Personal Blog of Pier Cesare Rivoltella. A place where it's possible to talk about Media, ICT and Education
Sunday, December 12, 2010
La scuola, le LIM e i guerrieri nel cavallo
Thursday, November 25, 2010
Lezioni digitali?
Il 25 novembre ho partecipato, a Bologna, a un seminario su scuola e tecnologie nell'ambito di Handimatica, la mostra-convegno su tecnologie e disabilità che ASPHI organizza ogni anno. Mi ha fatto molto piacere, sia perché sono amico di Piero Cecchini che di ASPHI è l'anima, sia perché sono un grande ammiratore dello straordinario lavoro che lui e i suoi collaboratori fanno da vent'anni a vantaggio di chi è portatore di qualsivoglia abilità diversa.
L'intervento che mi è stato assegnato portava il titolo di "Lezioni digitali". Su di esso mi sono esercitato, procedendo in due passaggi:
- la discussione del titolo;
- l'indicazione di cosa significhi costruire e gestire non una lezione digitale, ma una didattica significativa con le tecnologie in classe.
1. Il titolo si può (si deve) discutere, almeno in tre direzioni.
Anzitutto cosa vuol dire "digitale"?
a) Vuol dire "non analogico" (nel senso della Scuola di Palo Alto), cioè univoco nei suoi significati, non suggestivo, non plurivoco dal punto di vista semantico? Se così fosse, allora una bella lezione dovrebbe essere tutto fuorché "digitale".
b) Vuol dire "ridotto a contenuto digitale"? Ovvero, una lezione che diviene un Learning Oject, come accade nel caso delle videolezioni, delle clip didattiche. Non convince. Mancherebbe completamente interazione e una lezione senza interazione non è una lezione.
c) Quindi deve voler dire "svolta con il supporto di media digitali". A questa accezione mi attengo.
Veniamo al termine "lezione".
Lectio, nell'Università medievale, indica una forma didattica in cui qualcuno legge e commenta, gli altri ascoltano ed apprendono. La lectio implica magistralità: in questo sta il suo valore. Vedere all'opera un maestro (se è veramente tale) è straordinariamente formativo. Il digitale, invece, indica nel senso dell'interattività: se proprio mi devo immaginare una didattica "digitale", non me la immagino nella forma della lezione, ma caso mai del laboratorio.
Quindi: perché le lezioni dovrebbero essere "digitali"? Mi sembra, parafrasando Prensky, che la questione da porre non sia nei termini di una contrapposizione tra lezione tradizionale e lezione appunto "digitale" (dove l'implicito è di leggere la dialettica nel senso di vecchio e nuovo), quanto piuttosto di definire cosa renda eventualmente innovativa ed efficace la lezione "digitale".
2 . Qual è allora la proposta? La proposta è di ripartire dalle tre categorie che Prensky usa per definire i comportamenti digitali delle persone (stupidità, destrezza e saggezza digitale) trasferendole all'uso delle tecnologie nella didattica così da distinguere la stupidità didattica, dal tecnicismo didattico, dalla saggezza didattica.
Quando una didattica è stupida?
Quando concepisce la scuola come una polis media-resistente, la organizza come una provincia monomediale, la pensa come strumento di una vera e propria controcultura (Bohme, 2006). Una didattica di questo genere non valorizza le competenze degli studenti, non prepara al futuro: arroccandosi sulle sue pratiche vecchie confonde la salvaguardia della qualità con la sua incapacità di rispondere alle esigenze dell'oggi.
Ma una didattica è stupida anche quando confonde l'innovazione con l'aggiornamento tecnologico, agisce vecchie pratiche attraverso nuovi formati, mette al centro lo strumento e non i processi. Questa didattica non coglie il significato del cambiamento, inganna gli studenti, illude i genitori.
Quando una didattica è tecni(cisti)ca?
Quando assolutizza la funzione dei linguaggi, porta in primo piano le competenze tecnologiche dell'insegnante, adotta con correttezza formati e strumenti contemporanei. Ma anche quando interviene sulle pratiche tradizionali, le modifica e le aggiorna alla luce del nuovo, si pone questioni di efficacia rispetto agli apprendimenti dei soggetti.
