispetto ad altre forme della relazione insieme alle quali determina l’insieme delle possibilità attraverso cui il soggetto costruisce il proprio mondo sociale. Non ha più senso parlare di reale e virtuale in un contesto come quello attuale in cui quel che sperimentiamo è piuttosto uno spazio-tempo assemblato: le categorie importanti oggi sono quelle di intimo/privato, o di isolamento/partecipazione.
Quanto all’informazione è chiaro che essa non esaurisce il compito della formazione. L’informazione di per sé può non essere sufficiente a prevenire il rischio: essa perde di efficacia man mano che passa il tempo dal momento in cui la si è reperita; può alimentare la curiosità invece di sollecitare l’attenzione; se è troppo tecnica rischia di essere molto lontana dalle pratiche dei soggetti, che fanno fatica a ricondurla ai contesti di vita dei quali fanno esperienza. Tutto questo spinge a sperimentare altre forme di intervento.
2. Gli attori
I protagonisti della “partita” sono i ragazzi e gli adulti. Si tratta di due categorie di soggetti che più che divise da differenze generazionali (o, peggio, evolutive) mi sembrano incapaci di ascolto e relazione, soprattutto per colpa degli adulti.
La ricerca recente sui consumi degli adolescenti indica che i ragazzi distribuiscono bene le loro attività: le loro “diete” sono equilibrate. Rari sono i casi di ragazzi riconducibili al profilo degli “hikikomori”. La casa sta sostituendo la piazza come luogo di ritrovo, o meglio, dalla casa è possibile raggiungere quei luoghi sociali perfettamente integrati nelle nostre vite che sono i social network: gli adolescenti sono sempre in contatto, sia off che on line. Usano i loro media non per isolarsi ma per fare comunità. Certo Internet rappresenta per loro anche un rischio (se si pensa al pericolo del grooming, soprattutto per i più piccoli), ma occorre non dimenticare che sono numerosi i casi in cui sono proprio gli adolescenti ad “adescare” gli adulti.
Gli adulti sono normalmente molto lontani dalle forme di consumo dei ragazzi. Le culture partecipative di cui loro sono protagonisti sono distanti. L’adulto ha spesso voglia di ritirarsi più che di partecipare, oppure vede nel social network un’opportunità per tornare in gioco, senza riuscire a capire che colmare il gap non significa tornare adolescenti. Se poi parliamo di quel tipo particolare di adulto che è l’insegnante, pare di poter dire che la categoria che per lo più lo descrive (tranne le positive eccezioni, che pure esistono) sia quella della refrattarietà. Gli insegnanti non si mettono in gioco, hanno paura. Le ragioni sono diverse: bassa autostima, percezione di richieste elevate, mancanza di formazione metodologica, un atteggiamento conservativo come forma di autodifesa. In una battuta: la scuola non è cambiata, il mondo sì.
3. Le pratiche
Come attivare il dialogo? Come colmare il gap? Procedendo per punti, schematicamente, si possono fissare alcune indicazioni operative:
- riscoprire il valore della mediazione (che però significa chiedere agli adulti di riappropriarsi di questo compito, di tornare ad essere significativi per i ragazzi);
- usare i media e i linguaggi dei giovani per aprire dei canali di prevenzione;
- mettere al centro il bambino-autore, ossia promuovere l’uso creativo del cellulare e degli altri media per sviluppare senso critico attraverso la produzione dei messaggi;
- ibridare le culture e condividere le pratiche;
- allestire delle passerelle conversazionali da percorrere nei due sensi: ci sono esperienze dei ragazzi che devono poter “entrare” nel mondo degli adulti e viceversa. E a volte proprio la rete, minacciando di compromettere per sempre la relazione, finisce per attivarla, come succede nel film di Veronesi Genitori e figli. Agitare bene prima dell'uso.
