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Wednesday, April 1, 2009
Serve più disciplina?
Provare a ragionare di disciplina presenta sempre una difficoltà, che sembra insormontabile: la difficoltà che proviene dalla contraddizione tra il dire e il fare, la parola e l’azione. Come posso discutere di disciplina, fornire indicazioni su come ottenerla, se in fondo io stesso faccio fatica a imporla? Più in generale: come posso parlare di educazione in modo da fornire a chi mi ascolta delle indicazioni, se io stesso sono un “imperfetto genitore”, per dirla con Marcello Bernardi (1988).
Dall’impaccio mi toglie sempre il fatto di tornare con la memoria alle parole di Turoldo (1993; 114) che in una sua omelia rilevava una contraddizione analoga tra la sua inadeguatezza di uomo peccatore e le indicazioni che invece nella sua attività di predicatore forniva a chi accorreva ad ascoltarlo. Turoldo non trova una soluzione, la contraddizione rimane; ma miracolosamente la sua parola dà prova di essere efficace comunque, funziona “ex opere operato” e per fortuna non “ex opere operantis”. E questo lo sprona a dire, a predicare anche se non sempre riesce a praticare: "posso anche sentire la distanza fra quello che dico e quello che sono, è vero, ma intanto almeno diciamo quello che dovremmo essere. Pensate Cristo: “Sono venuto a portare la guerra”. E ancora: “Se un occhio ti scandalizza, càvalo”, e poi: “se una mano ti scandalizza, tagliala”. Noi altri invece abbiamo inventato tutta questa ovatta. Ecco il pensiero che dicevo all’inizio: quando comparirò, almeno questo potrò dire al Signore: la tua Parola ho cercato di predicare, non sarò certo sempre riuscito a praticarla, ma almeno a predicarla, sì! E forse se riuscissimo almeno a predicarla potremmo essere anche più credibili e forse ci aiuteremmo ancora di più a essere coerenti".
onfortato da questa consapevolezza provo a introdurre il mio discorso, che muove da una constatazione e si lascia attivare da tre domande.
La constatazione. Oggi attorno alla disciplina (o meglio, alla mancanza di disciplina) pare organizzarsi una vera e propria urgenza educativa. I ragazzi non hanno più rispetto, gli adulti sembrano incapaci di ottenerlo; la maleducazione, la mancanza di regole, il bullismo, la trasgressione in tutte le sue forme paiono essere le nuove inquietanti cifre di identificazione delle giovani generazioni; la famiglia e la scuola si scoprono impotenti, incapaci di trovare soluzioni praticabili.
Proprio ragionando attorno a questa percezione di urgenza, attorno a questo clima da “millenarismo educativo”, mi è tornato tra le mani un passo che ricordavo di aver letto e che mi aveva stupito, tanto mi sembrava spiazzante rispetto a certi nostri “adagio” come quello che invita sempre a rivolgersi al passato come a una mitica età dell’oro o dell’innocenza purtroppo perduta (“Una volta sì, non come oggi…”):
“Eh già! Non c’è da stupirsi. I ragazzi d’oggi fanno tutto quello che vogliono. Non c’è più autorità né rispetto. Quando eravamo giovani noi, nessuno osava replicare agli ordini del padre…”. L’osservazione non è né fuori luogo né sbagliata. Ma bisogna anche chiedersi perché i ragazzi, oggi, fanno quello che vogliono, perché non c’è più autorità e perché i ragazzi si ribellano ai propri genitori. Per avere autorità, non basta urlare e picchiare sodo; ci sono ben altri fattori che subentrano e cooperano alla formazione delle condizioni perché possa esistere la vera autorità.
Sembra si descriva la situazione di oggi. Invece è Freinet (1978; 34), il maestro Celestine Freinet, che scrive, nel 1959. Teniamolo presente, prima di caricare l’oggi di eccessive preoccupazioni: stiamo parlando di problemi che non rappresentano delle variabili, ma delle costanti, in educazione. Servirà ad affrontarli con maggiore serenità.