Questa didattica, pur nella correttezza del suo operare, spaventa i meno esperti, non riesce a vincere le resistenze ma rischia di rinforzarle, può diffondere l'idea che alcune discipline rimangano comunque impermeabili all'operazione, promuove la coabitazione di due culture, la vecchia e la nuova.
Come si capisce occorre lavorare in funzione della saggezza. Ma quando una didattica è saggia?
Quando favorisce la riconcettualizzazione della tecnologia come risorsa culturale "normale" per la didattica (è quanto avviene quando il cellulare viene usato in classe per svolgere attività di apprendimento).
Ma anche quando riconosce il valore delle competenze che gli studenti sviluppano nell'informale rendendole funzionali agli apprendimenti di scuola (cfr. le 11 competenze "digitali" di cui parla Jenkins).
Infine, quando rideclina la propria vocazione strutturale (che rimane, al di là di tutti gli aggiornamenti digitali possibili, quella di accompagnare la ricerca di senso e la costruzione identitaria dello studente mediante l'appropriazione di cultura):
- usando molti linguaggi insieme;
- facilitando la ricomposizione dei saperi;
. promuovendo l'interattività e lo scambio;
- formando la competenza di analisi critica e di creazione responsabile dei contenuti mediali.
Saturday, November 13, 2010
Morselage cognitivo
Venerdì scorso sono intervenuto a Riva del Garda al convegno del Centro Studi Erickson dedicato alla "Tutela dei minori". La mattinata in cui ero stato invitato a relazionare (sulla fenomenologia dei consumi digitali dei giovani e relative indicazioni per l'intervento educativo) era varia, per formazione dei relatori e argomento dei loro interventi. Ho imparato moltissimo. Soprattutto ho avuto modo di riflettere sulle ragioni che, quando è di qualità, rendono ancora la forma-convegno interessante e produttiva dal punto di vista intellettuale.
Ecco, in ordine sparso, cosa ho imparato.
1. Da Maurizio Ambrosini (Università Statale di Milano) ho recuperato una bella definizione di Beck, quella di "nazionalismo metodologico", a indicare (ad esempio) la pervicace chiusura con cui in un Paese come il nostro ci si ostina a considerare italiani pronipoti di nostri emigrati che sono nati in Brasile e non conoscono la nostra lingua e a non concedere la cittadinanza a figli di immigrati, nati e cresciuti nel nostro Paese, che parlano l'italiano addirittura con inflessione regionale (e a volte sanno il bergamasco molto meglio dei miei figli).
2. Grazie a Bruno Bortoli (Università Cattolica) ho conosciuto la figura di Charles Loring Brace, un visionario americano che è uno dei primi ideatori dell'affido. I suoi "treni degli orfani" sono, con tutti i limiti che l'esperienza poteva avere, un'idea geniale che negli anni ha regalato un futuro a centinaia di migliaia di bambini.
3. Erano presenti al convegno anche Gale Burford (University of Vermont) e Kate Morris (University of Nottingham), due dei "teorici" del metodo della Family Group Conference. Il loro metodo - ideato e applicato per l'affido dei minori - prevede 5 fasi che possono essere adottate (e lo farò) da chiunque nelle organizzazioni abbia la necessità di giungere a soluzioni negoziate e durature di problemi:
- opening and presentation (inquadramento del problema);
- information sharing (le condividono tutti i partecipanti);
- private time (coloro che devono proporre la soluzione vengono lasciati soli e si chiede loro la propsta di un piani);
- approvation (il piano viene discusso, approvato e sottoscritto);
- evaluation (se ne verifica l'attuazione).
4. Anche il concetto di resilienza (Paola Di Blasio, Università Cattolica) mi pare assolutamente interessante in un contesto come quello attuale in cui la necessità di rispondere a situazione traumatiche o particolarmente stressanti è molto diffusa.
5. Molti spunti, infine, sul ruolo degli adulti nella società odierna sono venuti da Mauro Magatti (Università Cattolica). La sua definizione dell'adulto come soggetto dislocato (tra tentazione giovanilistica e rischio della rottamazione), incoerente (perché "contenitore" universale in cui si addensano mille contraddizioni) e segnato dalla perdita del senso della propria posizione generazionale (tra un prima ed un poi) mi è sembrata illuminante.
