Sempre lo stesso vissuto. Scarsa voglia di partire, ansia per il viaggio, come se gli affetti ti si facessero presenti solo nel momento in cui li perdi (anche se solo per poco tempo). Una morte simbolica, come è il viaggio ogni volta. Nella terra di mezzo che sta tra partenza e arrivo, non luogo e non tempo, pensi, rifletti, la memoria si attiva. L'altra soglia ti apre il mondo nuovo. Ainda uma vez, Brasil!
Rio de Janeiro, 31 gennaio 2010
Domenica a Ipanema. L'Arpoador, quella lingua di pietra che fende il mare separando la spiaggia di Copacabana dal litorale di Ipanema e Leblon, rosseggia come sempre all'alba. Il popolo dei barraqueiros, dei coqueiros, dei mille ambulanti allestisce come ogni giorno il suo palcoscenico. Come formiche, in fila, i forzati della marcia tonica solcano il lungomare, avanti e indietro. L'ultimo lembo di terra, dopo Leblon, lascia scorgere la favela di Vidigal che si tuffa nel mare proprio sopra allo Sheraton-Rio: la sintesi di una città. Esco. Respiro l'odore della salsedine, mischiato a quello di cento creme solari, del pudim de leite, del maracujà. Attraverso il Parque do Arpoador. Dopo la messa nella Igresia da Resurreçao, guadagno la Praça General Osorio, in qualche modo il cuore di Ipanema. Agli angoli le nuove fermate del metro. Poco più avanti le cuciniere bahiane con il loro abito tradizionale, bianco, stanno preparando l'acarajè. Mi immergo nella Feira Hippy, il mercato dell'artigianato: cuoio, argento, rendas, pedras. Se sai evitare i banchi più commerciali e conosci la lingua ti si apre un mondo. Compro dei sandali. Mi cuciono il cinturino sul momento. Due americani intanto si fanno rifilare un portafoglio di cuoio a un prezzo assurdo. L'artigiano mi guarda, alza le spalle e sorride: "Gringos...". Faccio sosta al Brasilerinho: caipirinha di lime senza zucchero, carne con riso e fagioli neri, dolce di zucca e cannella. Penso a Jorge Amado, alla sua Gabriela. Torno al'Arpoador. Poso il mio bottino e sono in spiaggia. Le acque dell'Oceano non sono fredde come al solito. Riguadagno la mia camera. Sul letto penso che a una strada da qui Vinicio componeva i suoi versi. La baia rosseggia e una lama di luce taglia l'orizzonte. La gente sulla spiaggia applaude il sole per lo spettacolo. Quando i Carioca dicono che questo è il posto più bello del mondo sanno di avere ragione...
Santa Marta, 3 febbraio 2010
Il morro di Santa Marta è uno dei più verticali della città. Ti arrampichi per scale che arrivano fino in cima alla montagna, da dove hai una delle viste più belle di Rio, quasi a 360 gradi, dal Redentor, al Pao d'Açucar, alle spiagge di Copacabana e Ipanema. Santa Marta è una comunidade di circa 4000 persone. Qui è nato il traffico di droga, negli anni Settanta. Qui la Prefeitura di Rio ha iniziato il suo programma di "pacificazione" delle 41 favelas di Rio de Janeiro, una sorta di patto che consente alla polizia di riappropriarsi di un territorio che altrimenti sarebbe rimasto off-limits. Del programma fa parte anche la formazione di nuovi poliziotti, formati apposta per lavorare in questi contesti così da evitare che possano agire per vendetta o per interesse. Il risultato è che adesso tutti vengono a Santa Marta: ci era stata Madonna, con grande clamore; nella mattinata che ci sono rimasto, ho incontrato una troupe della televisione tedesca e un'altra troupe che girava una nota telenovela di Rede Globo. Alla Prefeitura fa gioco: in vista di Olimpiadi e Mondiale deve smontare l'immagine di Rio città violenta. Il problema è che Santa Marta non è un giardino zoologico e i suoi abitanti sono persone normali e non attrazioni da fiera!
