Sunday, December 18, 2022

Compagni di giochi




Oggi, in un dicembre terribile che mi ha già portato via tanti troppi affetti, si è spenta Teresa Magnaterra. Teresa era un'insegnante di lettere meravigliosa, come ce ne vorrebbero tante. Laureata in filosofia, aveva un dottorato di ricerca preso con Pier Giuseppe Rossi all'Università di Macerata. Era un'intellettuale, Teresa, anche se viveva questa sua sporgenza culturale in punta di piedi, senza disturbare, come le era proprio. 

Ci eravamo ritrovati grazie a Pier Giuseppe. Dico che ci eravamo ritrovati perché poi ricostruimmo che ai giardinetti di Filottrano, dietro casa mia, la bambina che giocava con me, era lei. Ce ne accorgemmo ricordandoci dei nostri nonni, sulla panchina a guardarci giocare. "Allora eri tu...". "Anche tu... eri tu...". Io abitavo nelle Marche, in questa bella cittadina della provincia di Ancona, adagiata su una fuga di colline, dove lasciai il cuore quando i miei decisero di lasciare la Orland per tornare a Milano. Profumo di incenso, a cespugli, e un crepitio di lucciole nelle notti d'estate. Il tempo bello dell'infanzia, in un mondo, quello di quella fine anni '60, che lì, nella provincia marchigiana, sembrava proteggere noi e i nostri anni felici. Molti anni dopo Teresa, insieme ai miei compagni di scuola elementare, fu l'anima della proposta che mi portò a ricevere la cittadinanza onoraria filottranese. Una cittadinanza che devo a lei e di cui vado fiero, oltre un secolo dopo un altro bergamasco, ben più grande di me, Giacomo Costantino Beltrami che, dopo aver scoperto le sorgenti del Mississipi, proprio a Filottrano muore nel 1855. Era il 25 gennaio del 2016: nella foto sono con Teresa e con il Sindaco di allora.

Teresa non perdeva uno solo dei miei compleanni. Un appuntamento fisso. Il 25 gennaio del 2019, al mio grazie per i suoi puntualissimi auguri, rispondeva: «Pier Cesare grazie dei tuoi pensieri! Mi fanno bene. Io resisto! Sto facendo la chemio, ma la sopporto contro ogni aspettativa anche dei medici. Riesco anche ad andare a scuola e il contatto con i ragazzi, da sempre, mi dà forza e gioia». Teresa era proprio così: un'entusiasta della scuola, una donna che nell'insegnamento aveva trovato il suo spazio per la testimonianza e per il lavoro militante, senza risparmiarsi. Le dissi che avevo voglia di vederla e che le mandavo un abbraccio: «Ricambio di cuore il tuo abbraccio. Io sono qui al paesello anche tuo. Quando passi da queste parti, fatti sentire». Arrivò il COVID e non riuscii a passare... Nel maggio del 2020 ci saremmo dovuti rivedere a Filottrano, in un evento organizzato proprio da Teresa sul significato della lettura. Saltò tutto. E poi alla fine di dicembre arrivò il mio ricovero in ospedale: la rianimazione, lo stent nella coronaria, l'inizio della vita da cardiopatico. Lei il 4 gennaio del 2020 mi scrive: «Carissimo Pier Cesare, ho letto ora il tuo racconto del Capodanno molto particolare che hai appena trascorso. "Il mio sguardo sulle cose non sarà più lo stesso". Scrivi così. Ne so qualcosa. Per me la malattia è stata uno squarcio nella tenda sicura dei mille problemi e delle quisquilie quotidiane. La luce che è penetrata mi ha fatto vedere in modo diverso, mi ha dato una prova tangibile di ciò che conta. So che anche per te è così. Se c'è qualcosa che posso fare per te, basta un cenno. Ti auguro di avere tanto tempo per usare parole come sai fare tu: sono intense, semplici e intrise di emozioni. Spero di sentirti presto. Un abbraccio grande. Teresa». Lei sapeva ciò che conta, lo aveva imparato e te lo faceva capire con saggezza. Il 25 gennaio dello scorso anno i suoi auguri mi vedono replicare che gli anni «sono ormai tanti...». E Teresa: «Sono tutti quelli che servono a contenere la ricchezza delle esperienze vissute, la bellezza incontrata, la gioia e la sofferenza mischiate, col tempo, in un'unica autentica soluzione... sono gli anni giusti! Un abbraccio». L'ultimo messaggio è del gennaio scorso, sempre in occasione del mio compleanno: «Buongiorno Pier Cesare. Buon compleanno! Ti auguro una giornata intensa e bella perché nonostante tutto ciò che di difficile, doloroso e faticoso possiamo vivere e stiamo vivendo, la vita è un dono meraviglioso! Auguri!». 

Questa era Teresa. Una donna splendida, una testimone meravigliosa, luce per chiunque la incontrasse. La piango, oggi, anche se lei non vorrebbe. Ciao Teresa, la terra ti sia lieve.











Saturday, March 27, 2021

Volti della comunità




Un modo diffuso di interpretare l'esperienza della pandemia è quello che risponde a una prospettiva palingenetica. L'idea è che dalla crisi si dovrà riemergere migliori, che nella fine si possano intuire già i germi di un nuovo inizio. Si tratta di un'idea antica che appartiene a molte culture e a molte religioni. Su di essa si reggono diverse saghe musicali o letterarie, dalla tetralogia wagneriana all'epopea dello Hobbit di Tolkien.

