1. 17 febbraio. In partenza da Malpensa sembra di essere in un suk. Gente che si muove avanti e
indietro, bambini che corrono e saltano sui sedili. Le hostess della Egypt Air
sembrano abituate. Una signora piange disperata. Capiamo dopo un po’ che non le
hanno dato il posto di fianco al marito. Sorridiamo. Mentre tutti si sistemano
vedo intorno a me donne che nel velo sembrano imprigionate, perdono ogni
femminilità; altre in compenso proprio grazie al velo sono bellissime. Al Cairo
il transito è laborioso. Cominciamo a fare i conti con le misure di sicurezza.
Una giovane giordana è spazientita. Ci si rivolge in inglese, poi capisce che
siamo italiani: “Ho avuto un marito italiano” – ci dice. Non osiamo chiedere
oltre. Ad Amman ci aspetta Uahil, il nostro uomo in Giordania. Scambiamo due parole
presentandoci. Poi, andando alla macchina, chiedo dell’ISIS, della situazione
del Paese. Lui sorride: “Gente che ha giocato troppo con i videogiochi, hanno
perso il senso della realtà”. Lungo l’autostrada che porta ad Amman c’è molta
polizia. Chiedo se è normale: “Qui siamo molto sicuri”. Arriviamo in albergo.
L’accesso alla rampa della hall è bloccato da dei dissuasori. Arriva il
guardiano con un metal detector: ispeziona l’auto. Un altro metal detector
all’ingresso scannerizza noi e le nostre valigie. “Questo lo dobbiamo a Bin
Laden e all’ISIS”, dice Uahil sorridendo, “ma dopo un po’ ti ci abitui”. E
infatti nei giorni successivi ci faremo l’abitudine anche noi. Salgo in camera
e penso a cosa sarebbe il Medio Oriente se lo si potesse attraversare in
libertà.
2. 18 febbraio. La cittadella di Amman è il luogo della città dove meglio si leggono le
stratificazioni urbanistiche e di cultura che hanno caratterizzato la storia
del Paese. Sulla stessa collina, su insediamenti neolitici si sono sovrapposte
la città romana (di cui ancora oggi si apprezzano resti delle colonne e il
perimetro del Tempio di Ercole), quella bizantina e quella Ommaiade. Dalla
cittadella la vista spazia dai quartieri palestinesi – case basse, tutte
bianche, cresciute l’una sull’altra a occupare ogni spazio libero – ai
grattacieli che stanno ridisegnando la skyline della città moderna. Usciti
dalla cittadella, Uahil contratta con un taxista sul prezzo della corsa:
“Dodici!”, “Dieci!”, “Otto!”, “Cinque!”, “Mashi”, “Mashi”. Ci tuffiamo nel
traffico congestionato. Tappa nel mall vicino al nostro albergo. Le stesse
firme dei nostri centri commerciali: di strada siamo anche passati davanti
all’IKEA. La globalizzazione. Si prende un caffè. Ho il torto di provare a
pagare: il cassiere rimane imbarazzato e non prende i miei soldi. Uahil mi
spiega che noi siamo ospiti e che se provo a pagare lo discredito. Gli chiedo
scusa. Ci sediamo e il discorso cade spontaneamente sulla regina Rania. Ci
accorgiamo che in Giordania non gode della stessa stima di cui gode a livello
internazionale. È palestinese. E i Giordani si ricordano ancora la guerra che qui si combattè dal settembre nero del 1970 fino al luglio del 1971. Uahil ci racconta di aver perso un cugino, ucciso in strada dai
palestinesi a diciotto anni. Qui in Giordania, tra palestinesi ed ebrei non
hanno dubbi: meglio i secondi. E capisco che veramente il groviglio del Medio
Oriente è difficilmente districabile, che noi occidentali non facciamo
distinzioni: sono tutti islamici e tutti arabi, per noi. E invece occorrerebbe
capire. “Noi e gli ebrei siamo figli dello stesso padre, ma abbiamo due madri
diverse”, chiosa Uahil alludendo alla comune genealogia da Abramo. Rientriamo
in albergo.