Mentre ascoltavo e prendevo nota, riflettevo, appunto, su come stessi "usando" quel convegno, così lontano dai miei temi (il target erano assistenti sociali, educatori e psicologi che operano nei servizi per minori). Mi sono risposto che:
- ho ricavato indicazioni bibliografiche (tra le altre, Ulrick Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna 2003);
- ho fatto euristica categoriale (concetti come quelli di "resilienza", di "nazionalismo metodologico", di "adulto dislocato", possono essere importati e applicati ad alcuni dei temi su cui lavoro);
- ho sperimentato l'efficacia del friends storing (nella società attuale le informazioni si ricavano più facilmente dalle proprie reti che dai libri);
- ho avuto conferme sull'importanza di lasciarsi fertilizzare da interessi di ricerca e approcci disciplinari lontani dai nostri.
Morselage cognitivo, dunque: e al di là di questo il piacere di incontrare amici e colleghi, ragionare in maniera distesa, ritrovare il piacere del confronto intellettuale. Proprio quello che l'Università di solito ti sottrae, presa com'è dai calcoli su minimi e crediti, dalla lotta senza quartiere per la conquista del potere (spesso solo simbolico), dalla stupidità che insegue il vacuo dimenticando che le gratificazioni vere (le uniche, forse) di questo mestiere stanno nel fare cultura e nel piacere di far crescere i giovani che, andrò controcorrente, sono sicuro saranno migliori di noi.
Wednesday, October 27, 2010
Mobile Learning
1) cosa è? (asse concettuale)
2) a cosa serve? (asse socio-culturale)
3) come si fa? (asse didattico-tecnologico)
1. Una definizione
In senso proprio si può parlare di "apprendimento mobile", con due significati storicizzabili in precisi momenti dell'evoluzione della tecnologia e delle didattiche dell'e-learning.
Nel primo di questi momenti il ML è pensato come la possibilità di emancipare l'apprendimento dalla postazione fissa, sganciando spazio-temporalmente il soggetto. Siamo negli anni '90 (Keagan, Peters), in concomitanza con la diffusione del palmare. In questo contesto il ML si lega sostanzialmente all'accessibilità real time ed everywhere di contenuti e servizi di piattaforma (accedere alla bacheca del LMS, vedere il proprio grade-book), soprattutto nell'istruzione superiore.
Oggi il ML cambia decisamente di significato e viene concepito come una possibilità per mettere in continuità pratiche di apprendimento e pratiche ordinarie, individuali e sociali. Come da alcune esperienze europee (London Mobile Learning Group) viene indicato, il ML diviene quindi un modo per usufruire dello stesso strumento (I-pod, cellulare, I-pad) per comunicare nelle proprie reti sociali e per svolgere compiti e funzioni nel contesto della classe.
Volendo sintetizzare: dalla tecnologia come opportunità per esportare la scuola nel sociale, alla tecnologia come opportunità per importare il sociale nella scuola.
2. Lo scenario
Così inteso, il ML consente di dare risposta, grazie alla portabilità e alla connettività della tecnologia (ubiquitous computing), ad alcune nuove esigenze dello scenario socio-culturale attuale.
Anzitutto consente di registrare e valorizzare il nuovo ruolo dell'informale, e cioè:
- workflow learning (Cross), che vuol dire che si apprende sempre, a prescindere da quel che si fa;
- friends storing (Siemens), ovvero molto della nostra conoscenza è archiviato nei nostri amici;
- user generated contexts (Haque), che vuol dire la tendenza dei soggetti ad appropriarsi del mondo costruendo mappe delle loro esperienze e sintesi delle loro conoscenze.
In seconda battuta, il ML interpreta il nuovo ruolo della tecnologia, e cioè:
- quello di esternalizzare una parte delle funzioni che le teorie classiche dell'apprendimento collocavano nella mente (come l'archiviazione delle informazioni, appunto);
- quello di consentire la costruzione e il mantenimento di reti sociali.
Il ML fa questo in due modi.
1) Supporta gli studenti nel collegare scuola e mondo della vita (Jenkins, 2010):
- costruendo passerelle conversazionali tra dentro e fuori, casa e scuola;
- usando il cellulare (il dispositivo mobile) come strumento di continuità tra i due mondi.
2) Crea contesti mediali di apprendimento:
- favorendo la ricezione del dispositivo mobile come risorsa culturale degna di stare in classe;
- progettando situazioni di apprendimento di cui il mobile device sia protagonista.