Le domande. In Brasile, dove spesso mi reco per attività di ricerca e di insegnamento presso alcune Università con cui negli anni si è sviluppata una arricchente collaborazione, usano una bella espressione per indicare le domande che favoriscono l’orientamento di una ricerca. Parlano di “perguntas norteadoras”, di “domande che indicano verso il nord”: sono le domande che indicano la stella polare, ti mostrano la rotta, tracciano la strada che dovrai seguire.
Bene, anch’io voglio indicare tre domande di questo tipo all’inizio del mio percorso. Eccole:
Cosa dobbiamo intendere per disciplina? Qual è il significato di questo termine?
La disciplina occorre? E quale?
Perché ne abbiamo perso le tracce, o forse noi stessi l’abbiamo liquidata? E si può ricuperare? A che condizioni? Con che vantaggi per chi educa e con quali attenzioni?
Il significato della disciplina
Quando parliamo di disciplina facciamo riferimento di solito a un’accezione del termine che si forma lungo tre tradizioni di riflessione: quella pedagogica, quella psicologica e quella sociologica.
Per la pedagogia (penso in particolare a Comenio, a Herbart, a Locke) e per la tradizione educativa che da essa deriva, disciplina è un sistema di regole, o meglio è il rispetto di un sistema di regole. Si tratta quindi di un codice di comportamento cui attenersi, di un protocollo di modi di dire e di fare che regola lo stare a scuola come lo stare in famiglia. Nel sistema dell’istruzione la sua importanza è sempre stata sottolineata, anche attraverso la notifica di una valutazione che si esprime(va) in un voto (la “condotta”).
La ragione filosofica ultima di questa importanza rinvia in fondo a un’antropologia ben precisa, quella che pensa al rapporto tra natura e cultura come necessariamente caratterizzato da un processo in cui alla natura, di per sé disordinata, viene dato ordine dalla cultura. E infatti del ragazzo indisciplinato si dice di solito che “si comporta come un selvaggio”, che “non ha regole”: è l’istanza della civilizzazione che si impone a quella della libera espressione della natura individuale (e contro cui Rousseau reagiva nel suo Emilio). In buona sostanza, rovesciando il senso del famoso slogan di Don Milani, per la tradizione pedagogica “l’obbedienza è (sempre stata) una virtù”.
La psicologia (in modo particolare la psicologia del profondo, con Freud, e quella relazionale con Allport) fornisce una spiegazione a quanto già fissato dalla tradizione pedagogica, rafforzandola. In questa prospettiva la disciplina è funzionale all’interiorizzazione della norma e quest’ultima costituisce il male necessario senza di cui la convivenza civile sarebbe impossibile.
L’uomo, nel suo stato di natura, tenderebbe di per sé a lasciarsi guidare nel proprio comportamento dal principio di piacere. Lo si vede nel bambino molto piccolo: cerca la soddisfazione immediata della pulsione, piange se non arriva immediatamente, si seda solo quando viene soddisfatto. Una logica che non può essere dell’adulto: l’adulto deve imparare che vi sono pulsioni che non possono trovare soddisfazione immediata, ma solo dilazionata, o addirittura che non potranno trovare soddisfazione. Il principio di realtà rappresenta proprio questa logica di contenimento e di frustrazione della pulsione: vi sono cose che non posso fare subito, altre non le posso fare del tutto!
Questa funzione censoria, che ci dice cosa possiamo e cosa non possiamo fare, è esercitata dal Super-Ego. Nella topica freudiana della psiche, il Super-Ego rappresenta la norma interiorizzata, la parte di noi che avendo imparato cosa si può e cosa non si può fare presiede al controllo delle nostre pulsioni. È la funzione normalmente esercitata dal padre: il complesso del padre (o l’iscrizione del padre) diviene così sintomo di tutto ciò che dice della norma, dell’obbedienza, del controllo. Ciò di cui la contestazione alla fine degli anni ’60 cercherà di liberarsi sarà proprio questa funzione: i padri saranno il vero bersaglio della rivoluzione.