Thursday, May 26, 2011
La relazione educatore-bambino
Sono reduce da una bella mattinata. Con Susanna Mantovani abbiamo tenuto le due relazioni-guida di una giornata di formazione per le insegnanti di scuola dell'infanzia e le educatrici di nido del Comune di Milano, nell'ambito di un più articolato progetto formativo. Il tema della giornata era la relazione tra educatore e bambino. Susanna lo ha affrontato occupandosi del "dentro" (la sezione, la classe). Lo ha fatto con la proverbiale efficacia comunicativa, la passione che le brilla negli occhi quando si parla di bambini, la smisurata competenza che ne fa su questo tema uno dei massimi esperti a livello internazionale. Io mi sono inserito provando a costruire un quadro complementare a quello della sua analisi. Partendo dalla sua affermazione secondo cui nelle relazioni esistono delle costanti (e delle variabili) culturali ho cercato di restituire un punto di vista interpretativo su quelle tra queste costanti che caratterizzano l'oggi, disegnando un quadro di quel che rispetto alla sezione e alla classe è il "fuori".
Il mio punto di partenza è (stato) un dato, evidente a chiunque si occupi di educazione: sembra che i bambini (ma anche gli adolescenti, i giovani) di oggi siano in qualche modo diversi da come eravamo noi (o anche solo i loro predecessori di 5/10 anni orsono). Più svegli? Più distratti? Più intelligenti? Meno profondi? Meno creativi? Meno obbedienti? Più irrequieti?
Ma è vero? In che misura? E su che base?
Provo a rispondere in tre passaggi:
- una tesi;
- alcune linee di analisi;
- delle piste operative.
1. La tesi
Non sono diversi i bambini, è diversa la società, ma i sistemi formativi sono sempre gli stessi.
Da questa tesi derivano alcune conseguenze:
a) fissarsi sulla "loro" diversità è un alibi per la "nostra" incapacità (come sempre capita quando si gioca il gioco del "noi e loro");
b) fissarsi sulla "loro" diversità innesca meccanismi nostalgici di ritorno a presunte età dell'oro dell'educazione ("non ci sono più i bambini di una volta", "eh, la scuola di una volta sì...");
c) fissarsi sulla "loro" diversità non consente di accettare e vivere il cambiamento.
2. Linee di analisi
Ma dove passa il cambiamento? Quali sono gli elementi che alimentano la percezione di diversità dei bambini di oggi? Ne individuo tre (potrebbero essere di più).
a) La precocità. Va addebitata alla società degli adulti, al venir meno della strada e del cortile (percepiti come poco sicuri e la percezione è spesso sproporzionata rispetto alla sicurezza reale), al fatto che i bambini si interfacciano soprattutto con gli adulti, ne assumono i comportamenti, ne prendono a modello gli stili. Il risultato è l'adultizzazione precoce, il furto dell'infanzia perpetrato ai danni del bambino, che ce se ne renda conto o meno. Ne è immagine eloquente Little Miss America, il programma della televisione americana che nelle ultime settimane mantiene il primo posto nella classifica di Striscia dedicata ai nuovi mostri.
b) La familiarità con i dispositivi tecnologici. I bambini - senza riaddentrarci nella questione dei "nativi digitali" - vivono nella società dell'informazione, una società in cui la diffusione, la naturalizzazione e l'indossabilità dei media li rende sempre più integrati con le pratiche dei soggetti.
Da questa familiarità dipendono altri aspetti della "nuova infanzia":
- velocità esecutiva;
- attenzione distribuita;
- multitasking.
c) La difficoltà a gestire la frustrazione. La nostra è una società dell'abbondanza in cui il disagio è spesso legato all'avere troppo. I bambini di oggi sono vittime del surriscaldamento affettivo (Meirieu) di cui i genitori li circondano, ovvero: iperaccudimento, protezione, difesa d'ufficio, assecondamento. La troppogenitorialità di cui parla Anna Mariani in un suo libro.
3. Proposte educative
Come costruire la relazione di fronte a queste istanze? La risposta passa per la lettura di questi elementi e la individuazione dei bisogni che ne derivano. In sintesi:
a) compensare, disadultizzare, proporre attività e stili di relazione a misura di bambino;
b) garantire continuità (i media devono essere anche in classe, in sezione) ma allo stesso tempo bilanciare, mediare i media, favorire esperienze dirette e outdoor, lavorare sulla natura tattile dei media, un aspetto ch essi condividono con le altre esperienze del bambino;
c) sdrammatizzare, contenere, chiedere al genitore atteggiamenti più equilibrati. Qui incomincia veramente il difficile.