Ci pensavo in questi giorni leggendo un piccolo libro che Edgar Morin ha scritto per punteggiare questo tempo e renderlo oggetto di riflessione: Cambiamo strada: le 15 lezioni del Corona Virus. Cosa avremmo imparato dal Corona Virus? La crisi del paradigma della modernità, quello soggettivistico, con l'uomo al centro e basato sulla convinzione baconiana che sapere equivalga a potere. Un'equazione che fotografa il senso della ragione strumentale e che sta alla base della tecno-scienza.  Averlo compreso, dovrebbe aiutarci a ripartire diversi, a cambiare strada appunto, accingendoci a costruire un umanesimo rigenerato.

Riflettendo su molte delle affermazioni di Morin, le ho istintivamente trasformate in domande. Così quello che nella sua analisi è un'indicazione di lettura, diventa nella mia rilettura un interrogativo. Abbiamo davvero riscoperto l'essenziale, durante questa crisi? La lezione del Covid è stata (ammesso che la crisi si possa dire conclusa), per citare Alexader Langer, lentius, profundius, suavius? Infine, ed è quel che mi interessa di più, abbiamo davvero vissuto (e riscoperto) solidarietà dimenticate?

Per rispondere ho provato a riavvolgere il nastro della crisi pandemica ripercorrendolo alla luce di tre indicatori: il volto della comunità, il tipo di solidarietà, il ruolo delle tecnologie di comunicazione. L'esito di questo rewind è il sospetto (o la consapevolezza) che non abbiamo imparato molto.

Il primo volto di comunità che incontro è quello della comunità emozionale. Siamo nei primi mesi della crisi, nella fase dei flash mob e dell'inno nazionale sui balconi, degli striscioni di supporto ai sanitari e della condivisione nei social. La solidarietà che questo tipo di comunità attiva è una solidarietà leggera, estemporanea, superficiale, che vive il tempo effimero del coinvolgimento. La rende possibile la tecnologia di comunicazione pensata come tecnologia di condivisione: i social come luoghi sociali, come palcoscenici di incontro e contatto digitale.

A questa fase ne segue una seconda in cui il volto della comunità cambia. lo definirei il volto di una comunità accelerata. La si deve alle piattaforme di videocomunicazione e agli strumenti di collaborazione on line che rendono possibile lo smart working e l'Emergency Remote Teaching (DAD, DDI, o qualsiasi altro acronimo si voglia usare per definirlo. La solidarietà che ne risulta è una solidarietà organica che satura i tempi e li addensa, aumenta i carichi di lavoro e sottrae le pause, fa ritrovare tutti alla sera sempre più stressati per giornata interminabili passate a fare slalom tra gli Zoom come Stenmark. La rende possibile la tecnologia pensata come tecnologia di collaborazione: è il trionfo delle piattaforme e dello sharing, della connessione superveloce e delle macchine di ultime generazione

Ora siamo entrati nella terza fase. Si tratta della fase in cui il volto della comunità diviene quello di una comunità immunizzata. La introducono le zone a colori e l'attesa del vaccino prima, poi la ricerca della prenotazione per il vaccino, infine l'ansia di non poter essere vaccinati. Accompagna questa fase una narrazione sociale, rimbalzata dai media, di tipo salvifico: il vaccino salva. Un discorso che produce un terzo tipo di solidarietà: una solidarietà sospesa. Perché è sospesa la solidarietà? Perché si pensa al proprio vaccino e per ottenerlo si è pronti a tutto (con l'eccezione degli immancabili no-vax); si pensa al vaccino per stare bene noi e poter partire per le vacanza, non certo per evitare di contagiare gli altri. Usando il termine di Foucault in modo improprio (lo dichiaro subito) mi sembra di poter dire che le tecnologie funzionano qui come tecnologie del sé: strumenti di un nuovo ripiegamento sull'io, sulla dimensione individuale, sullo star bene noi. Speriamo non sia questo l'umanesimo rigenerato di cui si auspica la genesi...

Monday, June 8, 2020

Ciao vecchio clown

Candido Coppetelli (@candidorai) | Twitter 

Se ne è andato Candido Coppetelli. Un altro pezzo di una stagione felice della mia vita. Ci si era conosciuti a L'Aquila, nel 1985. Campo Nazionale di Formazione degli animatori CGS, i Cinecircoli Giovanili Socioculturali, l'associazione di cultura cinematografica di cui entrambi facevamo parte. Il mondo e lo spirito erano quelli di Don Bosco. Io al tempo ero un giovante studente di filosofia con la passione per il cinema, lui un giovane attore teatrale che poi sarebbe cresciuto, diventato regista, passato anche lui per il cinema.
Ci avvicendammo in periodi diversi alla presidenza dei CGS, sempre con la passione per i giovani che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e mille furono le occasioni di incontro e collaborazione. Ricordo le partecipazioni al festival del Cinema di Venezia, dove eravamo accreditati come Associazione, e soprattutto i corsi sul cinema e sul teatro di Cevo, in Val Saviore. In quegli anni ci erano compagni di strada Giacinto Ghioni, Vittorio Chiari, si lavorava insieme con Bano Ferrari, anche lui clown, anche lui votato al teatro ragazzi.
Candido era una persona garbata, gentile, attraversava la vita con un sorriso, il sorriso in parte ironico e in parte saggio di chi ha uno sguardo lungo e grazie a quello riesce a relativizzare i fatti.
Mi mancheranno i suoi auguri, puntuali tutti gli anni, mi mancherà il suo spirito, mi resteranno i ricordi di una persona buona, intelligente, colta, di carisma, un animatore e un educatore di razza, come piacevano a Don Bosco.
Il mio saluto lo lascio alle parole di Don Vittorio Chiari, che lo ha preceduto in paradiso...