La sociologia (da quella funzionalista di Durkheim alla prospettiva neo-marxista di Bowles, Gintis, Bourdieu) aiuta a completare il quadro già descritto da pedagogia e psicologia. In questa prospettiva, la disciplina e il suo ruolo si determinano in relazione con il processo di socializzazione. Nella misura in cui ogni sistema sociale mira alla propria conservazione, esso ha bisogno che l’ordine sociale con le sue norme, i suoi valori, i suoi comportamenti codificati, si riproduca. La disciplina funziona in questo senso: riduce il margine di possibilità della trasgressione e della devianza, favorisce il mantenimento dello stato delle cose.
In sintesi, allora, la disciplina alla luce della rapida analisi che del suo significato abbiamo prodotto attraverso la lettura che le scienze umane ne hanno dato:
è imposta, non scelta;
è esteriore, formale, si impone all’individuo dall’esterno;
è un male necessario.
Quale disciplina
Se vale quel che abbiamo fino a questo momento discusso, parrebbe che la disciplina sia un non-valore, una categoria che funziona solo “in negativo”. Ma allora, serve?
La mia risposta – che funziona anche come tesi di fondo di tutto il mio intervento – è che se c’è autorità la disciplina non serve. L’insegnante autorevole non ha bisogno di imporre la disciplina ai suoi allievi: ottiene “naturalmente” un comportamento adeguato. Al contrario, quando si sente la necessità di imporre regole disciplinari è probabilmente perché non si è in grado di essere rispettati in virtù della propria autorevolezza. L’autorità non si impone, viene riconosciuta.
Perché venga riconosciuta, l’autorità deve essere un modello, un esempio, deve affermarsi “nei fatti e nella vita”. Tutti grandi maestri, come Socrate, come Gesù, hanno saputo improntare il loro insegnamento all’esempio: la condizione fondamentale dell’autorità è la testimonianza. Solo chi sa essere testimone riesce ad essere autorevole. Ci riesce perché per lui parlano i fatti, parla la vita.
Autorevolezza non è autoritarismo: l’autoritarismo chiede l’obbedienza per l’obbedienza, non mira a farsi riconoscere; vuole solo imporsi, ma si condanna a non poter mai capire fino in fondo se quello che ottiene non sia soltanto l’”inessenziale operare” (come diceva Hegel) di chi gli è sottoposto. Il testimone non si accontenta che i suoi discepoli facciano quel che dice; il testimone spera che attraverso il suo esempio possano perfezionare se stessi. Pretende di scrivere nelle loro anime: “da mihi animas, cetera tolle”; dammi le anime, tieni pure il resto!
Qui troviamo lo spazio per il ricupero della disciplina.
La disciplina di cui finora abbiamo parlato, quella che non serve se c’è l’autorità, possiamo definirla “disciplina oggettiva”. La disciplina oggettiva è eteronoma: come abbiamo visto si impone dall’esterno e chiede il rispetto della regola. Ad essa possiamo concedere al massimo l’utilità di svolgere una funzione di supplenza: in mancanza di autorità, aiuta a limitare i danni.
Ma c’è una “disciplina soggettiva” che cresce proprio nella relazione educativa e che non è resa nulla dall’autorità, anzi ne costituisce uno dei fini: lo si capisce se si torna a quanto poco sopra dicevamo a proposito della testimonianza e del suo essere rivolta al perfezionamento interiore di chi se ne fa discepolo.
