Si è concluso a ieri all'Università di Macerata un convegno internazionale, molto bello per la qualità degli interventi e il tenore del dibattito. Si è parlato di ricerca educativa, di come valutarne adeguatamente i prodotti,del ruolo delle riviste. Io sono stato invitato a tenervi una relazione dal titolo "Paradigmi, metodi e tecnologie della ricerca educativa" che sarà pubblicata negli atti del convegno in uscita entro giugno di quest'anno. Ne anticipo in questo post una parte che ragiona sul ruolo mutato di chi fa ricerca.
Pierre Bourdieu, nel Mestiere dello scienziato (2003), estendendo la sua idea del capitale culturale alla comunità scientifica (capitale scientifico) vi distingue due retoriche che chiama repertorio empirista e repertorio contingente.
Il repertorio empirista è la retorica ufficiale della comunità scientifica: essa si esprime nei papers pubblicati sulle riviste e adotta una forma di comunicazione formale basata sull’espulsione della sfera soggettiva, sulla impersonalità, sulla controllabilità. Il repertorio contingente, invece, si esprime all’interno dei rapporti informali che gli studiosi hanno tra loro. Esso è fatto di intuizioni non dimostrate, di pratiche apprese con l’uso, di tutto il portato di cui il vissuto personale del ricercatore è costituito.
Queste due retoriche coesistono, anche se in forma ipocrita la comunità scientifica tende a nascondere la seconda costruendo così l’immagine ingannevole di un discorso scientifico che è il riflesso puro e semplice di una “conoscenza conoscente”. Di fatto, invece, se “dietro” quel discorso formale non ci fosse un habitus, «un “mestiere”, cioè un senso pratico dei problemi da trattare, dei modi più adeguati di trattarli, ecc.» (Bourdieu, 2003; 54) non avremmo neppure il discorso formale: «Questa padronanza pratica è una sorta di “connoisseurship” (arte del conoscitore) che può essere comunicata attraverso l’esempio, e non per via di precetti (contro la metodologia) e non è troppo diversa dall’arte di scovare un buon quadro, o di indicarne l’epoca e l’autore, senza essere necessariamente in grado di articolare i criteri impiegati» (Bourdieu, 2003; 54).
Ora, il capitale scientifico, ovvero quella particolare forma di potere simbolico dalla quale il ricercatore ricava il suo prestigio e la sua riconoscibilità all’interno della comunità scientifica, dipende tradizionalmente dalla posizione che egli si vede riconosciuta dai suoi colleghi/concorrenti proprio in ragione del suo repertorio empirico: lo strumento di questo riconoscimento è la citazione. Il duplice dispositivo dell’Impact Factor e dell’H-Index dipende da questa dialettica. Troviamo qui una prima “traiettoria”, un primo “stile”, che Bourdieu riconosce proprio dei “centrali”, degli “ortodossi”, dei “continuatori”.
Molto diversa da questa è la traiettoria dei “marginali”, degli “eretici”, dei “novatori” il cui habitus si esprime meglio in tutti quei momenti in cui sono chiamati a “essere se stessi”: nel momento degli esami, quando tengono delle relazioni nei seminari, quando accompagnano gli studenti nella redazione dei loro lavori, ma più semplicemente nel loro portamento, nei loro tic, nel loro modo di fare. Non è detto che questi tratti contraddistinguano il ricercatore riconosciuto dalla sua comunità scientifica: spesso sono propri invece del ricercatore che si guadagna una forte visibilità sociale (un fenomeno tipico di tutta la stagione neotelevisiva, in cui la presenza in studio dello “scienziato” in qualità di testimonial e certificatore è una costante) magari a discapito della sua posizione di marginalità nella sua comunità scientifica, oppure dello studioso che antepone alla “lotta per il riconoscimento” dentro la sua comunità scientifica, altri valori come la scelta educativa per lo studente.
Le tecnologie modificano in profondità questo rapporto.
In primo luogo, la possibilità di gestire un sito web o un blog personali, o ancor di più un profilo nei social network, favorisce la condivisione sociale del repertorio contingente del ricercatore. Questo comporta sia che il ricercatore dotato di un elevato capitale scientifico lo possa “spendere” anche socialmente fuori della sua comunità scientifica (nell’ambito della ricerca educativa è quanto succede per molti “guru” del momento, da Mizuko Ito, a Henry Jenkins, a Paul Gee), sia che ricercatori “marginali” o “eretici” ottengano un loro palcoscenico.
Al di là di questo, e in modo particolare per quanto attiene la ricerca educativa, la presenza del ricercatore all’interno della blogosfera o del social network ne costituisce uno strategico canale di comunicazione (e di influenza) sulle categorie professionali verso le quali la sua ricerca si sviluppa. È il caso degli insegnanti e della funzione che diversi ricercatori svolgono all’interno delle loro community, come il gruppo di Facebook “Insegnanti” o la comunità di Ning “La scuola che funziona”.
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una situazione molto diversa da quella del ricercatore che trova ospitalità sugli schermi dei media tradizionali. Infatti in questo caso, come Bourdieu ha fatto opportunamente rilevare, il ricercatore-opinionista televisivo, mentre guadagna in visibilità sociale il più delle volte perde il suo status di rispettabilità dentro la sua comunità scientifica. Nel caso dei social media la logica è diversa: soprattutto nel caso della ricerca educativa, essere presenti in essi rappresenta una scelta non dissonante ma complementare e coerente rispetto alla propria posizione all’interno della comunità scientifica.
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