"Vorrei tanto essere e morire da clown.
Non è una fuga dalla realtà
ma l'immersione
nel mondo dell'allegria,
della gioia, che nasce
quando uno vive
contento di sé.
degli altri,
della vita e della morte
che è ritorno a Dio,
il Padre che ci chiama
al momento giusto
quando avrà nostalgia
di ognuno di noi.
E creò Dio il cielo e la terra
E creò Dio l'uomo e la donna
ma al settimo giorno per riposarsi creò Dio il Clown!
Non poteva che essere andata così:
il Clown è un essere affascinante, venuto da lontano,
originale eppure comune.
Non è una leggenda metropolitana:
un pezzo di clown vive in ogni persona
che viene al mondo "con ali e cuore di bambino".
Ho sempre creduto che sia nato davvero il settimo giorno,
quando il Creatore decise di riposare.
Mi sono innamorato a prima vista: un colpo di fulmine
ma anche un amore fedele, dal sapore antico, nostrano.
È stata un'apparizione nella mia vita,
un qualcosa di magico e misterioso, di gioioso e triste
insieme,
a volte drammatico, tragico, come il clown
disegnato da Chaplin...
Al circo abbiamo sorriso del Clown,
forse senza renderci conto che dietro alla figura
del clown schiaffeggiato, amato dai bambini e schernito dai potenti, c'era quella del Christus patiens,
il povero Cristo della strada,
il don Chisciotte dai mille sogni spenti,
l'idiota di Dostojevskij, il Gimpel di Isaac Singer,
che credeva che la luna fosse caduta dal cielo
e che le mucche volassero sopra i tetti,
credeva che tutto fosse possibile, anche se non si capisce bene
come Gimpel credesse alle storie che gli raccontavano
per non dare del bugiardo a tutti: "Credere loro,
spero che abba fatto a loro bene!"
E il rabbino disse a Gimpel: "Meglio essere un idiota
tutti i giorni che essere malvagio per una sola ora".
[...] E in Paradiso vorrei arrivare cavalcando
un asinello da circo,
con il naso rosso del clown
e una lettera di raccomandazione
per gli amici, che verranno dopo di me,
ai quali mi sono impegnato
di preparare un bel posto in Cielo.
Mi fido di te, Signore!
Vieni a prendermi al momento giusto.
Quando la misura dell'amore è colma.
Grazie!"

Ciao, Candido...

Wednesday, February 19, 2020

Ripensare l'identità dei cattolici oggi

Si può essere credenti e nazionalisti? Il cattolicesimo sopporta atteggiamenti di chiusura, prevaricatori, se non di aperto razzismo? D'altro canto, l'essere cattolici è compatibile con l'accettazione di certe logiche della tarda modernità che indicano chiaramente nella direzione della secolarizzazione? E il mercato? È compatibile con l'identità del cattolico?
Sono alcune delle domande che la confusione di questi nostri tempi suggerisce e che un agile libro di Ilario Bertoletti aiuta a chiarire: Cattolicesimi italiani. Conservatore, liberale, democratico (Scholè, Brescia 2020).
L'analisi di Bertoletti, stringata ed efficacissima, si muove a tre livelli.
Il primo è quello che lo porta a distinguere su base storica tra modi di essere cattolici. C'è il cattolicesimo conservatore, fedele alla dottrina tradizionale, normativo e rigorista in ambito etico, identitario nella difesa della fede e proprio per questo poco disponibile verso i fenomeni migratori e poco indulgente verso l'Islam. C'è il cattolicesimo liberale, favorevole al mercato come spazio della valorizzazione dell'iniziativa individuale, disponibile nei confronti del pluralismo, orientato a sostituire la legge naturale con l'autonomia morale della coscienza. Infine, c'è il cattolicesimo democratico: laicità della politica, superamento di ogni atteggiamento confessionale, accettazione della secolarizzazione e delle sue sfide sono le sue caratteristiche distintive.
Il secondo livello dell'analisi porta Bertoletti a riflettere sugli ultimi papi, sempre in una prospettiva idealtipica per sua stessa ammissione suggerita dallo Schelling di Filosofia della rivelazione e dalla lettura del Concilio di Paolo Prodi. Così a un Giovanni XXIII, papa dell'autorità e dell'agape, succede un Paolo VI, papa della mediazione. A Giovanni Paolo II, papa della presenza, Benedetto XV, papa della fragilità. Per arrivare a Francesco, papa dell'ortoprassi, nel cui pontificato si verifica l'importanza di non lasciar cadere nessuno degli elementi che animano la dialettica tra momento petrino (l'autorità), paolino (la verità) e giovanneo (l'agape).
Il terzo livello è quello dell'oggi, segnato dalla "seconda secolarizzazione", un tempo in cui le domande da cui siamo partiti si presentano in tutta la loro forza di provocazione. Si tratta di un tempo in cui certi leader si presentano con i crismi dei salvatori: «Salvatori elettoralmente scalzabili proprio perché fondati sulla "coazione al superamento" propria del consenso post-mediale- ciò che viene dopo ha de jure maggior valore di ciò che viene prima - purché ad essi si contrappongano leadership dal fiato culturale lungo, in grado di dar voce e rappresentanza al dolore muto - e quindi potenzialmente coartabile in rancore sociale - delle diseguaglianze materiali e simboliche. Leadership attente al contenuto di verità delle forme della esperienza religiosa, non come serbatoi di immediate identità politiche ma quali memorie di quel dolore - memorie che relativizzano il politico che si erga ad assoluto» (pp.48-49).
Un invito a pensare, quello di Bertoletti, sul piano individuale ma anche su quello della progettazione politica che nel caso del credente è sempre anche un problema di testimonianza.