3. Tecnologia, didattica
Il versante applicativo si può leggere a tre livelli:
a) gli usi. Sono quelli censiti dal rapporto BECTA 2008 realizzato dall'Università di Nottingham e su cui torno in A scuola con i media digitali. Sostanzialmente il dispositivo mobile come: memoria elettronica, agenda elettronica, centrale di comunicazione, macchina creativa;
b) i modi. Qui è centrale il concetto di EAS (Episodio di Apprendimento Situato), ovvero un'attività al centro della quale vi sia l'uso motivato della tecnologia. Esempi di EAS sono: scattare fotografie di angoli come compito a casa; girare un video di 30 secondi per presentare un personaggio storico; usare il voice recorder per salvare la discussione all'interno del proprio gruppo e poi farne una sitesi, ecc.
c) il ruolo dell'insegnante, in tutto questo, come la vignetta di Glasbergen in apertura suggerisce, è di regista della situazione, con l'attenzione però a non versare vino vecchio nelle nuove botti.
Riferimenti bibliografici:
H. Jenkins (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Milano: Guerini.
Saturday, October 23, 2010
Da Marc Prensky... a Marc Prensky
Sulle due categorie dei nativi e degli immigranti sono sempre stato abbastanza critico e in un paio di post in questo blog già le avevo criticate. Le ragioni sono tre:
1) alcuni adulti stanno diventando nativi. Pensiamo all'uso del cellulare per messaggiare i figli, alla massiccia presenza nel social network, all'i-pod attaccato anche alle nostre orecchie, non solo a quelle degli adolescenti. Insomma, proprio come quando si studiano le culture altre sul campo, anche noi stiamo via via "going natives", diventando nativi;
2) diverse ricerche recenti dimostrano che l'uso delle tecnologie non separa ma avvicina le generazioni. Pensiamo al videogame come spazio conviviale tra genitori e figli, al cellulare come oggetto di negoziazione e quindi di dialogo, al social network come occasione di creare complicità e condividere interessi;
3) infine, l'esperienza dell'adulto immigrante, a prescindere dalla sua bravura nell'uso dei media, può essere utile al nativo per promuovere la sua riflessione, per invitarlo a pensare le sue pratiche, insomma per fargli maturare senso critico.
A distanza di un po' di anni da quell'articolo, Prensky, motivandola su per giù con le stesse motivazioni, accoglie quest'idea e riconosce in un nuovo articolo che quelle due categorie hanno fatto il loro tempo. Per superarle Prensky propone tre nuovi profili:
a) quello del saggio digitale (digital wisdom). Si tratta di un utente, giovane o anziano che sia, capace di un uso critico e responsabile delle tecnolgoie digitali;
b) quello dello smanettone digitale (digital skilness). E' colui che possiede le competenze tecniche già attribuite al nativo: rapido, esperto, dotato di grande dimestichezza rispetto ai diversi supporti;
c) quello dello stupido digitale (digital stupidity). E' colui che delle tecnologie fa usi impropri, dannosi, trasgressivi; o anche colui che rifiuta apriori di avvicinarsi ad esse ritenendole fonte di tutti i mali.
Il problema per Prensky è tendere verso la saggezza digitale e trovare il mondo di accompagnarvi tutti. Si tratta di una questione che ci suggerisce in conclusione tre sintetiche considerazioni.
Non mi sembra vi sia molta differenza tra la saggezza di cui Prensky parla e l'obiettivo che da decenni la Media Literacy si propone: responsabilità, senso critico, consapevolezza nell'uso dei media sono da sempre "nel mirino" di un movimento vastissimo e con una tradizione enorme.
Sicuramente la saggezza digitale corrisponde a quell'idea di competenza digitale cui la Comunità Europea pensa quando la indica all'interno del framework delle competenze di cittadinanza.
Infine, proprio prendendo spunto da quest'ultimo cenno, mi pare che la competenza digitale (la saggezza digitale) costituisca oggi un problema importante non solo dell'educazione ai media digitali, ma dell'educazione alla cittadinanza tout court.
Monday, October 18, 2010
La famiglia digitale
- può restare connessa (pensiamo a come questo sia vero per la famiglia degli immigrati, che spesso rimane nel loro paese di origine);
- ricongiungersi (re-connectivity);
- estendere le proprie interazioni sociali e/o mantenerle (come nel caso delle "amicizie" in Facebook).