Il mio punto di partenza è (stato) un dato, evidente a chiunque si occupi di educazione: sembra che i bambini (ma anche gli adolescenti, i giovani) di oggi siano in qualche modo diversi da come eravamo noi (o anche solo i loro predecessori di 5/10 anni orsono). Più svegli? Più distratti? Più intelligenti? Meno profondi? Meno creativi? Meno obbedienti? Più irrequieti?
Ma è vero? In che misura? E su che base?
Provo a rispondere in tre passaggi:
- una tesi;
- alcune linee di analisi;
- delle piste operative.
1. La tesi
Non sono diversi i bambini, è diversa la società, ma i sistemi formativi sono sempre gli stessi.
Da questa tesi derivano alcune conseguenze:
a) fissarsi sulla "loro" diversità è un alibi per la "nostra" incapacità (come sempre capita quando si gioca il gioco del "noi e loro");
b) fissarsi sulla "loro" diversità innesca meccanismi nostalgici di ritorno a presunte età dell'oro dell'educazione ("non ci sono più i bambini di una volta", "eh, la scuola di una volta sì...");
c) fissarsi sulla "loro" diversità non consente di accettare e vivere il cambiamento.
2. Linee di analisi
Ma dove passa il cambiamento? Quali sono gli elementi che alimentano la percezione di diversità dei bambini di oggi? Ne individuo tre (potrebbero essere di più).
a) La precocità. Va addebitata alla società degli adulti, al venir meno della strada e del cortile (percepiti come poco sicuri e la percezione è spesso sproporzionata rispetto alla sicurezza reale), al fatto che i bambini si interfacciano soprattutto con gli adulti, ne assumono i comportamenti, ne prendono a modello gli stili. Il risultato è l'adultizzazione precoce, il furto dell'infanzia perpetrato ai danni del bambino, che ce se ne renda conto o meno. Ne è immagine eloquente Little Miss America, il programma della televisione americana che nelle ultime settimane mantiene il primo posto nella classifica di Striscia dedicata ai nuovi mostri.
b) La familiarità con i dispositivi tecnologici. I bambini - senza riaddentrarci nella questione dei "nativi digitali" - vivono nella società dell'informazione, una società in cui la diffusione, la naturalizzazione e l'indossabilità dei media li rende sempre più integrati con le pratiche dei soggetti.
Da questa familiarità dipendono altri aspetti della "nuova infanzia":
- velocità esecutiva;
- attenzione distribuita;
- multitasking.
c) La difficoltà a gestire la frustrazione. La nostra è una società dell'abbondanza in cui il disagio è spesso legato all'avere troppo. I bambini di oggi sono vittime del surriscaldamento affettivo (Meirieu) di cui i genitori li circondano, ovvero: iperaccudimento, protezione, difesa d'ufficio, assecondamento. La troppogenitorialità di cui parla Anna Mariani in un suo libro.
3. Proposte educative
Come costruire la relazione di fronte a queste istanze? La risposta passa per la lettura di questi elementi e la individuazione dei bisogni che ne derivano. In sintesi:
a) compensare, disadultizzare, proporre attività e stili di relazione a misura di bambino;
b) garantire continuità (i media devono essere anche in classe, in sezione) ma allo stesso tempo bilanciare, mediare i media, favorire esperienze dirette e outdoor, lavorare sulla natura tattile dei media, un aspetto ch essi condividono con le altre esperienze del bambino;
c) sdrammatizzare, contenere, chiedere al genitore atteggiamenti più equilibrati. Qui incomincia veramente il difficile.
Saturday, May 21, 2011
Abitanti digitali
Sono reduce da Macerata, dove ho preso parte al Convegno "Abitanti digitali", l'ultimo (per ora) organizzato dall'Ufficio Comunicazioni Sociali della CEI sul tema del rapporto tra i nuovi media e la pastorale. Sulla via del ritorno ho maturato alcune riflessioni che "in punta di piedi" mi piace condividere.