3. Lunch presso la residenza del nostro
Ambasciatore insieme ai partner giordani con cui stiamo per avviare una ricerca
nelle scuole giordane su rappresentazione e usi dei media digitali, sia da
parte degli insegnanti che da parte degli studenti. L’ipotesi è di associare al
meeting in cui socializzeremo i dati (in autunno) un seminario di studi sulle
tecnologie didattiche tra esperti giordani e italiani. Il nostro Ambasciatore è
squisito: ottimo ospite, grande conversatore. Veniamo avvisati che domani
nevicherà e che Amman sarà paralizzata. Ci consigliano di anticipare la visita
a una delle scuole della ricerca per partire subito alla volta di Petra.
Curioso. Di solito si associano all’immagine del Medio Oriente il caldo e il
sole: e invece – come mi è già successo in Libano – si può rimanere sotto una
fitta nevicata. Speriamo bene.
4.
Cena in un ristorante tipico, fuori dei circuiti turistici. Scegli il tuo
pesce, lo tolgono dalla vasca, lo cucinano sulla brace, poi lo servono in
tavola in un piatto da portata che sta al centro del tavolo. Insieme arrivano pane
pita appena sfornato, insalata, salsa, grandi limoni e arance tagliati a pezzi.
Con le mani, aiutandosi con il pane, tutti mangiano il pesce dallo stesso
piatto. Un tè molto forte a fine pasto segna il congedo da quello che oltre
che un incontro con sapori straordinari è stato un bellissimo momento di
convivialità. Ci spostiamo nel retrobottega. Ci accoglie un ambiente pieno di
gente: la vasca dei pesci, la brace in fondo, il forno del pane. Tutti parlano,
alcuni lavorano, clienti si scelgono i loro pesci. In un angolo il proprietario
del locale ci invita ad assaggiare una crema a base di semola cosparsa di
cannella. Ospitalità, sorrisi, grande umanità. Usciamo. Tira un vento gelido.
Fatti pochi passi ci imbattiamo in una friggitoria. I felafel – polpette a base di
farina di ceci - escono caldi e asciutti dall’olio bollente. Un signore che ne ha comprati ce li offre. Siamo sazi ma non resistiamo.
Ne prendiamo una scatola. Ci avviamo all’albergo mentre li finiamo.
5. 19 febbraio. In viaggio da Amman a Petra usciamo dalla Desert Highway per arrivare fino a Im
Ar Rassas, sito che è patrimonio mondiale dell’UNESCO. Il tempo necessario per
ammirare il pavimento a mosaico della chiesa bizantina: semplicemente
meraviglioso. Archi di pietra e il perimetro delle case affiorano qua e là
nell’area dell’antica città fortificata a pianta rettangolare. Un luogo di
grande fascino e bellezza. Ripartiamo per Petra dove arriviamo giusto il tempo
per mangiare la tradizionale Macluba: un letto di riso e patate speziati con
pollo. In serata si attende la neve. Incontriamo in albergo il dirigente della
scuola che dovevamo visitare e che è rimasta chiusa per ordinanza ministeriale.
La visiteremo domenica mattina. Poi Uahil ci accompagna alla Piccola Petra: il
sito più antico dell’insediamento Nabateo che ha dato origine alla città.
Paesaggio lunare e il miracolo dei palazzi di pietra rosa che escono dalla
roccia. Siamo immersi in un silenzio surreale. Si può ascoltare il rumore del vento: ti viene quasi da trattenere il respiro. "Questa è Terra Santa" ci ricorda Uahil. Tre beduini sorseggiano un tè. “Salam”.
6. 20 febbraio. Dopo una notte passata al gelo ci svegliamo sotto una fitta nevicata. Si decide
di visitare comunque Petra. Usciamo in una vera e propria tormenta. Solo
imboccato il Sich (il taglio), ovvero il sentiero che tra le rocce, nello Wahdi, conduce all'antica città, capitale dei Nabatei, il vento cala e ci viene data la possibilità di gustare la
miracolosa particolarità del luogo. Lungo le pareti di pietra rosa due canali
scavati nella roccia, uno per le acque chiare l’altro per quelle di scolo,
suggeriscono il livello cui questa popolazione era giunta nelle sue conoscenze
ingegneristiche. All’improvviso, il sentiero si apre e lascia ammirare in tutta
la sua bellezza il Tesoro, l’edificio più famoso dell’area archeologica, così
chiamato perché si pensava contenesse i tesori dei Nabatei. Le colonne, i
capitelli, il fregio del timpano scavati e cesellati nella roccia sono
realmente una meraviglia da togliere il fiato. I testi dicono che i Nabatei erano di cultura aramaica e che, venuti a contatto con i Greci e i Romani, ne appresero la sapienza architettonica. Ma non è sufficiente a spiegare un simile miracolo. Purtroppo non si può procedere oltre:
l’area archeologica è limitata alla visita a causa del tempo. Si temono frane e formazione di torrenti d'acqua. Al di là di questo l'area archeologica è talmente vasta che andare a recuperare i turisti in difficoltà sarebbe realmente troppo complicato. Ripercorso il sich entriamo in una sepoltura sul lato del sentiero. Da dentro il paesaggio che si gode è incredibile. Rientriamo in
albergo.