Thursday, January 30, 2020

La memoria e la gratitudine

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Siamo sull’ultimo vagoncino del trenino che ci deve portare nel cuore della montagna, dove inizia il percorso pedonale di visita delle grotte di Postumia. Il cunicolo scavato nella roccia è stretto e basso: ti viene da abbassare la testa. Partiamo e Ambrogina mi guarda e mi fa: “Speriamo che a qualcuno non venga in mente di alzarsi in piedi…”. Il “qualcuno” era uno a caso dei nostri studenti: un intero Biennio di Liceo e Geometri in viaggio di istruzione. Non riesce a finire la frase, Ambrogina, e “qualcuno” si alza: una stalattite gli scalfisce il cuoio capelluto. Sarebbe bastato che lui fosse più alto o la stalattite più lunga… Passò il resto del viaggio a farci compagnia.
È uno dei tanti ricordi di dodici anni passati insieme, come colleghi e collaboratori. Una delle tante “gite” cui eravamo abbonati, un po’ perché come si dice “avevamo polso”, un po’ perché gli altri insegnanti, per dir così, non facevano a gara per essere della partita.
Ambrogina Tandi era un’insegnante di matematica. Oltre a questo, come insegnante, era quel che si definisce un osso duro. Il consiglio che dava ai giovani colleghi agli inizi della carriera era: “Per i primi due mesi non far vedere i denti!”. Fuor di metafora: non ridere con i ragazzi, non fare il fratello o la sorella maggiore, evita di farti percepire come un amico. E lei in effetti rideva poco. Ma era un gioco, era un trucco per “impostare” la classe: poi, man mano che si conoscevano e gli anni passavano, lasciava spazio alle battute, al sorriso, e costruiva un rapporto più disteso.
La nettezza nella relazione educativa si accompagnava a rigore ed elevate richieste nella didattica. Il nostro era un Quinquennio Brocca, una di quelle sperimentazioni integrali che avevano ricevuto ispirazione dal lavoro dell’omonima Commissione, forse l’unico compiuto tentativo di riforma della scuola secondaria in questo Paese. Il Classico “Brocca” era un liceo classico tradizionale cui si aggiungeva un potenziamento della matematica e della lingua inglese. Quel potenziamento Ambrogina lo aveva preso sul serio, tanto sul serio che un giorno, al cambio d’ora (io entravo, lei usciva) Carlo, uno dei nostri studenti più simpatici e “anomali” (come ebbe modo di dirmi una volta sua mamma in un colloquio), esce dalla classe e indicando col dito la targhetta fuori del’aula le fa: “Vede cosa c’è scritto qui? Liceo classico! Non è uno scientifico!”.
Gli “anomali”. Le piacevano. Più volte mi aveva confessato che quelli bravi non la divertivano. Si divertiva con gli “anomali”, con quelli che facevano fatica ma che erano anche “frizzanti”. Spesso di fronte alla bravata, alla “bischerata”, le toccava di fare la parte con i ragazzi, ma poi, girato l’angolo o raggiunta la sala professori, rideva con me e mi faceva notare l’intelligenza della trovata. Sì, c’è un’intelligenza della trasgressione che io come lei apprezzavamo: perché la scuola non è un sopedale che serve a curare i sani.
Rigore e durezza nella didattica e nel rapporto con lo studente, dietro le quinte lasciavano spazio a umanità e capacità educativa. Ricordo molti consigli passati io e lei a difendere ragazzi che i più consideravano da respingere. Erano ragazzi che chi li voleva bocciare non aveva mai avuto la forza o la voglia di correggere, salvo poi rifarsi al momento dello scrutinio. Ambrogina usava la strategia contraria: non risparmiava loro nulla, li faceva sudare, ma poi sapeva leggere le situazioni con intelligenza pedagogica.
Adesso, a poche ore dal momento in cui le ho dato l’ultimo saluto, questi e tanti altri ricordi emergono alla memoria insieme a quelli di altri colleghi, “fratelli”, scomparsi: Mario Landri, Emilio Bruni - padre, maestro e amico. Sono i ricordi di un noviziato professionale e umano straordinario senza del quale non sarei quel che sono oggi. Sono i ricordi di insegnanti, uomini e donne, autentici e significativi, insegnanti che i loro allievi si ricorderanno per sempre perché li hanno realmente segnati dentro. Con loro si è definitivamente chiusa un’età felice, il tempo di una scuola fatta di relazioni profonde e di amore per i ragazzi, una parentesi irripetibile che ho la fortuna di avere vissuto.
Mi piace pensare che ora Emilio, Mario e Ambrogina tutte le mattine, dopo il “Buon giorno”, discendano la via principale del Paradiso per l’abituale caffè e veglino da lì dove sono sui loro ragazzi di ieri e sui ragazzi di oggi e di domani.

Friday, January 3, 2020

Una fine d'anno particolare

1. Jill Bolte Taylor è una neurologa americana. Nel 1996, mentre lavorava alla School of Medicine dell'Università di Harvard, viene colpita da un ictus che significa per le l'inizio di una nuova vita, in cui reimparare parole e gesti della vita di tutti i giorni ma anche tornare alle occupazioni di sempre con uno sguardo diverso. La storia di questa avventura, dieci anni dopo, viene consegnata a un libro - My stroke of insight. A brain scientist's personal journey (Plume Book, New York 2006) - in cui la Bolte Taylor ricostruisce tutta la vicenda, fin dal momento in cui inizia ad avvertire i sintomi dell'ictus che, da neurologa, riconosce subito e registra nella sua memoria con lucidità clinica. Il libro ha due obiettivi: celebrare la vita, la bellezza dell'essere qui, in questo preciso momento; fornire una sorta di piccolo vademecum preventivo e allo stesso tempo un diario di bordo con le cose importanti da sapere per chiunque si trovasse nelle stesse condizioni.

