Come è noto la carta stampata, più in generale l'informazione (anche quella televisiva e sul Web), nella nostra società funziona in larga parte come un gigantesco dispositivo di discorsivizzazione. Costruisce e fa circolare discorsi che normalmente esercitano una duplice funzione: allestiscono veri e propri racconti di emancipazione (come quando si tratta, ad esempio, di celebrare la capacità della tecnologia di abbattere le distanze, o di migliorare la scuola), o al contrario disegnano quadri preoccupati che allungano ombre sui destini della società o del genere umano (come quando in agenda vengono inseriti i temi dell'ambiente, della criminalità, del terrorismo). Questa doppia retorica, al cui fondo si riconosce comunque una logica di assolutizzazione e insieme di semplificazione del dato (spingo all'eccesso l'aspetto che mi interessa, eliminando l'impatto di tutte le altre variabili), risponde a criteri evidenti di notiziabilità: in particolare agisce sul pubblico nel rispetto della cosiddetta legge di McLurg (più vicino al pubblico è il fatto, più ha valore di notizia) e in relazione alla significatività di quel che viene raccontato rispetto al futuro sviluppo di una determinata situazione. Fatti che mi toccano direttamente sono più interessanti per me di fatti che percepisco come lontani; allo stesso modo, fatti che si dimostra possano incidere su cosa sarò o potrò fare domani paiono più rilevanti di altri che invece non sembrano avere questa capacità di impatto. Si tratta di una logica chiara e ben nota, non solo agli specialisti di comunicazione. Eppure molte volte ce ne dimentichiamo lasciando che questi discorsi costruiscano la nostra tappezzeria mentale. È il caso dell'idea dell'infanzia. Una recente ricerca del CREMIT, il Centro di Ricerca sull'Educazione ai Media, all'Informazione e alla Tecnologia dell'Università Cattolica, consente di capirlo indicando alcune evidenze su cui varrebbe la pena soffermarsi quando si parla appunto di bambini, di ragazzi, di minori.
La ricerca (condotta in collaborazione cone la Fondazione Oratori Milanesi e Pepita Onlus) ha eletto a proprio focus l'esperienza del gioco in un campione di 2500 soggetti tra gli 8 e i 16 anni. L'obiettivo era duplice: da una parte, verificare quali siano le abitudini di bambini e ragazzi rispetto al giocare, in particolare se e come la comparsa di giochi tecnologici (videogioci in testa) stia modificando queste abitudini; dall'altra parte, indagare sulla capacità degli adolescenti di sviluppare responsabilità verso i più piccoli se chiamati a svolgere compiti educativi. I risultati sono in netta controtendenza rispetto all'immagine di bambini e ragazzi cui veniamo quotidianamente socializzati.
Innanzitutto quel che emerge è il profilo di bambini e di ragazzi “normali”. Certo la normalità non fa notizia, ma fino a prova contraria costituisce ancora lo spazio più ampio di lavoro per chi si occupa di educazione. Non tutto è patologia, né ci cresciamo in seno sempre e per forza soggetti devianti, anche se la tentazione di crederlo è ricorrente, come Freinet indicava già alla fine degli anni Cinquanta riportando le opinioni degli adulti di allora: “Eh già! Non c'è da stupirsi. I ragazzi d'oggi fanno tutto quello che vogliono. Non c'è più autorità né rispetto. Quando eravamo giovani noi, nessuno osava replicare agli ordini del padre...”. Ecco, il dato rasserenante è che che i nostri ragazzi sono normali. Occorrerebbe ricordarsene, certo non per abbassare la guardia o per minimizzare certi loro comportamenti, ma per accostarsi secondo prospettive più equilibrate ai loro problemi.
Un secondo dato che la ricerca disegna con chiarezza è che il bambino è competente e il genitore assente. Il bambino è competente perché ci sa fare, dimostra di disporre di conoscenze e di abilità (soprattutto riguardo a Internet e alla tecnologia in genere); ma anche perché è più maturo di quanto non si pensi, più consapevole di quel che si sia disposti a credere. In compenso il genitore è tendenzialmente assente, due volte assente: assente perché ha pochissimo tempo da spendere per giocare insieme ai figli, ma assente anche perché quando c'è (è in casa o magari li accompagna al parco) non ci gioca. Si tratta di un'evidenza che suggerisce in modo chiaro due cose. Conferma anzitutto che l'idea di infanzia come quella di adulto sono delle rappresentazioni sociali. E indica che spesso noi continuiamo a usare rappresentazioni del bambino e dell'adulto inattuali: il bambino di oggi non è più quell'adulto in fieri, innocente, immaturo, senza difese che viene descritto dalla letteratura sociale del secondo Ottocento; allo stesso modo si dimostra datata l'idea di un adulto responsabile, capace di tutela e di educazione. Come un bel libro di Anna Mariani recentemente suggerisce, la fragilità è oggi categoria che per paradosso meglio si adatta all'adulto.