Su questo fenomeno mi è capitato di recente di intervenire (per la formazione dei genitori e degli operatori dei servizi educativi per l'infanzia, nell'ambito di un seminario di ricerca presso l'Università di Bolzano-Bressanone) e coordino, insieme a Camillo Regalia (amico e collega di psicologia sociale), in Università Cattolica un progetto di ricerca: Family.tag.
Provo in questo post a inquadrare rapidamente i termini della questione ragionando su tre descrittori: lo scenario, le fragilità, l'intervento educativo.
1. Lo scenario della famiglia e della comunicazione digitale è segnato da due fenomeni particolarmente importanti, che occorre tenere in considerazione.
Il primo è la democratizzazione delle relazioni all'interno della famiglia con quel che ne consegue:
- la libertà decisionale riconosciuta ai figli (spesso senza condizioni e in età precoce);
- la pariteticità di diritti e doveri tra genitori e figli (ad esempio i piccoli servizi, su cui viene rivendicato il diritto alla turnazione con il risultato che lavorano sempre i genitori);
- la perdita di autorità da parte dei genitori e il tentativo frequente di sostituirla con un innalzamento del tono affettivo.
Il secondo fenomeno è l'esplosione della comunicazione, contraddistinta da:
- pervasività (i media mobili e connessi sono sempre con noi);
- socialità mediata (prolunga oltre i limiti della presenza le relazioni e le interazioni);
- naturalità (la tecnologia "scompare" sempre più dentro gli oggetti d'uso comune facilitando la nostra appropriazione di essi).
2. Questo scenario consente di inquadrare, nella logica della famiglia digitale, almeno tre fragilità relative ad altrettante parole-chiave (denunciare queste fragilità non significa, naturalmente, disconoscere le enormi opportunità che i social media alla famiglia dischiudono).
a) Tempo. Non c'è più tempo per guardarsi negli occhi, la connettività perenne prolunga il tempo lavorativo ben oltre i suoi limiti con il duplice risultato di produrre una ferializzazione indiscriminata anche del tempo festivo e una colonizzazione anche di quei non-tempi che si sottraevano all'agire (quando non so cosa fare messaggio, telefono, gioco con la play-station, ...).
b) Spazio. Si è sovvertito il rapporto tra dentro e fuori. La comunicazione mediata pare più facile, rapida, efficace. Il risultato è un'estroflessione generalizzata di aspetti personali (pensiamo agli adolescenti in Facebook): alla difesa della privacy di noi adulti, i più giovani rispondo con una gigantesca fuga dal privato.
c) Relazione. La comunicazione si fa rapida, frammentaria, spesso superficiale (se è rapida, difficilmente può essere profonda). Mancano regole condivise che la possano disciplinare.
3. Quali ipotesi di intervento, allora? Ne indico quattro che meriterebbero di essere riprese ed approfondite:
- evitare il surriscaldamento affettivo. Essere troppo teneri, protettivi, remissivi, colloquiali non paga;
- evitare l'effetto-tenaglia. Non paga nemmeno costringere all'angolo, stressare, ripetere fino alla nausea raccomandazioni e divieti che poi magari non si ha la forza di far rispettare (le grida dei Bravi);
- conoscere i linguaggi e le culture. Evitare l'effetto di quella vignetta di Glasbergen in cui un padre dice al figlio che gli chiede se può tenere un blog: "Io e tua madre non sappiamo cosa sia un blog, in ogni caso te lo proibiamo!";
- promuovere una pedagogia del contratto. Una pedagogia del contratto non è sintomo di una resa, ma una strategia dialogica che consente al genitore di riaffermare il suo diritto all'asimmetria educativa, ma allo stesso tempo di promuovere la responsabilità dei figli attraverso il dialogo.
Monday, October 4, 2010
La didattica dell'esperienza
Wednesday, September 22, 2010
Information Literacy
Sto concludendo in Brasile, alla Universidade Federal de Santa Catarina, a Florianopolis, il mio corso su Metodi di ricerca, media e educazione. La lezione di ieri era dedicata alla Information Literacy. Mi fa piacere condividerne le linee essenziali.
1. Una definizione
Si può definire la Information Literacy come un insieme di competenze che, nella società dell'informazione, indicano la possibilità da parte del soggetto di cercare, selezionare e certificare le informazioni reperite in rete.
