Martedì 9 marzo ho aperto un ciclo di tre serate sul Male di vivere, organizzate da Don Enrico Radaelli, presso la parrocchia di San Zeno, a Treviglio. Don Enrico "mi ha avuto" tra i suoi ragazzi prima come direttore dell'oratorio di S. Agostino, dai sette agli undici anni, poi come parroco di San Zeno, durante la mia adolescenza. L'affetto e la stima che ho per lui e i ricordi che il tornare tra gli amici in "cascina" (il nostro oratorio era una vecchia cascina) fa tornare alla memoria mi fanno sempre accettare con piacere il suo invito.
Il tema, questa volta, è il male di vivere, quel groviglio di sensazioni e di fenomeni che a volte paiono consegnarci l'immagine di una società - e soprattutto di giovani - in crisi, una crisi irrimediabile, di senso. Il problema è capire cosa i ragazzi oggi chiedano alle agenzie formative, alla famiglia, alla scuola, all'oratorio. Ho deciso di affrontare la questione attraverso una premessa, tre sintetici quadri, e una conclusione.
1. Una premessa: non ce li meritiamo!
Il pieghevole illustrativo del ciclo di incontri riporta il punto di vista di scrittori e filosofi sulla congiuntura attuale. Salvatore Natoli parla di Internet come di "un modo per chattare a vuoto". La Mastrocola dipinge ragazzi "perennemente collegati con il vuoto e lontani da ogni relazione vera".
Rifletto su queste affermazioni e mi nascono spontanee alcune considerazioni.
Prima considerazione. Quante volte parliamo senza conoscere, costruiamo teorie senza la serietà di confrontarle con i dati, le esperienze, la vita... Ecco, l'idea che i giovani di oggi siano solipsisti, incapaci di relazioni, abbrutiti nel mondo delle chat, la può partorire solo qualcuno che non conosce nulla, né dei giovani né del mondo della Rete. Anche se scrive romanzi di successo...
Seconda considerazione. Si tratta di un gioco vecchio. Si chiama "il gioco del noi e loro". "Loro sono iperattivi, inconcludenti, superficiali, senza relazioni vere... Noi eravamo riflessivi, profondi, centrati sul nostro compito, capaci di relazioni..."
In margine a questo gioco si possono fare alcune osservazioni:
- le generazioni adulte lo hanno sempre giocato con le più giovani. Quante volte lo abbiamo sentito fare e fatto noi stessi. I nostri genitori lo giocavano con noi. E i loro genitori (i nostri nonni) con loro: "I giùen d'una olta i era 'n oter laùr...";
- questo gioco rivela la paura: la paura del nuovo (ciò che non si conosce fa sempre paura), la paura della propria responsabilità, la paura di non essere all'altezza;
- infine, addebita la propria incapacità e il proprio disagio alla "differenza" dei ragazzi. Così: "Io non sono capace" diventa: "Loro sono diversi".
Terza considerazione. Non ce li meritiamo! "Loro", i giovani, i ragazzi, sono incommensurabilmente meglio di noi e di come ce li rappresentiamo.
Ha ragione il Cardinale Martini (quanto ci manca nella fase attuale la sua voce!): "Non c'è spettacolo più deprimente che incontrare genitori ed educatori che si dolgono in continuazione dei loro ragazzi e non riescono a convincersi di possedere strumenti educativi formidabili".
2. Primo quadro: le richieste dei ragazzi alla famiglia
Le richieste dei ragazzi alla famiglia mi paiono due. Le chiedono di essere presente e di incarnare il "principio di origine" (Meirieu).
Rispondere richiede competenze genitoriali che i genitori, spesso, non hanno più.
Per i genitori essere presenti vuol dire (e qui mi faccio aiutare da Anna Mariani, che su questi temi ha scritto cose molto belle):
1) non essere "troppo-genitori". Cioè evitare sia la presenza invadente (la supergenitorialità di chi ha già fatto tutto e benissimo, frustrando l'iniziativa dei figli) che la prescrittività che impone norme rigide ed esige il riconoscimento attraverso questa imposizione;
2) non essere "non-genitori". Cioè evitare: la mancanza, il non esserci (sono non genitore se sono sempre fuori e quando ci sono mi assento); il silenzio, che passa per la delega al coniuge o la dedizione al lavoro ("Chiedi alla mamma...", "No, adesso no, devo lavorare..."); l'astensione, per non "ledere la sua libertà..." (discorso assurdo di chi scambia la par condicio per l'educazione e confonde il rispetto dell'altro con il laissez-faire);
3) non essere "iper-genitori". Cioè evitare: di proteggerli a prescindere (quando il pupo ha sempre ragione ed è l'insegnante che non lo capisce, l'allenatore che non comprende il suo talento o lo fa giocare in un ruolo non suo...); di dare loro amore (?) senza norme (quando ci si sente in colpa, perché si è spesso assenti o perché si pensa di averli danneggiati con la propria separazione, si tende a "compensare" con un ipernutrimento affettivo che, in mancanza di norme, è però assolutamente diseducativo).
E veniamo al principio d'origine. Vuol dire almeno tre cose:
1) sceglierli per la seconda volta (la prima li scegliamo quando li concepiamo, come dice Angelini, ma poi vanno scelti di nuovo, vanno creati una seconda volta);
2) essere loro di riferimento per la costruzione della loro personalità;
3) generarli non solo alla vita, ma ai valori.
3. Secondo quadro: le richieste dei ragazzi alla scuola
Sono tre: essere attuale, incarnare il "principio di verità" (Meirieu) e in-segnare. E anche in questo caso si pone il problema delle competenze, questa volta dell'insegnante...