La prima. Come si potrebbe dire citando Cetto La Qualunque, abbiamo capito cosa oggi renda qualsiasi cosa un successo: solo, quantunquemente ed esclusivamente IL DIGITALE. Responsabili delle politiche pubbliche, giornalisti, professori universitari (mi ci metto anch'io), tutti sono accomunati da un unico grande discorso: nativi digitali, scuole digitali, montagne digitali, parchi digitali, tutto digitale. E' la maledizione dell'avanguardia, come suggeriva Benjamin: prima o poi si converte in tradizione! Lì nasce il problema: perché se tutto è digitale è come se nulla più lo fosse. Tutti ne parlano. Non si distingue più niente, non si capisce più molto. Mi era già capitato di assistere a qualcosa di simile con la Media Education e quando è successo mi sono detto che dovevo smetterla di occuparmene: mi sa che farò lo stesso con il digitale...
Seconda considerazione. Ieri mattina, durante il dibattito seguito alla relazione-chiave del convegno, si sono ascoltati un sacerdote, un padre di famiglia, un giovane di 23 anni, un nonno. Forse in maniera non del tutto composta (soprattutto se si pensa che l'evento era in streaming sul Web) hanno detto alcune cose che mi hanno fatto pensare e mi hanno un po' messo in crisi. Il sacerdote ha chiesto perché non gli lasciassero "dire Messa" lì dove i ragazzi si incontrano: la piazza, la pizzeria... Il padre di famiglia si è chiesto: ma se tutti i preti sono su Facebook, poi, con la gente chi ci parla per davvero? Il giovane anche lui si faceva una domanda: perché TV 2000, la TV dei Vescovi, ha chiuso l'unico programma per i giovani della televisione italiana, "Uno X Uno" (lo aveva ideato e ne era l'anima Gianfranco Scancarello, un grande educatore, uno splendido padre di famiglia, un testimone della fede la cui vita da cinque anni è stata violentata dai presunti fatti di Rignano)? E poi il nonno. Un nonno toscano, che ha parlato dell'importanza di insegnare ai bambini l'odore delle vacche e a resistere alle mode. La ricetta in "cinque" parole targate Lorenzo Milani: "Ribellatevi! Ne avete l'età". Mi sembrano spunti belli, importanti: se devo essere sincero me li sono portati a casa come il guadagno vero del convegno, con tutto il rispetto per la sua parte "accademica" (mia relazione inclusa).
Terza considerazione. Un sacerdote della diocesi di Padova, in un quarto d'ora, prima del pranzo, quando il richiamo delle olive ascolane era già forte, ha dato a tutti una lezione. Una lezione di pastorale vissuta. Don Marco Sanavio è un "animale pastorale": la creatività e il genio di saper stare con i giovani ce l'ha nel sangue. Il suo racconto di un corso elearning "libero" per gli animatori pastorali, che ha innescato una "rete di feste" della pace in tutta la diocesi è stato commovente come sempre sa esserlo tutto ciò che tocca in profondità quel che c'è in noi di più umano. Auguro a Don Marco di non fare carriera: credo che il posto migliore per uno come lui sia stare in mezzo ai ragazzi. Se lo portassero via di lì allora sì che sarebbe un delitto. Sarebbe un delitto perché abbiamo bisogno di educatori, ne abbiamo bisogno come il pane. Solo dagli educatori, dai testimoni veri, dipende la possibilità per noi di avere un futuro. Diamo fiducia ai giovani: se la meritano e aspettano solo che qualcuno di noi si sintonizzi con loro. A patto di essere significativo. Ah, dimenticavo... L'immagine è tratta dal ciclo dedicato da Arcabas ad Emmaus. Rappresenta il "fotogramma" della missione: "E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme..."...
Saturday, April 30, 2011
Nativi... migranti: come colmare il gap per comunicare meglio
Il 28 aprile scorso sono stato impegnato a Genova in una giornata di formazione con gli operatori delle ASL liguri che inaugurava un ciclo di incontri sulla Media Education come strumento di prevenzione nel lavoro con gli adolescenti. Il titolo che mi è stato assegnato chiedeva di problematizzare il rapporto tra generazioni riguardo all'uso dei media e di indicare strategie operative per superare il gap a questo riguardo. Ho organizzato il mio intervento in tre momenti:
- un'attività di innesco;
- una definizione dei termini e dei problemi in gioco;
- l'indicazione di alcune proposte operative.