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2. Le settimane prima e dopo il Natale, diciamocelo, mettono a dura prova. Invece di rallentare, distillare il tempo, trovare spazi più rarefatti nella propria vita per respirare il Mistero di un Dio che si fa uomo, noi si corre di più. C'è la pianificazione di cene e pranzi: vigilia "di magro", a base di pesce (secondo la tradizione napoletana); pranzo di Natale a base di carne; la ripresa di S. Stefano; e poi cenone dell'Ultimo, pranzo di Capodanno. C'è lo studio sistematico di cosa regalare e a chi. Servono competenze di ricerca: si consultano i fogli Excel che registrano i regali degli ultimi anni, per capire cosa non regalare e cosa poter riciclare. Il salotto di casa si trasforma nel laboratorio di Babbo Natale: carte regalo, forbici, nastri, scatole, cesti. Panettoni, pandolci, gubane, bisciole, pandori si impilano sul limite degli armadi come delle improbabili architetture. E poi si spostano i mobili, si piazzano i tavoli, si chiedono a prestito le sedie ai vicini. Quindi lo stress dei preparativi lascia spazio a un altro stress, quello che a colpi di trigliceridi e colesterolo attenta al nostro fisico. Si boccheggia, si dormicchia sul divano tra un pasto e l'altro. Sullo sfondo le chiamate della tombola, i giri del sette e mezzo.

3. Come tutti gli anni non mi sono sottratto al rituale. E non mi sono sottratto alla tavola. E proprio per questo - almeno così credevo - subito passato il Natale ho iniziato ad avvertire fastidi alla bocca dello stomaco. Dolori brevi, che passavano con un respiro un po' più lungo, o se mi sedevo per un istante. E come tutti gli anni la convinzione era che fosse tempo di iniziare la fase detox: pranzi leggeri, minestre di sera. Era sicuro che fossero gli stravizi: lo stomaco si lamenta, si sa. Ma i dolori non passavano, anzi si facevano più ravvicinati e più intensi. Ho iniziato a scorrere internet. I siti che descrivono i sintomi dell'angina pectoris sono migliaia. Vi cercavo quello che mi potesse tranquillizzare. E lo trovavo nel fatto che il dolore al centro del petto è solo uno dei segnali di una sofferenza cardiaca e così mi sono convinto del fatto che, in mancanza degli altri, il mio fosse proprio un problema di stomaco. Maledetto consumismo!

4. Il 30, vigilia dell'ultimo giorno dell'anno, nel pomeriggio, avverto un dolore di forza e durata mai provate prima. Si decide che quella sera sarebbe stata solo minestra di finocchi: nient'altro! E così è stato. Poi: divano, piedi sul puff, plaid addosso. Canale 167, quello dei Gialli, una puntata di Tatort. Come sempre ne vedo i primi dieci minuti e come sempre mi addormento. Alle 23.00 non mi sveglio come al solito perché il telefilm è finito, ma perché quel dolore al petto è tornato, questa volta fortissimo. Mi manca il fiato, mi piego in due, intanto sono diventato pallidissimo, freddo e sudato. Le mie ultime resistenze sono spazzate via: non è mal di stomaco.

5. Sono le 23.30. Sono sdraiato su uno dei lettini della shock room del Pronto Soccorso. Elettrodi dell'ECG dappertutto, flebo nel braccio destro, fascia del misuratore di pressione nel braccio sinistro. Il dolore mi ha abbandonato. Guardo il soffitto della sala e ripenso al libro della Bolte Taylor: no, questo non è un ictus, ma l'esperienza di vivere il tutto "dall'interno" è la stessa. Di solito certe cose le vedi in televisione, o ne fai esperienza diretta perché qualche amico o parente le ha vissute: trovarsi lì, vigile, e capire cosa ti sta succedendo, è un'altra cosa. Penso alla mia vita, penso al significato del fare, del correre, dei tanti troppi sforzi: perché? Penso che potrei essere al capolinea, che non ci potrebbe essere domani. Ma sono insospettabilmente tranquillo: fiat voluntas Dei. Un nuovo forte dolore mi strappa ai miei pensieri: un nuovo ECG, fatto proprio durante la crisi, certifica che le coronarie non funzionano a dovere. Il medico, prima di farmi trasferire in Unità Coronarica, mi informa che l'indomani mattina sarei stato sottoposto a una coronarografia urgente per fugare i dubbi.

6. La notte passa tra i lamenti dei miei compagni, che indubbiamente stanno peggio di me. Ci sono sei letti, il mio è il penultimo a destra. Davanti abbiamo la vetrata di quella che sembra una cabina di regia: al di là del vetro, dietro a monitor e altri macchinari, un medico e due infermiere. Siamo monitorati in tempo reale. Provo a dormire ma è impossibile: ogni quarto d'ora il misuratore di pressione mi stringe il braccio e le infermiere entrano ed escono continuamente. So di essere in terapia intensiva, ma stranamente ancora una volta avverto una tranquillità surreale: mi sono convinto che sia stato un dono e non merito mio. Credo poco al saggio stoico, o spinoziano. Dopo le 4 mi preparano per l'intervento: mi radono braccia e inguine. La "coro" (la chiamano così i cardiologi, abbreviando, quasi in uno slang giovanile, che le dà quasi un tono familiare) si esegue entrando con un catetere dall'arteria radiale del braccio o dalla femorale all'inguine. Se da una parte ci fossero impedimenti occorre essere pronti a entrare dall'altra. Prima di portarmi in sala il medico che eseguirà l'esame mi spiega i possibili rischi. Rimango comunque tranquillo.

