Monday, September 22, 2008

Media, identità, responsabilità














Vagrisanche, 20-21 settembre. Seconda puntata del seminario che il CREMIT sta promuovendo insieme all'Istituto Storico della Resistenza di Torino per verificare i rapporti esistenti tra processi educativi, media e dimensioni della storia e della cittadinanza. In agenda due sessioni di discussione su altrettanti paper: quelli dedicati alle due parole chiave "Identità" e "Responsabilità" da Michele Marangi e Alessandra Carenzio. A discuterne un gruppo di amici, oltre che ricercatori, di cui fanno parte tra gli altri Barbara Bruschi e Alessandro Perissinotto dell'Università di Torino. Non posso restituire qui tutta la ricchezza del dibattito. Quindi mi limito a individuare tre questioni che a mio avviso sono centrali rispetto al tema in discussione.

1. Media, Media Education, costruzione dell'identità. I media concorrono a costruire le identità dei soggetti? E come? Quali sono i modelli più funzionali a fornire risposta a questa domanda: quelli basati sull'idea del modellamento? E il modellamento assume le forme del pensiero unico che si impone trasversalmente rispetto alle appartenenze geografiche e culturali? O esistono le appropriazioni, sempre locali, sempre storicizzate, a mediare l'impossibilità dell'omologazione? E ancora: quale risposta educativa si può dare alla questione della costruzione identitaria del singolo e della società attraverso i media? La discussione su questo punto ci ha portato a maturare una prima prospettiva che è in fondo un orientamento in funzione del libro che stiamo scrivendo tutti insieme (le idee che qui anticipo entreranno nell'introduzione) e che sarà il risultato del seminario: oggi alla Media Education non si chiede (probabilmente) più di de-costruire (i messaggi, le costruzioni dei media, le appartenenze ideologiche dei discorsi), ma di aiutare a costruire, a comporre. Le soggettività fragili che abitano la tarda modernità hanno bisogno di ridurre la complessità, non di vedersela aumentare. Questo significa reinterpretare quel che Masterman parecchi anni fa intendeva dire quando predicava per la Media Education la necessità di passare “dalla difesa all’attacco”: complessificare e decostruire non aiuta, occorre fornire strumenti per ricomporre (senza certo dimenticare l'importanze del pensiero critico che promuove consapevolezza).

2. Media e conoscenza. Perissinotto, nel corso del dibattito, ha fatto asservare come il gioco delle identità non vada disgiunto da quello conoscitivo: l’identità ha sempre una finalità conoscitiva, non è mai fine a se stessa. Classificare significa in fondo assegnare un’identità per conoscere. È anche vero che “forzare” l’identità è una violenza: una persona non è definita solo dal suo essere qualificata come "tifoso", o come "professore". Ma è impossibile non assegnare identità agli oggetti perché ci si condannerebbe a non conoscerli. Il rilievo è di grande interesse. Le connessioni attraverso le quali conosciamo le cose sono assegnate o trovate? C’è qualcosa del flusso oggettuale che “rimane” al di là di tutte le connessioni che si possono immaginare? La costruzione è un intervento che prescinde da qualsiasi riferimento agli oggetti? Eco (in Kant e l’ornitorinco) risponde di no e trova la soluzione nello schematismo kantiano (la funzione dell’immaginazione) riletto nella prospettiva del giudizio riflettente e attraverso la semiotica di Peirce: la conoscenza dell’immagine avviene a partire dalla sua percezione e dal fatto che il giudizio ritorna su di essa, la legge attraverso l’applicazione di schemi (che non sono letti come strutture trascendentali della mente umana ma come il risultato di iscrizioni storiche e sociali) e attraverso questa applicazione ricava l’universale.
Questo indica due cose per il nostro discorso:
- se concordiamo sulla natura semiotica della conoscenza, allora la Media Education non è una questione di tecniche di analisi, ma un sapere fondamentale, poiché della capacità di leggere segni ne va della nostra stessa possibilità di conoscenza della realtà: la Media Education non si può distinguere dalle scienze che si occupano della conoscenza (come dice Perissinotto), cioè dalla nostra capacità di nominare le cose. I limiti dell’interpretazione sono nel testo: saper leggere il testo significa in fondo avere la possibilità di conoscere il mondo;
- la storia “entra” qui perché nella lettura di Eco gli schemi non sono più trascendentali (strutture a priori dello spirito umano) ma storici, segnati dall’appartenenza alle tradizioni e dai contesti storici. La costruzione dell’identità passa in sostanza dal rapporto che intercorre tra convenzioni sociali e schemi individuali.