1. Giochiamo con gli SMS...
Ho iniziato col verificare che tutti avessero il cellulare... acceso. Poi ho chiesto di comporre un SMS nel quale spiegare a chi non ne sapesse nulla chi/cosa è un nativo digitale. Mentre tutti tenevano il loro SMS composto sullo schermo del loro telefonino ho avviato un brain storming sulle difficoltà incontrate per redigere il testo. Le risposte, in ordine sparso, hanno constatato che:
- occorre una manualità allenata;
- è difficile digitare velocemente;
- occorre conoscere la sintassi degli SMS (ad esempio per ricorrere a smileys e abbreviazioni);
- si deve sintetizzare in poche battute un concetto complesso e articolato;
- bisogna tenere presente il target cui ci si sta rivolgendo.
L'analisi di queste osservazioni ci ha condotto a una prima conclusione provvisoria: la redazione di un SMS non è un gioco banale, richiede lo sviluppo di skills e competenze.
Per skill intendo un'abilità procedurale, la destrezza, la capacità d'uso che si acquisisce in forma di habitus (nel senso aristotelico del termine) attraverso l'esercizio, la reiterazione del compito.
La competenza, invece, è un sapere di azione, è la capacità di agire strategicamente orchestrando schemi di azione per risolvere problemi complessi.
Ho chiesto a questo punto di inviarmi gli SMS. Eccone qui di seguito qualcuno (ricordo che la richiesta era di definire il nativo digitale):
- "Chi è cresciuto respirando le nuove tecnologie"
- "Nato con la tast, il pc e amico di google e dei blog"
- "Chi è nato e cresciuto nell'era di internet dal '90 in poi"
- "Persone che sono cresciute masticando pane e tecnologie digitali. Inevitabilmente giovani"
- "Nessun pulsante, nessuno schermo, nessuna tastiera o attrezzo "connesso" mette in crisi un nativo digitale!"
La pubblica lettura di questi SMS (erano molti di più, ho riportato i principali) ha consentito di avviare una discussione sulle rappresentazioni individuali e sociali del nativo digitale. Il risultato è stato l'accordo sul fatto che il nativo abbia dimestichezza con la tecnologia, ma l'apertura di due fronti: quello di coloro che lo ritengono una categoria generazionale (giovane, nato negli anni ''90) e chi invece ritiene di no. Tornerò più avanti sulla questione che ho già peraltro "liquidato" in un altro post di questo blog.
2. Termini e problemi in gioco
La diffusione sociale dei nuovi media genera nuove forme di organizzazione cognitiva che sono legate a nuove modalità di fare esperienza del mondo. Ne individuo tre fornendo di ciascuna una definizione, alcuni esempi, la funzione cognitiva che essa interessa e il tipo di gap che suggerisce.
a) Workflow Learning (WL)
Si tratta letteralmente di un apprendimento che avviene contestualmente allo svolgimento di occupazioni che non hanno nulla a che vedere con l'apprendimento.
Alcuni esempi:
- apprendere le funzioni di un cellulare usandolo;
- sviluppare competenze inferenziali videogiocando;
- raccogliere informazioni sull'attualità facendo zapping in televisione;
- imparare a rendere la propria comunicazione sintetica, significativa e mirata al suo target componendo SMS.
La funzione cognitiva maggiormente sollecitata (modificata?) dal WL è l'attenzione: non viene richiesto che sia focalizzata; si apprende comunque anche se essa è distribuita.
Qui il gap rispetto a logiche di apprendimento più tradizionali si registra esattamente al livello della coppia focalizzato/distribuito: in contesto formale l'apprendimento è sempre intenzionale e presuppone l'attenzione esclusiva di chi apprende.
b) User Generated Context
Si tratta di una forma particolare di protagonismo dell'utente che consiste nella capacità di generare contesti cognitivi personali all'interno dei quali collocare le informazioni e le esperienze che ci appartengono per assegnare ad esse significato.