Questa “disciplina soggettiva” che la testimonianza autorevole cerca di attivare, la possiamo intendere come:
- un processo/percorso di perfezionamento interiore. Quando ritorno in me stesso, quando mi concedo spazi di autoesame, quando individuo le mie debolezze e scopro su cosa devo lavorare per essere una persona migliore: in tutti questi casi esercito quel lavoro di perfezionamento che la disciplina soggettiva è;
- una tecnologia del sé. Tecnologie del sé sono per Foucault (Martin, Gutman, Hutton, 1998) quelle tecniche che, dalla sapienza greca alla tradizione monastica fino agli esercizi ignaziani, consentono all’uomo di esercitare un controllo su se stesso. Sono tecniche come la meditazione, l’ascesi, il controllo delle passioni: tutte forme di disciplina interiore;
- grazie a queste tecniche, la disciplina soggettiva ha per obiettivo di rendere libero l’uomo. E’ libero il saggio socratico quando scopre di non aver bisogno di nulla, è libero il cristiano quando scopre che “nulla gli manca e nulla lo turba, perché solo Dio gli basta”.
Raggiungiamo qui un risultato significativo. L’autorità, riconosciuta nella testimonianza, chiede al discepolo la disciplina interiore perché, attraverso di essa, impari ad essere libero. Alla disciplina “oggettiva”, eteronoma perché si impone dal di fuori, subentra la disciplina “soggettiva”, autonoma, perché sono io stesso che me la do e che la esercito imparando a diventare libero.
Si trova qui quello che Perrenoud indica come uno dei paradossi dell’educazione: rendere libero l’altro attraverso l’esercizio dell’autorità.
Dalla disciplina perduta alla disciplina ritrovata
Se si comprende fino in fondo il significato della disciplina e dell’autorità sulla scorta di quanto sinteticamente abbiamo cercato di suggerire, si fatica a capire perché negli ultimi decenni si sia cercato in tutti i modi di farne piazza pulita. Perché ci siamo disfati della disciplina? Perché abbiamo liquidato con essa l’autorità e il suo valore educativo?
La risposta può essere trovata in tre possibili motivazioni.
Vi è anzitutto un motivo storico. Abbiamo confuso l’autorità con la disciplina oggettiva riducendola ad autoritarismo. Ha pesato in questo l’apologia della disciplina e dell’autorità celebrata dal Fascismo, che ne ha fatto uno strumento di vessazione e disumanizzazione: nella misura in cui la Repubblica trova proprio nella negazione del Fascismo uno dei suoi fondamenti, è stato inevitabile che con esso venisse negata la caricatura dell’autorità in cui si era identificato.
In secondo luogo (motivo ideologico) abbiamo travolto l’autorità nel processo ai padri che abbiamo celebrato a partire dal ‘68. La disciplina e l’autorità sono state ritenute incompatibili con l’esercizio della libertà e della democrazia: ci si è convinti che solo eliminandole fosse possibile restituire all’individuo la possibilità di essere se stesso, di crescere libero.
Infine (motivo sociologico), soprattutto negli ultimi dieci-quindici anni, abbiamo liquidato l’autorità perché come adulti ci siamo accorti di non saperla più esercitare. In questo terzo caso stiamo parlando di una rinuncia. La crisi della funzione genitoriale e delle figure educative in genere sta sullo sfondo di questo processo.
Crisi della funzione genitoriale: perché la trasformazione dei tempi e delle forme del lavoro rende la carriera sempre più ingombrante e la stabilità economica sempre più difficile da raggiungere spingendo in avanti negli anni il tempo della generazione; perché c’è sempre meno tempo per i figli; perché spesso ci si trova a crescerli da soli e ci si convince che vadano protetti e non educati.
Crisi delle figure educative: perché crescono a dismisura i compiti di cui le agenzie educative vengono caricate (le tante “educazioni”, dall’ambiente alla sessualità, dalla cittadinanza alla salute, …); perché con proporzionalità inversa diminuisce vistosamente il prestigio sociale delle professioni educative; perché queste professioni ancora stentano ad essere pensate come tali e questo allontana la possibilità che si pensi con serietà alla loro professionalizzazione.
Tenere presenti sullo sfondo questi motivi costituisce la premessa indispensabile per qualsiasi tentativo si possa fare di giungere a un ricupero dell’autorità e della disciplina nel senso che sopra abbiamo provato a spiegare.
Questo ricupero impone tre scelte che costituiscono anche il passo finale del mio intervento.