Attualità della scuola vuol dire non dover sempre rincorrere la società. Un tempo era la scuola "avanti": oggi il rapporto si è rovesciato e la scuola sembra sempre in ritardo, continuamente superata dall'innovazione, perennemente a disagio, apparentemente impegnata in una lotta di retroguardia che non riesce a incidere sull'oggi.
Attualità della scuola vuol dire anche saper leggere le culture giovanili offrendo ad esse ospitalità nella didattica. Infine, significa adottare i linguaggi dell'oggi per costruirvi attorno un nuovo alfabetismo fatto di senso critico e responsabilità espressiva.
Incarnare il principio di verità, invece, significa anzitutto essere maestri, nel senso della relazione magistrale, cioè della capacità di mettere in forma la conoscenza del mondo in modo modellizzante. Significa anche essere testimoni, cioè incarnare uno stile di pensiero e di vita emblematico che possa servire al giovane per essere cittadino. Infine, far comprendere che la cultura consente di interpretare le cose e che questo consente di leggere in esse le tracce dell'Oltre.
Quanto all'in-segnare, occorre tornare a Platone per capire cosa comporti, a Platone che definiva l'insegnamento uno "strofinarsi di anima contro anima". Niente di più intimo e di più tremendamente importante: insieme privilegio ed enorme responsabilità. Un significato che forse si è perso con il tempo, fino a ridurre l'insegnamento a qualcosa di tecnico, a un mestiere. Se invece il senso profondo dell'in-segnare viene custodito, allora si capisce che esso ha a che fare con il formare (nel senso della Bildung, del dare-forma) e con l'esperienza della ricerca della verità fatta in comune con l'alunno. Un compito alto, un compito rilevante, un compito da non svilire e da non addormentare nella routine.
4. Terzo quadro: le richieste dei ragazzi all'oratorio.
Siamo all'oratorio. Anche in questo caso isolo due importantissime richieste che i ragazzi gli fanno oggi: la richiesta di essere accogliente e di incarnare il "principio di carità". Le competenze fanno problema anche qui, perché servono catechisti ed educatori di nuovo modello. La disponibilità e la buona volontà non bastano più...
Cosa comporta l'accoglienza?
Comporta, in primo luogo, di saper essere una casa per tutti, nella consapevolezza che la mancanza di luoghi di aggregazione per i giovani porta all'oratorio anche solo come a uno spazio di ritrovo.
Comporta di accettare l'altro senza restrizioni, senza vincoli, senza garanzie di reciprocità. Se ti amo, non ti amo a condizione di..., lo faccio senza riserve e senza aspettarmi nulla in cambio.
Ma comporta anche di essere esigenti, cioè di coniugare l'accoglienza con le regole, il rispetto, nella consapevolezza che in molti casi questo è l'unico spazio in cui viverle e praticarle per molti ragazzi. L'amore incondizionato è anche un amore esigente. Il messaggio i giovani lo capiscono e lo apprezzano.
E il principio di carità? Anche qui per punti indico tre linee di lavoro per farlo proprio:
- costruire l'oratorio come uno spazio per intercettare i bisogni e, dialogando con le istituzioni, allestire i dispositivi per soddisfarli (si pensi ai tanti esempi di "patto di comunità" che anche in Diocesi si stanno moltiplicando);
- costruire l'oratorio come uno spazio di gratuità, dove si vale per quello che si è e si impara la capacità del dono senza tornaconto;
- costruire l'oratorio come uno spazio della Grazia, cioè un luogo in cui mettersi alla ricerca della propria vocazione, del proprio posto nel mondo. Se penso al mio oratorio, posso dire che l'essere insegnanti, politici, religiosi, di molti di noi sia maturato proprio tra le sale e il cortile dell'oratorio...
5. Una conclusione
Se ripercorriamo i tre quadri che abbiamo rapidamente disegnato, riconosciamo quelle che la tradizione francescana, rifacendosi a S. Agostino, chiamava le tre primalità (esse, nosse, velle) ritenendole il riflesso di Dio nell'anima dell'uomo.
A ben vedere, famiglia, scuola e oratorio rispondo alla stessa logica:
- la famiglia, la sua generatività, è il luogo dell'essere;
- la scuola, la sua magistralità, è il luogo del conoscere;
- l'oratorio, la sua missionarietà, è il luogo della volontà e dell'amore, e cioè della scelta.
Il problema è che oggi, a volte, una delle tre (anche tutte e tre, capita) manca e questo comporta un sovraccarico nel mandato di qualcuna di esse (si chiede tutto alla scuola, si pretende che l'oratorio sopperisca).
Altro problema: a volte famiglia, scuola e oratorio lavorano disgiunti, al limite in contraddizione. Serve un coordinamento: ecco lo spazio del patto di comunità.
Infine, la deriva verso l'informale, verso l'educazione senza mediazioni, pone a rischio l'educazione vera: dipende da noi adulti fare in modo che non sia così. Educare è cosa del cuore, come diceva Don Bosco. E l'augurio, per tutti noi, genitori, insegnanti ed animatori è di poter rivolgere un giorno ai nostri ragazzi le stesse parole di Don Lorenzo Milani nel suo testamento: "Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto".
Riferimenti bibliografici
Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 2006 (quarta edizione)
Mariani, A., La scuola può fare molto ma non può fare tutto, SEI, Torino 2006
Meirieu, P., I compiti a casa, Feltrinelli, Milano 2000