Alcuni esempi:
- ricorrere ad aggregatori di risorse Web per disporre di una mappa sintetica delle proprie forme di presenza on line;
- utilizzare gli RSS feed per rimanere aggiornati sui temi di proprio interesse;
- organizzare le proprie informazioni in forma di repertori di link (come in Delicious);
- usare tecniche di ritaglio, riporto, citazione per appropriarsi di idee e contenuti che ci sentiamo di condividere.
La funzione cognitiva in questo caso sollecitata è la memoria: quella a breve termine viene sollecitata al momento della navigazione/selezione delle risorse da contestualizzare, quella a lungo termine viene chiamata a fissare più che i contenuti, i contesti e i percorsi che servono al recupero efficace dei dati.
Il gap rispetto alle logiche di apprendimento tradizionale è legato a un uso diverso della memoria a lungo termine: dalla memoria-magazzino alla memoria-indice.
c) Friends Storing
Si tratta della capacità di allestire e mantenere reti sociali all'interno delle quali reperire risorse e informazioni e attraverso le quali esercitare l'intelligenza collettiva e la partecipazione.
Alcuni esempi:
- organizzare la lista dei propri amici nel social network;
- creare e mantenere gruppi in Facebook;
- partecipare a newsgroup e liste di discussione;
- utilizzare servizi di condivisione e conversazione come Google Buzz e Twitter.
In questo caso quel che viene sollecitato è l'intelligenza sociale e connettiva: la capacità di entrare in relazione con altri soggetti, di entrare in logiche di tipo collaborativo, di sviluppare forme di partecipazione.
Il gap in questo caso è legato al tipo differente di cultura che si costruisce insieme alle sue logiche. Le culture di questo tipo sono culture partecipative (Jenkins) basate sulla condivisione di spazi di affinità (Gee) e caratterizzate da alcuni elementi distintivi:
- forte senso di appartenenza, percezione di importanza rispetto al legame sociale;
- forme di tutoraggio peer-to-peer;
- spinta alla condivisione e alla creazione di materiali;
- barriere abbastanza basse rispetto a impegno civico ed espressione creativa.
Si tratta di aspetti che normalmente non appartengono ai contesti tradizionali, tendenzialmente individuali e non partecipativi.
In tutti questi casi il gap è generazionale? E' un problema di anagrafica? O di competenze sviluppate con l'uso?
3. Colmare il gap
Cominciano a individuare livelli diversi ai quali il gap si può registrare.
Vi è anzitutto un participation gap: è il problema dell'accesso diseguale, che comporta di negare a chi non ha accesso la possibilità di usufruire delle opportunità dei media digitali, a chi ha già delle competenze di non poterle utilizzare.
A un livello più alto è il language gap: si può avere accesso dal punto di vista tecnico ma non possedere gli alfabeti. Le competenze informatiche di base sono una competenza-chiave di cittadinanza nella società odierna.
Il linguaggio, il controllo tecnico del mezzo e dei suoi alfabeti non è tutto. Vi sono conoscenze relative al mondo della comunicazione digitale che non si possono ridurre alla padronanza del mezzo (knowledge gap).
Infine, occorre comprendere che i media sono sistemi culturali che modellano le rappresentazioni e i valori e costituiscono spazi di organizzazione dei significati e delle pratiche attraverso cui produrli (culture gap).
Metodologicamente, questi gap si possono colmare a due livelli:
- individuale, attraverso lo sforzo di conoscere, sperimentare, usare, acquisire competenze;
- operativo, immaginando modalità che consentano all'operatore di usare nell'intervento gli stessi strumenti, gli stessi linguaggi, le stesse logiche che animano le attività individuali e sociali con i media nel tempo e negli spazi dell'informale.
Riferimenti bibliografici:
H. Jenkins (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Milano: Guerini & Associati
P.C.Rivoltella, S. Ferrari (eds.)(2010). A scuola con i media digitali. Milano: Vita e Pensiero.