Alcune sottolineature si impongono:
- questa competenza diviene necessaria in una società in cui le informazioni sono sempre più abbondanti e il sapere diviene intotalizzabile (secondo la celebre metafora del "secondo diluvio universale" proposta da Pierre Levy);
- è parte integrante del campo di esperienza della Media Literacy, soprattutto in relazione alla capacità critica dei soggetti di valutare le fonti delle informazioni trovate;
- va inclusa a tutti gli effetti tra le competenze del ricercatore, per il quale oggi internet rappresenta un'ampia e abituale forma di attività;
- quando parliamo di informazione, occorre che distinguiamo il termine da quelli di conoscenza e sapere. Sinteticamente: l'informazione è il dato; quando formuliamo un giudizio (ovvero organizziamo in termini proposizionali i dati) costruiamo conoscenza; il risultato dell'appropriazione di queste conoscenze è ciò che chiamiamo sapere.
2. Strategie di ricerca in rete
Quando si parla di ricercare informazioni in rete occorre subito distinguere due grandi modelli, che corrispondono ad altrettanti paradigmi della Information Literacy. Il primo è quello che fa centro sul contenuto (Content centered): convinti dell'importanza dei contenuti nella ricerca, i fautori di questo modello hanno come loro capostipite Google. L'altro modello è quello che fa centro sulle persone (User centered): in questo caso la base della ricerca sono le conoscenze dei soggetti, come l'esperienza di Facebook insegna..
Per quanto riguarda il primo modello, quello centrato sui contenuti, al di là delle tante teorizzazioni mi sembra siano sostanzialmente tre le strategie che lo caratterizzano.
a) Starting point
Si parte da una parola di ricerca. Si apre un motore (o Wikipedia, o qualsiasi altro punto abituale di accesso alla rete). Si individuano le risposte più interessanti restituite dal motore. Si seguono i link che vi si possono trovare.
Caratteristiche: razionale, deduttivo, prevedibile.
b) Walking around
Si "spazzolano" i siti della rete senza una precisa intenzione di ricerca. Si genera una biblioteca dei propri preferiti. La si alimenta costantemente creando il presupposto per attivare facilmente la ricerca nel caso serva.
Caratteristiche: serendip, anarchico, dispendioso.
c) Indexing
Si parte per la ricerca da repertori on line, indici di risorse telematiche, banche dati (nel caso della ricerca è il caso di SCIELO, di Google Scholar, ecc.).
Ciascuna di queste strategie, assolutizzate, non pagano. Probabilmente un primo accorgimento potrebbe essere quello di incrociarle per minimizzare i loro limiti e massimizzarne i vantaggi.
Al di là di questo si possono fare proprie alcune indicazioni operative che servono a rendere più efficace e valida la ricerca. Ne individuo tre.
Usare "motori" differenti. Si può:
- partire nella ricerca da metamotori, come Copernic (la versione base, in download, è free);
- servirisi di motori diversi per approfittare delle specificità di funzionamento dei loro diversi algoritmi (Google non è l'unico motore disponibile, ce ne sono a decine, a partire da Altavista o da Bing, il motore di Microsoft, che ha caratteristiche tecniche completamente diverse già orientate nella direzione della ricerca semantica);
- fare ricorso a indici telematici (come Yahoo, ad esempio).
Usare parole di ricerca diverse. E' il caso della ricerca avanzata, che può stressare gli operatori booleani, piuttosto che altri sistemi per mirare maggiormente la ricerca.
Usare lingue diverse. Normalmente le parole di ricerca sono inserite nella propria lingua materna: questo preclude la possibilità di trovare risorse disponibili in altre lingue.