7. 31 mattina. Festeggio l'ultimo dell'anno sul lettino del reparto di emodinamica. Il braccio destro è immobilizzato. Sopra di me i bracci mobili che devono rilevare le immagini radiografiche del mio cuore, alla mia sinistra gli schermi su cui chi interviene vede il campo operatorio. L'équipe è impegnata in una discussione sulle lenticchie: quante ore nell'acqua? Vengo coinvolto nella discussione. Poi silenzio. Sento l'ago dell'anestesia locale che mi infastidisce il polso. Pochi minuti e mi viene inserito nell'arteria il catetere. Lo sento salire ma senza avvertire dolore. Un calore diffuso in tutto il corpo mi avverte che è stato irrorato il mezzo di contrasto. La discendente anteriore è parzialmente occlusa. Ci infilano dentro un palloncino: sento gonfiarsi l'arteria nel petto. Lo fissano con uno stent. Ma allora, le lenticchie?

8. Botti e fuochi artificiali: il nono piano dell'ospedale è uno splendido punto di osservazione. Noi abbiamo già festeggiato, alle 19.00: pastina in brodo e una mela cotta. Ricorderò questo "cenone". Ha segnato il mio ingresso ufficiale nella categoria dei cardiopatici e nel programma post-angioplastica della mia ASST. Come nel caso della Bolte Taylor il mio sguardo sulle cose non sarà più lo stesso. La vita è un dono prezioso, troppo prezioso per non essere vissuta istante per istante o per essere sprecata in cose di poco conto, o ancora per essere bruciata dalla rincorsa del denaro o della carriera. E a tutti quelli che sentendo un dolore al petto fossero tentati di dare la colpa alla digestione, raccomando un giro al pronto soccorso, senza pensarci su troppo: se poi vi rispediscono a casa per falso allarme, tanto meglio...

Friday, May 31, 2019

Viaggio a Kobe

1. L'aeroporto di Osaka è sul mare. Costruito su un'isola artificiale su progetto di Renzo Piano: sulla terra ferma non ci sarebbe stato un metro di spazio. La sala arrivi è piena di personale con la mascherina calata sulla bocca e sul naso. Il controllo passaporti prevede la lettura dell'iride e dell'impronta digitale: ma ad assisterti c'è una giovanissima donna che ti sorride di continuo; se è una guardia di frontiera non te ne accorgi proprio. Ossessione per il contagio e gentilezza sconfinata: la prima immagine del Giappone.
Il bus che ti porta a Kobe non esce mai dall'abitato: per un'ora e mezza i docks del porto sulla sinistra e case e grattacieli sulla destra. Keihanshin, l'agglomerato urbano di Osaka (che comprende Kobe e Kyoto) è un continuum urbano di 17 milioni di abitanti, il secondo del Giappone dopo Tokio.
Trovata sistemazione in albergo (una stanza piccolissima dove è difficile, quasi, girarsi) si esce. Il contrasto (e l'incontro) tra Occidente e Oriente, tradizione e futuro, è dappertutto: piccoli templi buddhisti e shintoisti si aprono all'improvviso tra i grattacieli. Sopraelevate a tre, quattro livelli, sottopassi e sovrappassi pedonali: Blade runner è il presente, ma senza angoscia, solo dinamismo, velocità, vita che pulsa dappertutto. Sul muro di una casa un murale condensa un intero manuale di psicologia dell'interazione in rete o di sociologia delle relazioni al tempo di internet.



All'imbrunire le insegne luminose ridisegnano il profilo dei palazzi e compare un'altra città. C'è tempo per il sushi. Sapori e varietà sconosciute: quello che si mangia da noi è un surrogato, anzi,
forse proprio un altro cibo. Ancora sorrisi. Notte.



2. La Shinwa University si trova in un sobborgo di Kobe. Case basse, senza imposte, senza cancellate. La si raggiunge in bus, attraverso una lunga galleria che ti fa entrare nel cuore della città e uscire nel verde lussureggiante di una foresta urbana; poi ancora case, finalmente l'entrata del campus.
Saluti accademici, e ancora sorrisi. Chiunque nel campus sorride e saluta: "Buongionno!". Erano stati avvisati del nostro arrivo e istruiti. Come in una recita ben preparata sorrisi e saluti: "Buongionno!".
Visitiamo la biblioteca, che conserva incunaboli e libri antichi di straordinario valore, come una copia a mano illustrata della fiaba tradizionale giapponese della Principessa della luna. Le mie studentesse la riconoscono: è uno dei loro cartoni animati d'infanzia. I miei erano Atlas UFO Robot e Mazinga: scarti generazionali. Accanto ad essa la prima edizione di Rashomon, il romanzo di Ryosuke Akutagawa che suggerì al maestro Akira Kurosawa lo spunto per il suo omonimo capolavoro: un apologo sulla verità che non si possiede mai fino in fondo ma costringe a un lungo lavoro di analisi e di confronto. E poi una splendida copia illustrata di Lost Paradise di Milton. Ancora una volta Oriente e Occidente.



3. Troviamo il tempo per sbirciare dentro la sala da tè didattica dell'Università: qui si insegna alle studentesse l'antica arte, con i ritmi e le forme della cerimonia. Un mondo senza differenze sociali quello della sala da tè: senza rumori, isolato, una sorta di limen in cui tutto è sospeso, il tempo come il ritmo della vita ordinaria. Insegnarne il senso oggi, nella società dell'accelerazione, è di fondamentale importanza. Anche se poi quella giapponese è una società che fila velocissima, un intricato e ordinatissimo incrocio di vite che rimbalzano da una parte all'altra dello spazio urbano, orme che disegnano l'orientamento delle file nelle stazioni della metropolitana, gente che corre in silenzio (perché negli spazi pubblici regna un silenzio surreale) e alla sera con la cravatta allentata si infila in un locale a prendere un ramen, spesso con la faccia rivolta alla parete.



