Su richiesta degli amici delle ASL liguri torno sui contenuti del dibattito che fece seguito al mio intervento “genovese” di cui ho già riferito in un recente post di questo blog. Si discuteva di “nativi” e “migranti” e di come colmare il gap esistente tra loro per facilitarne la comunicazione. Avevo organizzato le risposte alle domande – tante e tutte interessanti – attorno a tre grandi item:
- i concetti;
- gli attori;
- le pratiche.
Restituisco in sintesi in questo post l’intelaiatura del mio discorso a tutti e tre questi livelli.
1. I concetti
Un primo focus riguarda categorie come quelle di “virtualità” e di “informazione” che continuano a fare problema. Ci si chiede, infatti, se “essere sociali” nel Web sia la stessa cosa che esserlo “nel sociale”: la preoccupazione è, insomma, che alla lunga la socialità mediata sottragga tempo e spessore alla socialità “in carne ed ossa”. Sul versante dell’informazione, invece, soprattutto da parte di chi opera nella prevenzione, è sempre più chiaro che la conoscenza del rischio non è sufficiente a garantire che il ragazzo lo eviti.
La prima questione mi consente di dire che la categoria del virtuale, in quanto contrapposta a quella del reale, va definitivamente dichiarata superata. Ci aveva già pensato diversi anni orsono Pierre Levy a far osservare che l’opposto del virtuale non è il reale, ma l'attuale. Aristotelicamente, la virtus (ovvero la potenza, la entelechia) non è nulla, ma una forma d’essere assolutamente "reale": nel seme il frutto è in potenza, nel frutto la potenzialità del seme è portata all’atto. Vale lo stesso per la tecnologia. Una relazione mediata da computer non è priva di realtà, al contrario: soprattutto non è alternativa rispetto ad altre forme della relazione insieme alle quali determina l’insieme delle possibilità attraverso cui il soggetto costruisce il proprio mondo sociale. Non ha più senso parlare di reale e virtuale in un contesto come quello attuale in cui quel che sperimentiamo è piuttosto uno spazio-tempo assemblato: le categorie importanti oggi sono quelle di intimo/privato, o di isolamento/partecipazione.
Quanto all’informazione è chiaro che essa non esaurisce il compito della formazione. L’informazione di per sé può non essere sufficiente a prevenire il rischio: essa perde di efficacia man mano che passa il tempo dal momento in cui la si è reperita; può alimentare la curiosità invece di sollecitare l’attenzione; se è troppo tecnica rischia di essere molto lontana dalle pratiche dei soggetti, che fanno fatica a ricondurla ai contesti di vita dei quali fanno esperienza. Tutto questo spinge a sperimentare altre forme di intervento.
2. Gli attori
I protagonisti della “partita” sono i ragazzi e gli adulti. Si tratta di due categorie di soggetti che più che divise da differenze generazionali (o, peggio, evolutive) mi sembrano incapaci di ascolto e relazione, soprattutto per colpa degli adulti.
La ricerca recente sui consumi degli adolescenti indica che i ragazzi distribuiscono bene le loro attività: le loro “diete” sono equilibrate. Rari sono i casi di ragazzi riconducibili al profilo degli “hikikomori”. La casa sta sostituendo la piazza come luogo di ritrovo, o meglio, dalla casa è possibile raggiungere quei luoghi sociali perfettamente integrati nelle nostre vite che sono i social network: gli adolescenti sono sempre in contatto, sia off che on line. Usano i loro media non per isolarsi ma per fare comunità. Certo Internet rappresenta per loro anche un rischio (se si pensa al pericolo del grooming, soprattutto per i più piccoli), ma occorre non dimenticare che sono numerosi i casi in cui sono proprio gli adolescenti ad “adescare” gli adulti.
Gli adulti sono normalmente molto lontani dalle forme di consumo dei ragazzi. Le culture partecipative di cui loro sono protagonisti sono distanti. L’adulto ha spesso voglia di ritirarsi più che di partecipare, oppure vede nel social network un’opportunità per tornare in gioco, senza riuscire a capire che colmare il gap non significa tornare adolescenti. Se poi parliamo di quel tipo particolare di adulto che è l’insegnante, pare di poter dire che la categoria che per lo più lo descrive (tranne le positive eccezioni, che pure esistono) sia quella della refrattarietà. Gli insegnanti non si mettono in gioco, hanno paura. Le ragioni sono diverse: bassa autostima, percezione di richieste elevate, mancanza di formazione metodologica, un atteggiamento conservativo come forma di autodifesa. In una battuta: la scuola non è cambiata, il mondo sì.
3. Le pratiche
Come attivare il dialogo? Come colmare il gap? Procedendo per punti, schematicamente, si possono fissare alcune indicazioni operative:
- riscoprire il valore della mediazione (che però significa chiedere agli adulti di riappropriarsi di questo compito, di tornare ad essere significativi per i ragazzi);
- usare i media e i linguaggi dei giovani per aprire dei canali di prevenzione;
- mettere al centro il bambino-autore, ossia promuovere l’uso creativo del cellulare e degli altri media per sviluppare senso critico attraverso la produzione dei messaggi;
- ibridare le culture e condividere le pratiche;
- allestire delle passerelle conversazionali da percorrere nei due sensi: ci sono esperienze dei ragazzi che devono poter “entrare” nel mondo degli adulti e viceversa. E a volte proprio la rete, minacciando di compromettere per sempre la relazione, finisce per attivarla, come succede nel film di Veronesi Genitori e figli. Agitare bene prima dell'uso.