3. L'utente è il vero valore
Il paradigma che fa centro sulla persona, sull'utente, per cercare informazioni in modo efficace, prevede due strategie possibili di azione.
a) Head hunting
Andare a "caccia di teste" in rete significa cercare persone (non contenuti) che possano essere in possesso delle informazioni che ci servono o indicarci dove e come procurarcele. Due sono le modalità di operare in questa direzione:
- postare una domanda di ricerca in un newsgroup (strategia classica, da sempre frequentata soprattutto dagli sviluppatori di software - Linux è nato e cresciuto così);
- usare Facebook Search per cercare tra tutti coloro che hanno un profilo in Facebook quelli che tra le informazioni del profilo stesso, le loro note, i contenuti condivisi, possono presentare qualcosa che abbia relazione con la nostra domanda di ricerca.
b) Social networking
E' l'altra grande strategia che consiste nell'approfittare dei pareri, delle indicazioni o dei punti di vista che vengono condivisi in rete da utenti esperti. Alcune modalità di operare in questa direzione sono:
- partire nella ricerca da un blog tematico (spesso funzionano da veri e propri miniportali);
- partire da un archivio open access (come a loro modo sono Slideshare per le presentazioni di Powerpoint o Scribd per paper e articoli);
- partire dai repertori di preferiti condivisi in rete (come avviene in Delicious);
- seguire alcuni opinion leader in Twitter.
Tenere presenti questi aspetti, costruire dei mix personalizzati di strategie e strumenti, sono competenze centrali che la Information Literacy mira a far acquisire. Certo, una volta risolto il problema della competenza di cercare in rete in maniera efficace restano da risolvere le altre due questioni: come selezionare le informazioni così reperite, soprattutto come certificarne l'autorevolezza. C'è spazio per altri post.
Per approfondire:
- The Information Literacy Website
- The Information Literacy Weblog
Wednesday, September 8, 2010
L'educazione di fronte alla sfida dei media
Il 9 e 10 settembre si è svolto a Brescia il raduno abituale di Scholé, convegno in cui i pedagogisti di area cattolica si incontrano per riflettere su temi rilevanti della ricerca educativa. Quest'anno il focus era il rapporto tra la scuola e le diverse formazioni sociali. Tra queste formazione uno spazio rilevante lo occupano i media che sono stati oggetto della sessione dei lavori della seconda giornata. Faccio sintesi di seguito del mio intervento (che in questi giorni è diventato anche la lezione inaugurale del corso sui Metodi di ricerca in educazione mediale che sto tenendo presso l'Università federale di Santa Catarina, nel Sud del Brasile), nel quale ho adottato come criterio organizzatore lo schema con cui l’équipe di Stanford (Ito et alii, 2010) ha deciso di mettere ordine nel suo rapporto di ricerca sul significato dei nuovi media per le giovani generazioni. Ciascuno dei quattro descrittori (participation, publics, learning, literacy), infatti, ci consente di pensare a un aspetto della sfida che i media lanciano all’educazione.
1. Participation
I media stanno modificando completamente il significato e le forme della partecipazione. La comunicazione esplode, si dilata temporalmente oltre il momento dell’interazione face to face. Ne sono complici la diffusione del telefono cellulare (che decreta la reperibilità perenne di chi ne fa uso) e la pervasività dell’instant messaging (Google Talk, MSN, Skype). La socialità si intensifica, moltiplica i suoi sforzi di attivazione, inserisce i soggetti al centro di reti che li pluricollocano. Il social network, i blog, le mille aggregazioni possibili nel web facilitano questo processo. Le opportunità di questo scenario sono evidenti: i legami si possono consolidare; si aprono spazi per la relazionalità dialogica; la consapevolezza dell’altro si allarga oltre i limiti dell’appartenenza geografica e dell’informazione ufficiale. Ma sono chiare anche le criticità che spingono a pensare in termini educativi: la partecipazione “a bassa definizione” che si accontenta di scrivere (su un forum, su un blog) per esternare il dissenso o di pagare (come nel caso di Telethon) per vivere la solidarietà; la logica delle “fedeltà parallele” (Bauman, 2010) che può celare la mancanza di impegno e consentire al soggetto di non giocarsi mai fino in fondo nelle situazioni.