4. Di pomeriggio il primo incontro delle studentesse giapponesi con i nostri studenti. Hanno preparato un piccolo spettacolo. Prima suonano per noi con il loro ensemble. Poi ci dedicano quattro canzoni in giapponese. La grazia, le voci struggenti, e ancora i sorrisi emozionano tutti: non trattengo le lacrime all'accenno di Tomorrow. L'applauso è scrosciante e ripetuto. Poi studenti italiani e giapponesi si mischiano, fanno dei giochi insieme. Ancora il tempo che alcuni dei miei allievi presentino la nostra Università e il nostro corso di laurea. Adesso la commozione mi prende perché vedo quanto sono cresciuti negli anni dei loro studi: provo orgoglio mentre li osservo parlare, rispondere alle domande. Ancora una volta mi dico che sono loro ciò che mi fa amare questo mestiere: senza non potrei stare, anzi, probabilmente avrei già fatto altro.


5. La sera è tempo di manzo, manzo di Kobe. Uno spettacolo, non solo per la qualità di questa celeberrima carne, ma per il vero e proprio rito cui ci è dato di assistere davanti a noi. Il giovane chef taglia il manzo e le verdure con una precisione chirurgica, poi le dispone sulla piastra di cottura come un pittore con i colori sulla tavolozza, infine consiglia come mangiare: carne da sola, con il wasabe, con l'aglio fritto e tagliato a fettine sottilissime. La cucina in Giappone è un'arte, mangiare un'esperienza estetica. Ne ho avuto conferma anche al Sushi Restaurant del Plaza e al diciottesimo piano della Harbour Tower durante una cena a base di shabo shabo: brodo che bolle al centro della tavola, i commensali che vi scottano la carne e le verdure. Intorno donne vestite in kimono tradizionali si muovono veloci, precise e silenziose, portando via i piatti e curando che tutto proceda per il meglio. Usciamo accompagnati da un cameriere che in un inglese improbabile ci invita a tornare. Inchini. Sorrisi. Notte.



6. Due giorni passati tra una scuola dell'infanzia e le aule dell'Università Shinwa ci restituiscono un'immagine dell'educazione giapponese fortemente basata sul gioco e sulla musica come occasioni per fissare le routines e formare le pratiche. Tutti apprendono vedendo fare. L'insegnante (anche all'Università) è poco protagonista: non fa lezione, ma supporta e commenta il lavoro fatto. In aula le studentesse sono spesso chiamate a simulare, con le compagne a fare la parte dei bambini.
I quadri teorici non si vedono o non vengono esplicitati: tutto è molto laboratoriale, dalla musica alle scienze, dalla lingua giapponese alle didattiche agite.
La didattica è ripartita in 5 grandi aree, che sono poi le stesse delle Indicazioni Nazionali:
1) Arte ed espressione
2) Relazioni sociali
3) Salute
4) Sostenibilità e ambiente
5) Linguaggi (cultura e tradizione).


7. I bambini... sono bambini. Socializzano subito. Dopo pochi minuti giocano con gli amici italiani parlandoti in giapponese, come se li capissi. Li guardiamo svolgere una lezione di salto ritmico: musica, ritmo scandito dalla maestra con le mani e loro che saltano dentro e fuori delle aste di legno appoggiate sul pavimento. Stupiscono la coordinazione, la concentrazione, la capacità di stare in fila ad aspettare il proprio turno: tutto in bambini di 5 anni.


L'applicazione, la tenacia, l'ordine, sono il contenuto dell'imprinting che questi bambini ricevono fin da piccolissimi. Come suggerisce l'haiku del poeta giapponese Matsuo Basho (1644 – 1694):

Prendiamo
il sentiero paludoso
per arrivare alle nuvole.


Di quest'etica insegnata fin da piccolissimi ci siamo accorti visitando il Centro Educativo della Shinwa: uno spazio in cui educatrici di prima infanzia e tirocinanti dell'Università offrono gratuitamente alle mamme del quartiere e ai loro bambini un'occasione per crescere e confrontarsi.

8. L'isola di Awaji è collegata alla più grande isola di Honshu (su cui sorge Kobe) dal ponte sospeso più lungo del mondo. Raggiungiamo uno dei più famosi teatri di Joruri del Giappone. Il Joruri (o Bunraku) è un teatro di marionette: grandi, articolate, con la testa e il volto che si aprono in mille espressioni. Le animano tre artisti per ciascuna, vestiti di nero nel tradizionale shinobi shozoku: il primo, l'omozukai, muove la testa e la mano destra; il secondo, l'hidaruzukai, muove il braccio destro; l'ultimo, l'ashizukai, si occupa della parte bassa del corpo. Fuori scena un suonatore di shamisen (la tradizionale chitarra verticale giapponese) accompagna la voce di un cantastorie.
Nel teatro di marionette, come nel kabuki, l'azione è rarefatta e il dramma dei personaggi è tutto interiore: di qui l'importanza di conoscere la notazione simbolica di cui i burattinai si servono per far piangere o ridere il loro doppio.


9. Kyoto è stata una delle capitali del Giappone. Ne testimoniamo l'antico splendore i molti templi e il palazzo dello shogunato. Si entra scalzi e si segue la successione delle stanze: anticamera, sala di attesa, sala delle udienze, sale private. Sulle pareti, interamente coperte di foglie d'oro, colpiscono le tigri, i pini d'inverno, i sakura (i ciliegi): la grafica è modernissima, rende chiare le riprese che ne farà l'art nouveau, a tratti anticipa le geometrie astratte di un Mondrian o di un Klee. Prima di rientrare ci dirigiamo al grande tempio dei 1001 Buddha. L'effetto è di vero e proprio choc estetico: 1001 Buddha di cipresso dorato allineati popolano la stanze lunga e stretta del tempio. Solo un'altra volta ero rimasto preda di questo vero e proprio stato di stordimento: a Xian, davanti all'esercito di terracotta dell'imperatore Qin.