Chiaramente sono cambiate le condizioni sociali. L'adulto è sempre meno presente non necessariamente per scelta: entrambe i genitori spesso lavorano (anche se la crisi sta correggendo al tempo imperfetto questa constatazione); questo li porta a passare praticamente l'intera settimana fuori di casa; e anche se lavorano a casa, il tempo della loro permanenza è tempo lavorativo, non è tempo domestico; inoltre temi come l'autorealizzazione personale, la carriera, lo star bene con se stessi, funzionano da distrattori antropologici e finiscono per assorbire anche quei ritagli di tempo che rimarrebbero eventualmente liberi per i figli; per non parlare dell'incidenza della condizione di separati e divorziati per i quali il tempo da condividere con i figli diviene ancora più difficile da trovare e da gestire.
Uno degli effetti di questa situazione è che l'agenda dei minori si riempie, assomiglia sempre di più a quella di un manager. Tempo pieno a scuola fino alle 16.00, martedì e giovedì pomeriggio allenamento, lunedì e mercoledì pomeriggio corso di chitarra, venerdì club degli scacchi o piscina, sabato (o domenica) partita. Anche volendo, sarebbe difficile trovare uno spazio libero: occorre chiedere un appuntamento al proprio figlio, incrociare la nostra agenda con la sua, vedere se vi siano “finestre” libere da condividere.
Dunque, l'occupazione a tempo pieno del genitore produce come effetto l'occupazione a tempo pieno dei figli. Con due rilevanti conseguenze.
La prima. I ragazzi non giocano abbastanza. Uno dei dati più inattesi (e per certi versi inquietanti) che emergono dalla ricerca è che l'11% dei bambini tra gli 8 e i 12 anni dichiara di giocare meno di un'ora al giorno. È poco. E del resto se rimangno a scuola fine alle 16.00 e tornano dalle altre attività pomeridiane alle 18.00 o anche più tardi, di tempo per giocare non ne resta poi molto.
Seconda conseguenza. Quando il ragazzo è a casa, normalmente l'adulto non è presente: questo comporta che venga a mancare il controllo sulle sue attività in generale, su quelle di gioco in particolare. Si tratta di un problema rilevante, soprattutto per quanto riguarda i videogiochi cui dedichiamo l'ultima parte della nostra riflessione.
La ricerca conferma quello che tutti sanno: i videogiochi piacciono molto ai ragazzi. Anzi. Sono la loro attività preferita. La ricerca conferma anche quello che altre recenti ricerche sul consumo di videogiochi hanno evidenziato: i genitori conoscono ben poco dell'attività di videogiocatore dei figli, hanno consapevolezza che videogiocare per troppo tempo fa male, ma non dimostrano di avere consapevolezza che a volte il problema dei contenuti (violenti, ideologici, asociali) di un videogioco è educativamente ben più delicato di quello del tempo che il ragazzo ci passa davanti. Quello che la ricerca dice di nuovo è che lo stesso gradimento dei videogiochi lo riceve da parte dei ragazzi il giocare all'aria aperta con gli amici. I giochi di gruppo, di squadra, piacciono tanto quanto i videogiochi. Con sorpresa scopriamo che bambini e adolescenti di oggi non sono videodipendenti incalliti, tendenzialmente individualisti, chiusi in se stessi e nel mondo virtuale che abitano grazie alla Playstation, destinati a un futuro di obesità dalla loro dieta scorretta e dai loro consumi mediali sedentarizzanti. Rifa' capolino la normalità. Sono normali. E competenti. Lo dimostra il fatto che i videogiochi non cannibalizzino le altre abitudini di gioco: piuttosto si inseriscono tra gli altri consumi e così, oltre a giocare all'aria aperta con gli amici, o a praticare i giochi da tavolo, bambini e adolescenti di oggi videogiocano pure, costruendo delle diete di consumo tutto sommato abbastanza equilibrate. E in ogni caso non sono i videogiochi a rinchiuderli in casa: è piuttosto la mancanza di spazi urbani sicuri, il fatto che spesso il parco pubblico sia lontano da casa e richieda che un adulto ce li accompagni. Il problema sono ancora una volta gli adulti: gli adulti amministratori che non riescono più a progettare città a misura di bambino, gli adulti genitori che per scelta o per necessità si sono dati altre priorità.
E allora forse sarebbe tempo di smetterla di giocare al gioco del “noi e loro”. Il gioco del “noi e loro” è ciò che ci porta a dire che ai nostri tempi era tutta un'altra cosa, che ci bastavano due pezzi di legno e passavamo interi pomeriggi a giocare, che loro non sanno più cosa vuol dire fare fatica, che è tutto troppo comodo per loro. Ma il gioco del “noi e loro” è anche ciò che ci porta a dire che loro sono più svegli, che con le tecnologie digitali si trovano a loro agio perché ci sono nati (i famigerati “nativi digitali”), che riescono a fare tante cose allo stesso tempo perché “pensano in parallelo”. Ancora una volta si tratta solo di un dispositivo discorsivo. Serve a declinare le nostre responsabilità di adulti: serve a dire (soprattutto) a noi stessi che se sono diversi, in fondo, non è colpa nostra. Quel che occorre fare, invece, è rendersi consapevoli che non sono molto diversi da come eravamo noi. Solo così potremo accorgerci che sono migliori di come ce li immaginiamo (e di quanto ce li meritiamo).