8. 22 febbraio. Il sole, finalmente. Esco e faccio quattro passi prima di colazione. Kalhil ci aspetta per farci visitare la sua scuola. Nel sistema di istruzione giordano ci sono sei anni di primaria, quattro di secondaria di primo grado e due di secondaria di secondo grado. La scuola di Kalhil è una secondaria. Ci aspetta insieme a due dei suoi figli. Entriamo. L’edificio è spazioso, così come le aule. Ma quel che sorprende è l’incredibile stato degli arredi e la totale mancanza di strumentazione se si eccettuano i laboratori informatici e l’aula con la LIM. Tutto molto vecchio. Commuove l’orgoglio di Kahlil nel mostrare il poco che ha: vuole che mi sieda al suo posto, in direzione, mi scatta una fotografia. Ci guardiamo stupiti e ci chiediamo che scuola ci abbia descritto in Ambasciata la nostra partner nella ricerca. Ci lasciamo con la promessa di fare qualcosa per loro. Saliamo ancora una volta verso la Piccola Petra. Alì, uno dei piccoli beduini che ci hanno ospitato il giorno prima nella loro tenda, ci guida lungo il sich. Al fondo una scala ricavata nella roccia sale fino a un belvedere naturale dove Aid vende i suoi prodotti di artigianato. Si contratta. Soddisfatti scendiamo verso l’auto dove Uahil ci aspetta. Torniamo verso Madaba, dove pernotteremo, passando per la strada che scende alla Wahdi Araba e immette nella valle del Giordano. La strada è chiusa perché per lunghi tratti è priva di asfalto e difficilmente transitabile. La percorriamo comunque e ne vale davvero la pena. Nella traversata dai 1600 metri fino al livello del mare, si aprono paesaggi incredibili, che cambiano a ogni tornante. Il cielo blu cobalto contrasta con il colore della roccia che varia dal bruno, al rosso, all’ocra, al verde. Un miracolo della natura, uno spettacolo da togliere il fiato. Di strada solo qualche beduino, capre e cammelli inerpicati alla ricerca di qualche arbusto. Entrati nella Wahdi Araba il deserto a perdita d’occhio è punteggiato di tende beduine e di improvvise chiazze di verde. Poi, man mano che si scende verso il Mar Morto, compaiono le coltivazioni: pomodori, soprattutto, che i bambini e le donne vendono ai lati della camionabile che sale da Aqaba. Giunti al Mar Morto troviamo il tempo per immergerci nelle sue acque tiepide e salatissime, poi via verso Madaba. A cena Uahil ci racconta che da bambino imparò a leggere e a scrivere tardi, in quinta classe. Il merito fu di sua sorella che passò un’intera estate a insegnarglielo. La sua maestra non lo riteneva intelligente e lo picchiava. Siamo commossi. Rientrati in albergo gli regaliamo la medaglia dell’Università Cattolica che di solito diamo come ricordo ai nostri laureati specialistici. Glielo spiego e gli dico che non tutti gli insegnanti sono cattivi: adesso è lui a essere commosso.
9. 23 febbraio. Schuai schuai in arabo significa "Piano, piano!". Te lo dicono sorridendo. Non è solo un invito alla calma, a prendersela con comodo. E' un'esortazione ad assaporare la vita in tutti i suoi momenti. Me ne ricordo mentre in volo verso Milano scorro mentalmente la mia agenda della settimana: lezioni, corsi di formazione, conferenze, scadenze. Mi torna alla mente una poesia di Nazim Hikmet. Le lascio spazio...
Il più bello dei mari
è quello che non abbiamo navigato.
Il più bello dei nostri figli
ancora non è cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
ancora non li abbiamo vissuti.
E quello
che di più bello vorrei dirti
ancora non te l'ho detto.