Una scelta di principio. Occorre riappropriarsi dell’autorità attraverso un ricupero della testimonianza. Ricominciare a essere testimoni! Il problema non sono le giovani generazioni; il problema siamo noi adulti. Se non avremo il coraggio di tornare a percorrere i sentieri della testimonianza continueremo a non essere autorevoli, cioè non saremo significativi per i ragazzi che invece si aspettano da noi che lo siamo. Sapersene riappropriare significa ristabilire il dialogo tra noi e la loro libertà. Come dice bene Rahner (1975; 236):
La testimonianza, quale libera autorealizzazione dell’uomo testimoniante, fa appello alla libertà di chi l’ascolta
Una scelta di metodo. Occorre ritrovare i tempi e i modi per:
- l’ascolto e l’osservazione. Le ricerche recenti sulla condizione degli adolescenti ci dicono che pare terminata l’epoca della socializzazione orizzontale. L’avevamo salutata come una conquista: che la socializzazione fosse orizzontale ci pareva implicasse il guadagno di relazioni più paritarie, più democratiche; qualcuno si era illuso che tutto si potesse risolvere a livello di relazioni tra pari. Oggi sappiamo che vi è un prepotente ritorno del bisogno di socializzazione verticale. L’adulto ha la possibilità di tornare a essere significativo, ma non dimostra di saperla cogliere perché ha disimparato ad ascoltare, non sa osservare e quindi non riesce a capire quali siano i bisogni profondi dei ragazzi;
- l’esempio e la motivazione. Fare vale più che dire e spesso una parola detta al momento giusto, un tocchetto sulla spalla, una carezza sono più eloquenti di molti discorsi. La motivazione è fatta di attenzione, di incoraggiamento, di sollecitudine; è dire al ragazzo che ci sta davanti che per noi è importante;
- la responsabilizzazione. Dare responsabilità significa far sentire la fiducia. Chi non sa responsabilizzare non vuole correre rischi, si illude che il controllo sia più sicuro. Ma oggi la complessità sociale entro cui i più giovani vivono li sottrae completamente a qualsiasi possibilità di controllo da parte dell’adulto. Solo se sapranno essere autonomi ne potranno venire a capo e l’autonomia si costruisce solo attraverso la responsabilità;
- il confronto e la correzione. Vivere il confronto significa aprire uno spazio di mediazione, porre in relazione i punti di vista, discuterli senza doppi fini e senza non detti. Solo attraverso il confronto si può costruire la consapevolezza. Ma confronto non significa rinunciare a correggere. La correzione certifica il ragazzo nella sua esistenza, lo rende sicuro che per l’adulto lui è importante. Se ti correggo vuol dire che per me conti; al contrario se non ti dico mai nulla vuol dire che sono come tutti gli altri e mi confondo con la routine delle cose da fare. Il permissivo, chi si rifiuta di correggere, non educa ma sottoscrive la sconfitta dell’educazione:
Il permissivo, tutto sommato, è un autoritario incapace di farsi obbedire. (…) Il permissivo tende a lasciar cadere ogni responsabilità perché gli è stato sottratto l’unico strumento educativo che lui conosca: l’autoritarismo (Bernardi, 2002; 32-33).
La terza scelta è una scelta di stile. Essere autorevoli, insegnare la disciplina interiore per rendere liberi, vuol dire vivere l’amore esigente. Cosa significhi ce lo suggerisce Don Bosco, che così scrive negli Articoli generali del Regolamento per le case:
Farsi amare insieme ed anche temere dai giovani. Questa è cosa facile. Allorché i giovani vedono che un assistente è tutto sollecitudine pel loro bene non possono fare a meno che amarlo. Quando vedono che l’assistente non lascia passar cosa alcuna, ben inteso, cose che non vadano bene, ma di tutte le mancanze li avvisa, non possono fare a meno che aver di lui un certo timore, cioè quel timore reverenziale che si deve avere verso i loro superiori. Di una cosa deve guardarsi bene l’assistente ed è quella di non abbassarsi tanto coi giovani medesimi sia nei discorsi, come negli atti e specialmente nei giuochi: deve prendere parte in tutto, ma nello stesso tempo tenere un’aria di gravità, far vedere col suo contegno d’essere loro superiore (Braido, 2000; 339-340).