3. Responsabilità e autorità. L'ultimo spunto me lo fornisce l'intervento di Fabio Fiore al seminario, un intervento che gioca su una cascata di problematiche: la rimozione dell’educativo, la crisi dell’autorità, la difficoltà nel rapporto educativo a distinguere tra emittente e ricevente, la confusione tra esperti e non esperti. Il cuore del problema è sicuramente quello del'autorità, o meglio della sua rimozione cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. La spinta alla descolarizzazione e la critica del principio di autorità insito nell'istruzionismo di scuola hanno prodotto un clamoroso errore di prospettiva: hanno pensato di liquidare tutto ciò che sembrava esercizio del potere senza accorgersi che di fatto stavano liquidando anche la conduzione pedagogica. Ora, se siamo d'accordo sul fatto che il paradosso dell'educazione consiste proprio nel fatto che l'educare è rendere libero l’altro attraverso l’esercizio dell’autorità (Perrenoud), ci rendiamo conto di come il venire meno dell'autorità metta a repentaglio la possibilità stessa dell'educare. Se la responsabilità passa per il dispositivo della fiducia, come posso credere a chi non è autorevole? Non si può educare alla responsabilità senza autorità.

1 comment:

marialetizia said...

Leggo questo post, e mi colpisce molto la questione dell’autorità.
Ad un certo punto tu affermi che” il venire meno dell'autorità mette a repentaglio la possibilità stessa dell'educare”
Poi però, parli di autorevolezza. Riferendomi alla scuola e al suo compito educativo, io penso che sia questa ultima, oggi, ad essere in questione, .
Perché l’autorità di chi educa mi sembra già da tempo perduta, per vari motivi.
Anzitutto per i cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni (esami di riparazione, voto di condotta, relazione scuola-famiglia etc. Anche le recenti re-introduzioni si applicano ad un contesto completamente diverso)
Poi per la pluralità di “agenzie educative”, anche implicite, che hanno inevitabilmente sottratto autorità alla scuola. Mi riferisco particolarmente ai media, spesso non autorevoli ma autoritari (sui giovani) in forza della loro pervasività . (ancora non è penetrata in profondità l’esigenza , ormai improrogabile, di educare gli adolescenti- ad una lettura critica, e di insegnare ai docenti a lavorare anche su qusto aspetto)
Non ultima, la scarsa considerazione sociale di cui i docenti godono (specie nei recenti chiari di luna): parassiti, perdenti, non certo un modello di successo da seguire.
Perduta l’autorità, la possibilità di educare si può fondare ancora sull’autorevolezza.
Che cos’è l’autorevolezza in chi educa a scuola? Questa la mia risposta: competenza e responsabilità.
Una competenza a molti livelli: disciplinare, pedagogica (assai scarsa, e liquidata come un mucchio di teorie prive di contenuto- ma i contenuti li deve mettere chi educa!),tecnologica (non parliamone neanche…), comunicativo-relazionale ed etica, si, anche etica (spesso dimenticata, in una concezione un po’ troppo aziendalistica dei saperi).
E la responsabilità. Che all’etica si lega fortemente.
Credo che questa fusione di competenze e responsabilità sia avvertita davvero come autorevole dai ragazzi, e credo dovrebbe essere anche alla base di una valutazione del docente, che al suo compito educativo non deve abdicare.