Risultati immagini per 1001 buddha

10. I miei studenti e le mie studentesse hanno dato vita a una discussione serrata. Da una parte chi sostiene che il sistema giapponese è skinneriano: attraverso la ripetizione, trasforma l'intera impresa educativa e didattica in una serie di routines il cui obiettivo è di generare ordine, rispetto delle regole, interiorizzazione delle pratiche in forma di habitus. Dall'altra parte chi invece coglie gli aspetti positivi: sviluppo di autonomia e responsabilità del bambino, correzione del nostro eccesso di teoria con la pratica.
Probabilmente occorre guadagnare distanza dagli estremi. Nelle scuole primarie visitate abbiamo imparato che in Giappone i bambini vanno e tornano da scuola non accompagnati, abbiamo visitato aule di tecnologia dotate di seghe circolari e di cucine per le attività domestiche, abbiamo visto forbici in mano a bambini di 4 e 5 anni, tinozze con dentro gamberi di acqua dolce alla scuola dell'infanzia e bimbi che li prendono in mano e li accarezzano sul ventre.



Alla nostra domanda su come si garantiscano dai rischi, la risposta è disarmante: "Li informiamo sempre prima, spiegando loro cosa non debbano fare". Il controllo sociale, la ripetizione e le regole servono a questo. Ma finiscono anche per condannarti a reprimere i sentimenti, a vivere con l'angoscia di non essere all'altezza delle aspettative o della considerazione sociale.
Le emozioni compresse da tutto il dispositivo sociale devono in qualche modo liberarsi.
Così dopo cena i marciapiedi delle vie del divertimento si popolano di ragazze "buttadentro" - vestite da Kung-fu Panda, da poliziotte, da infermiere - che invitano i passanti in locali in cui si paga perché una ragazza ti appoggi la testa sulla spalla, sulle gambe, per mettere una mano...  Ma ne vediamo anche l'esito bello e più commovente la sera del nostro addio: le ragazze della Shinwa che cantano per noi con le lacrime che rigano loro il volto. Finiscono. L'applauso è lungo. Tutti si abbracciano. Adesso le convenzioni sociali sono lontane: ci sono loro con le loro amiche italiane, e basta.

11. Anche Nara è stata una delle capitali dell'Impero, tra il sec. VII e il sec. IX. Oggi è un parco archeologico, botanico, faunistico unico al mondo. Templi buddhisti e santuari shintoisti sorgono nel verde di una foresta urbana mentre centinaia di cervi si muovono liberi tra i turisti, si lasciano accarezzare, prendono il cibo dalle tue mani. Il cervo a Nara è sacro fin dalla fondazione della città tanto che fino al 1637 ucciderne uno comportava la condanna a morte. La leggenda narra che uno dei quattro dei del santuario Kasuga, Takenomikazuchi-no-mikoto,fosse stato invitato a Nara dalla città di Kashima e che esso sia apparso sul Monte Mikasa-yama a cavallo di un cervo bianco. Secoli di tranquillità producono oggi un fenomeno che non si può ammirare in nessun altro posto al mondo.



12. Sera prima della partenza. Wakako, la nostra interprete, ha scelto un locale caratteristico. Siamo in una saletta riservata, circondati da separé e seduti su piccole panche sotto le quali il pavimento si apre per alloggiare i piedi, rigorosamente senza scarpe. Si mangia sukyiaky. Mi chiedono un brindisi. Poche parole per dire quanto tutto il viaggio sia stato straordinario. Poi mi ritrovo davanti alla pentola del brodo: scotto e smisto fettine di carne, funghi, tofu, verdure. L'atmosfera è conviviale. Si ride, si scherza. Adesso è la mia volta di chiedere a tutti una parola, alzandosi in piedi sulla panca. Vedo sfilare davanti a me i miei tutor e i miei ricercatori, i miei studenti: li ascolto, li osservo orgoglioso e commosso come in una riedizione dell'ultima scena dell'Attimo fuggente. Come in quel caso, a nostro modo, siamo anche noi una piccola Dead Poets Society. Abbiamo deciso di giocare senza maschera, di essere veri. Commento che questo, in fondo, dovrebbe essere l'universitas: non un'istituzione che eroga corsi, ma studenti che scelgono i loro docenti; una comunità, una compagnia. Cum pane, appunto: mangiando insieme, condividendo.
Adesso siamo tutti in piedi sulle panche. Braccia in alto. Si canta a squarciagola e si accompagna con i gesti "Gamberi e granchi": l'abbiamo imparata con i bambini di cinque anni e ce la riportiamo a casa come una sorta di inno del viaggio. Il ristoratore ci ha rinunciato: la caciara italica si impadronisce di tutto e di tutti, anche di Wakako, che ormai balla, grida e piange senza più traccia di alcuna composta giapponesità.
Si chiude al karaoke: tutti insieme, cantando e ridendo. Ragazzi puliti, anche nel divertimento. Poi siamo fuori nella notte di Kobe. Poca voglia di rientrare. Forse sarà after, come dicono i giovani. Il tempo ora è disteso, quasi fermo. Tempo di formulare auguri per chi torna e per il futuro di questi ragazzi e ragazze.

Domani maestri:
siate come ciliegi
sempre fioriti