Per approfondire la questione dei nativi digitali:
- http://www.giannimarconato.it/2010/01/come-apprende-un-nativo-digitale-una-testimonianza/
- un'attività di innesco;
- una definizione dei termini e dei problemi in gioco;
- l'indicazione di alcune proposte operative.
1. Giochiamo con gli SMS...
Ho iniziato col verificare che tutti avessero il cellulare... acceso. Poi ho chiesto di comporre un SMS nel quale spiegare a chi non ne sapesse nulla chi/cosa è un nativo digitale. Mentre tutti tenevano il loro SMS composto sullo schermo del loro telefonino ho avviato un brain storming sulle difficoltà incontrate per redigere il testo. Le risposte, in ordine sparso, hanno constatato che:
- occorre una manualità allenata;
- è difficile digitare velocemente;
- occorre conoscere la sintassi degli SMS (ad esempio per ricorrere a smileys e abbreviazioni);
- si deve sintetizzare in poche battute un concetto complesso e articolato;
- bisogna tenere presente il target cui ci si sta rivolgendo.
L'analisi di queste osservazioni ci ha condotto a una prima conclusione provvisoria: la redazione di un SMS non è un gioco banale, richiede lo sviluppo di skills e competenze.
Per skill intendo un'abilità procedurale, la destrezza, la capacità d'uso che si acquisisce in forma di habitus (nel senso aristotelico del termine) attraverso l'esercizio, la reiterazione del compito.
La competenza, invece, è un sapere di azione, è la capacità di agire strategicamente orchestrando schemi di azione per risolvere problemi complessi.
Ho chiesto a questo punto di inviarmi gli SMS. Eccone qui di seguito qualcuno (ricordo che la richiesta era di definire il nativo digitale):
- "Chi è cresciuto respirando le nuove tecnologie"
- "Nato con la tast, il pc e amico di google e dei blog"
- "Chi è nato e cresciuto nell'era di internet dal '90 in poi"
- "Persone che sono cresciute masticando pane e tecnologie digitali. Inevitabilmente giovani"
- "Nessun pulsante, nessuno schermo, nessuna tastiera o attrezzo "connesso" mette in crisi un nativo digitale!"
La pubblica lettura di questi SMS (erano molti di più, ho riportato i principali) ha consentito di avviare una discussione sulle rappresentazioni individuali e sociali del nativo digitale. Il risultato è stato l'accordo sul fatto che il nativo abbia dimestichezza con la tecnologia, ma l'apertura di due fronti: quello di coloro che lo ritengono una categoria generazionale (giovane, nato negli anni ''90) e chi invece ritiene di no. Tornerò più avanti sulla questione che ho già peraltro "liquidato" in un altro post di questo blog.
2. Termini e problemi in gioco
La diffusione sociale dei nuovi media genera nuove forme di organizzazione cognitiva che sono legate a nuove modalità di fare esperienza del mondo. Ne individuo tre fornendo di ciascuna una definizione, alcuni esempi, la funzione cognitiva che essa interessa e il tipo di gap che suggerisce.
a) Workflow Learning (WL)
Si tratta letteralmente di un apprendimento che avviene contestualmente allo svolgimento di occupazioni che non hanno nulla a che vedere con l'apprendimento.
Alcuni esempi:
- apprendere le funzioni di un cellulare usandolo;
- sviluppare competenze inferenziali videogiocando;
- raccogliere informazioni sull'attualità facendo zapping in televisione;
- imparare a rendere la propria comunicazione sintetica, significativa e mirata al suo target componendo SMS.
La funzione cognitiva maggiormente sollecitata (modificata?) dal WL è l'attenzione: non viene richiesto che sia focalizzata; si apprende comunque anche se essa è distribuita.
Qui il gap rispetto a logiche di apprendimento più tradizionali si registra esattamente al livello della coppia focalizzato/distribuito: in contesto formale l'apprendimento è sempre intenzionale e presuppone l'attenzione esclusiva di chi apprende.
b) User Generated Context
Si tratta di una forma particolare di protagonismo dell'utente che consiste nella capacità di generare contesti cognitivi personali all'interno dei quali collocare le informazioni e le esperienze che ci appartengono per assegnare ad esse significato.