Riferimenti bibliografici
Bernardi, M. (1988). Gli imperfetti genitori. Milano: Rizzoli.
Bernardi, M. (2002). Educazione e libertà. Milano: Fabbri.
Braido, P. (2000). Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco. Roma: LAS.
Martin, L.H., Gutman, H., Hutton,P.H. (1997). Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé. Torino: Boringhieri.
Freinet, C., (1978). La scuola del fare. Bergamo: Junior.
Rahner, K. (1975). Osservazioni teologiche sul concetto di testimonianza, in Nuovi saggi V, pp. 117-140. Roma: Edizioni Paoline.
Turoldo, D.M. (1993). Il fuoco di Elia profeta. Casale Monferrato: Piemme.
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6 comments:
Non posso negare che nel leggere queste interessanti riflessioni abbia pensato alla mia infanzia e a mio fratello che da piccolo era veramente indomabile!!!
Autorevolezza è la parola chiave: tra i vari tentativi sperimentati da mia madre quello che più ha dato i suoi frutti è stato proprio quello di cercare di capire come canalizzare tutta l'energia esplosiva che animava le azioni di quel vivace bambino, poco capito dalle insegnanti che si limitavano a fare stupidi paragoni o a trovare in lui problematiche psicologiche del tutto inesistenti.
Mia madre ha sudato davvero molto, ma ha saputo modellare il suo comportamento a quello del figlio, oltre ad avere l'intuizione che fargli praticare una disciplina sportiva come il Karate potesse compensare la sua attività di educatrice. Il karate dicevo, che per lui poteva essere inizialmente una modalità per poter apprendere tecnice infallibili di " pestaggio", ma che gli ha al contrario insegnato a prendere consapevolezza del suo corpo, della sua forza e dei possibili effetti che un suo utilizzo scorretto avrebbero potuto provocare. Con il tempo quel bambino scalmanato è diventato un ragazzo consapevole, capace di sfogare la propria energia nel momenti e nei modi giusti, dotato di autocontrollo e disciplina e di una buona dose di autorevolezza. Si tratta solo di un caso, è vero, ma credo che un comune denominatore tra questa esperienza e quanto descritto del post, sia l'assenza di giudizio e di pregiudizio, di facili tentativi di incasellare il "caso" all'interno di classifiche predeterminate, di considerare un babino per quello che è ovvero una miscela di energia, pulsioni, curiosità, comunicazione, relazione, sentimento e tanto altro ancora. L'educatore ha il compito, ed oso dire, il dovere di guardare il bambino con la stessa cuorisità e desiderio di scoperta per instaurare una relazione veramente costruttiva!
Posso permettermi di complimentarmi per questo articolo?
Analisi limpida, chiara, acuta, approfondita ma non pedante nè ridondante, una guida utilissima, equilibrata, esemplare per ogni educatore/formatore/tutor; da tenere sul comodino per un frequente ripasso.
Ho provato a sponderti sul mio di blog, ma probabilmente non sono riuscito, pazianza, sono andato avanti sulle mie riflessioni.
Anche a me a colpito l'articolo e una parola mi sembra sulle altre: TESTIMONE!
Poi avere come riferimento "occulto" Don Bosco mi sembra un riferimento bello impegnativo ma per fortuna che qualcuno ci parla ancora dei Santi e continua a giocare con i fanti!!!
Grazie Pier, a presto
Lorenzo, riferimento per nienet occulto, direi... :-) Grazie del feed-back. Ma dove l'hai messo il tuo post?
Ti segnalo sul mio blog
http://spicchidilimone.blogspot.com/2009/09/serve-piu-disciplina.html
Grazie al blog di Paola Limone ho potuto leggere queste bellissime riflessioni che condivido come insegnante e come cristiana. Grazie
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