2. Publics
Publics è al plurale, perché si intende fare riferimento ad almeno due idee del pubblico che il consumo di nuovi media sta trasformando in profondità. In primo luogo è lo spazio pubblico, ovvero il luogo in cui dall’Illuminismo in poi è possibile al soggetto formulare il proprio parere per sottoporlo al confronto. Le regole di accesso a questo spazio sono completamente saltate erodendone i contorni fino quasi a dissolverli. In secondo luogo è il pubblico inteso come target, come destinatario del messaggio. Anche qui l’autorialità dei media ne sta cambiando i contorni che prima lo distinguevano nettamente dall’emittente. Ogni ogni lettore è anche autore ed editore (almeno potenzialmente): basta possedere un blog, avere un account in You-tube. Anche in questo caso sono chiare le opportunità: si apre e si estende la possibilità di accesso all’informazione; sembrano crearsi le condizioni per un nuovo pluralismo, al di là delle fonti di informazione ufficiali; il lettore-autore è più attivo, più protagonista, e questo è funzionale a un incremento del suo livello di consapevolezza e di partecipazione. Per converso sono evidenti le criticità: si modifica fino quasi a scomparire il senso del privato e di cosa esso comporta; il venire meno delle mediazioni aumenta la possibilità delle trasgressioni, delle violazioni della norma; il facile protagonismo del singolo utente contribuisce alla liquidazione dell’autorità.
3. Learning/Literacy
I media modificano in profondità anche le modalità attraverso le quali i soggetti apprendono (learning) e, di conseguenza, anche quelle attraverso le quali i sistemi formativi cercano di provvederli con competenze adeguate (literacy). Il punto di partenza, in questo caso, è già quello di una distanza tradizionale tra il costrutto “scuola” e il costrutto “media”. Géneviéve Jacquinot (2000) lo ha efficacemente rappresentato parlando di un giansenismo della scuola contrapposto all’edonismo dei media. La scuola è giansenista perché: l’acquisizione del dato culturale costa fatica; è il luogo dell’impegno; i risultati arrivano solo con il tempo, dopo una lunga applicazione. I media sono invece edonisti perché: il consumo è leggero e non costa fatica; sono il luogo dell’evasione; tutto si consuma nell’immediato ed è effimero. I nuovi media aggiungono a questa dialettica un ulteriore elemento di analisi che è costituito dal progressivo allontanamento delle pratiche con cui i giovani apprendono e costruiscono significati nell’informale e quelle invece che sono invitati a sviluppare nei contesti formali. Qui risiede il problema della definizione di una Literacy adeguata. Essa deve: farsi carico del problema degli apprendimenti, ma anche degli altri (Partecipazione e pubblici sono parte integrante di una moderna educazione alla/della cittadinanza); sviluppare competenze in un contesto in cui non sono solo i media a suggerire nuove sfide e le necessità di nuove soluzioni (Multiliteracy).
Riferimenti bibliografici
Bauman, S. (2010). L’etica in un mondo di consumatori. Bari-Roma: Laterza.
Ito, M. (2010). Hanging out, Messing around, and Geeking out. Kids Living and Learning with New Media. Cambridge (Ma.): MIT Press.
Jacquinot, G. (2000). Educazione e comunicazione: lo choc delle culture. In D. Salzano (ed.), Comunicazione ed educazione. Incontro di due culture. Napoli: Isola dei ragazzi, pp. 117-129.
Tuesday, June 29, 2010
I media digitali e la formazione dei formatori
Sunday, June 20, 2010
Scuola del futuro?
Friday, May 28, 2010
Requiem nel Social Network
Ieri mi trovavo a Roma. Ero in riunione, all'Università Salesiana, nell'ambito di un'attività di peer reviewing universitaria. Un SMS mi raggiunge. E' di mio figlio. Leggo e rimango paralizzato; poi lentamente ritrovo il ritmo del respiro. Mi segnala la scomparsa di un collega e amico di tanti anni, musicista raffinato e professore di musica, con cui abbiamo condiviso tanto: l'obiezione di coscienza, i miei primi passi di educatore, l'amicizia di un fratello maggiore - il nostro Don Emilio; poi il fatto di essere colleghi, infine di gestire entrambi una responsabilità che nel sistema scolastico salesiano è quella del Consigliere.
Saturday, March 13, 2010
Il male di vivere. Una lettura educativa
Sunday, March 7, 2010
Le pratiche mediali dei giovani
Il 3 marzo scorso sono stato invitato dalla Fondazione Ambrosianeum a commentare i dati del Rapporto Città di Milano 2009. Si tratta di un rapporto che annualmente fotografa la situazione della città dal punto di vista delle tematiche che meglio concorrono a definirne le linee di crescita e gli spazi di intervento. Quest'anno il rapporto ruota interamente attorno alla condizione giovanile. A me è stato chiesto di analizzarne i risultati dal punto di vista delle pratiche sociali dei giovani, tra reale e virtuale, o meglio tra media vecchi e nuovi.