Alcuni esempi:
- ricorrere ad aggregatori di risorse Web per disporre di una mappa sintetica delle proprie forme di presenza on line;
- utilizzare gli RSS feed per rimanere aggiornati sui temi di proprio interesse;
- organizzare le proprie informazioni in forma di repertori di link (come in Delicious);
- usare tecniche di ritaglio, riporto, citazione per appropriarsi di idee e contenuti che ci sentiamo di condividere.
La funzione cognitiva in questo caso sollecitata è la memoria: quella a breve termine viene sollecitata al momento della navigazione/selezione delle risorse da contestualizzare, quella a lungo termine viene chiamata a fissare più che i contenuti, i contesti e i percorsi che servono al recupero efficace dei dati.
Il gap rispetto alle logiche di apprendimento tradizionale è legato a un uso diverso della memoria a lungo termine: dalla memoria-magazzino alla memoria-indice.
c) Friends Storing
Si tratta della capacità di allestire e mantenere reti sociali all'interno delle quali reperire risorse e informazioni e attraverso le quali esercitare l'intelligenza collettiva e la partecipazione.
Alcuni esempi:
- organizzare la lista dei propri amici nel social network;
- creare e mantenere gruppi in Facebook;
- partecipare a newsgroup e liste di discussione;
- utilizzare servizi di condivisione e conversazione come Google Buzz e Twitter.
In questo caso quel che viene sollecitato è l'intelligenza sociale e connettiva: la capacità di entrare in relazione con altri soggetti, di entrare in logiche di tipo collaborativo, di sviluppare forme di partecipazione.
Il gap in questo caso è legato al tipo differente di cultura che si costruisce insieme alle sue logiche. Le culture di questo tipo sono culture partecipative (Jenkins) basate sulla condivisione di spazi di affinità (Gee) e caratterizzate da alcuni elementi distintivi:
- forte senso di appartenenza, percezione di importanza rispetto al legame sociale;
- forme di tutoraggio peer-to-peer;
- spinta alla condivisione e alla creazione di materiali;
- barriere abbastanza basse rispetto a impegno civico ed espressione creativa.
Si tratta di aspetti che normalmente non appartengono ai contesti tradizionali, tendenzialmente individuali e non partecipativi.
In tutti questi casi il gap è generazionale? E' un problema di anagrafica? O di competenze sviluppate con l'uso?
3. Colmare il gap
Cominciano a individuare livelli diversi ai quali il gap si può registrare.
Vi è anzitutto un participation gap: è il problema dell'accesso diseguale, che comporta di negare a chi non ha accesso la possibilità di usufruire delle opportunità dei media digitali, a chi ha già delle competenze di non poterle utilizzare.
A un livello più alto è il language gap: si può avere accesso dal punto di vista tecnico ma non possedere gli alfabeti. Le competenze informatiche di base sono una competenza-chiave di cittadinanza nella società odierna.
Il linguaggio, il controllo tecnico del mezzo e dei suoi alfabeti non è tutto. Vi sono conoscenze relative al mondo della comunicazione digitale che non si possono ridurre alla padronanza del mezzo (knowledge gap).
Infine, occorre comprendere che i media sono sistemi culturali che modellano le rappresentazioni e i valori e costituiscono spazi di organizzazione dei significati e delle pratiche attraverso cui produrli (culture gap).
Metodologicamente, questi gap si possono colmare a due livelli:
- individuale, attraverso lo sforzo di conoscere, sperimentare, usare, acquisire competenze;
- operativo, immaginando modalità che consentano all'operatore di usare nell'intervento gli stessi strumenti, gli stessi linguaggi, le stesse logiche che animano le attività individuali e sociali con i media nel tempo e negli spazi dell'informale.
Riferimenti bibliografici:
H. Jenkins (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Milano: Guerini & Associati
P.C.Rivoltella, S. Ferrari (eds.)(2010). A scuola con i media digitali. Milano: Vita e Pensiero.
Per approfondire la questione dei nativi digitali:
- http://www.giannimarconato.it/2010/01/come-apprende-un-nativo-digitale-una-testimonianza/
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