Entro a Santa Marta con Dulce, Slavisa, suo marito André, Alexandre e Chico. Dulce ha lavorato al Ministero dell'Educazione Federale fino al 2002: adesso fa parte di un programma della Fondazione Roberto Marinho per l'alfabetizzazione delle fasce povere. Alexandre è un ex-poliziotto: quando ha realizzato che la sua vita poteva finire per un "tiro de um adolescente" o che avrebbe potuto lui ammazzare per sbaglio un bambino in qualche raid, si è licenziato, si è iscritto alla Facoltà di Geografia e adesso vuole entrare in favela non più per sparare, ma per aiutare la gente a realizzare i suoi sogni. Slavisa e André sono insegnanti. Straordinari! Lui musicista di origini olandesi, lei, di famiglia serba, media educator. Tengono una oficina di produzione video con un gruppo di ragazzi che si ispira ai miei lavori sulla Media Education. Chico è responsabile del Progetto Telecentros: luoghi in cui con la metodologia Paulo Freire gruppi di persone di tutte le età riprendono (o cominciano) a studiare. Ne visito uno. Fabiana, l'educatrice, è molto brava. La turma è composta di 5 allievi oggi. Vediamo un DVD sulle fonti energetiche. Si discute. L'attenzione cade sui rifiuti che sono il grande problema del morro: di difficile smaltimento, vengono buttati nei canali a cielo aperto che ne costituiscono il sistema di fognatura finendo per intasarli. "Dovrebbero venire qui a vedere, quelli della Prefeitura!". Saliamo più in alto. Nella piattaforma di una delle fermate della cremagliera che serve la comunidade registriamo una sessione di lavoro con i ragazzi dell'oficina video. Il tema è l'educazione ai media. Mi accorgo che i consumi sono gli stessi anche qui: televisione, cellulare, internet. Faccio domande. Ricevo risposte incredibili, precise, mature. Tutti sono un po' timidi, tranne Junior (intelligentissimo), Ila e Alas. Alas (con me e Ila nella foto) è il più piccolo. Ha dodici anni. Segue tutta la discussione serissimo. Alla mia domanda se le immagini sono realtà o costruzioni, Alas risponde: "Costruzioni. Perché chi sta dietro la macchina sceglie cosa riprendere e poi monta quello che vuole. Come facciamo noi...". "Parabens Alas - gli dico - Voce è muito intelligente. Gostei muito da sua risposta!". Registro una testimonianza per il video che André e Slavisa stanno realizzando insieme ai ragazzi. Dopo si va. Ila e Alas vengono a salutarmi. "Eu sou torcidor do Flamengo e voceis?". Ila ride: "Noceis também. Olhe là!" e mi mostra la bandiera del Flamengo che sventola di fianco a quella brasiliana sul tetto di una baracca. Ordem e Progresso. Alas mi abbraccia.Vado via commosso. Ho visto negli occhi di questi ragazzi la voglia di imparare, di prendersi la vita. Il Paese dovrebbe ripartire da qui, da questa risorsa umana straordinaria che è la sua vera ricchezza. Un macaco ci guarda con il suo piccolo sul dorso. Due bimbi bellissimi, per mano alla loro mamma bambina li indicano e ridono. Ringrazio Dulce, André e Slavisa. Spero che sia un inizio e non una visita-ninja, come chiamano i ragazzi del morro alcuni progetti delle ONG: ninja, perché arrivano all'improvviso e all'improvviso finiscono, senza cambiare nulla. Un altro spunto di riflessione per un Occidente che sta capendo poco, anche di quel che vuol dire aiuto e promozione dell'uomo.
Niteroi, 4 febbraio 2010
I Carioca per scherzare dicono che l'unica cosa bella di Niteroi è la vista di Rio de Janeiro. In verità la geografia pare proprio dar loro ragione. La città sorge infatti sull'altra sponda della Baia di Guanabara. La punta estrema di Niteroi, la Fortaleza de Santa Cruz, dal 1555 ha difeso da chi arrivava dal mare aperto l'ingresso via mare alla città. Ma Niteroi non ha solo la vista di Rio (peraltro meravigliosa). C'è almeno un altro motivo per farci una scappata, e cioè il "caminho de Niemayer", ovvero un asse stradale su cui si trovano le principali realizzazioni che il grande architetto fece in questa città, dall'imbarcadero dell'aliscafo per Rio al MAC, il Museo di Arte Contemporanea. Qui l'opera d'arte è il contenitore. Niemayer immagina il museo come un'astronave che sfida la forza di gravità poggiando, grazie a uno stelo di cemento armato, su un promontorio roccioso. La scelta del luogo non è casuale. Sul retro del museo, lungo il lato rivolto verso il mare, si apre una vetrata che consente allo sguardo di spaziare tutto intorno con una vista mozzafiato. Il messaggio dell'edificio è che l'arte è la fuori. E lo conferma con il ricorso agli specchi d'acqua a raso che hanno contribuito a rendere grande la fama del Maestro nel mondo . Il ponte - sempre di Niemayer - che collega Niteroi a Rio ci riporta verso Ipanema. Le piattaforme di petrolio, i cargo alla rada, le banchine del porto fanno da contrappunto all'arte e alla natura. Dall'altra parte del viadotto una delle tante scuole di samba sta facendo gli ultimi preparativi per il Carnevale. Tra sabato e domenica diversi blocos saranno già per le strade.
Rio de Janeiro, 5 febbraio 2010
Sono le 22.00. Il Canecao (uno dei santuari dello show dal vivo Carioca) è pieno. Si attende l'inizio di "Isto è Brasil", una fantasia di danza popolare brasiliana. Il maestro, insieme coreografo e protagonista, dello spettacolo è Carlinho de Jesus, uno dei grandi interpreti della danza brasiliana contemporanea. Dicono che la sua jinga - ovvero il movimento fluttuante del corpo nella danza - non abbia uguali.
Lo show è semplice, come costruzione e come messaggio. Mostrando come la danza brasiliana abbia le sue radici in quella africana e poi si contamini con altri elementi generando una varietà enorme di generi e stili (foro, frevo, samba, chorinho), Carlinho dice a tutti che "Questo è il Brasile", una terra dove le differenze non sono mai discriminate ma integrate diventando ingredienti di un mix di razze e culture senza uguali. Per dimostrare questa tesi, Carlinho ha invitato a far parte dello show Ana Botafogo, la più importante ballerina classica del Paese. Gira con lui nello spettacolo da sei anni. Il messaggio è che danza classica e popolare possono convivere: la cultura bassa è parte della cultura alta e viceversa.
La compagnia è fantastica. I corpi ammiccano, si incontrano, scivolano gli uni sugli altri: nella danza brasiliana (come in quella caraibica e nel tango) l'erotismo è fortemente presente, la sensualità è parte del gioco. Nelle figure che i ballerini disegnano sul palco come se stessero volando lo spettatore riconosce la vita e la morte, le scene di tutti i giorni, l'essenza dell'uomo, come Borges diceva del tango. Lo spettacolo si chiude nel tripudio dei presenti. La compagnia saluta il pubblico danzando l'inno brasiliano rifatto a tempo di forò. Carlinho bacia la bandiera e si batte il cuore. Dico ai miei amici Carioca che in Italia questo orgoglio del Paese e questo amore della bandiera non lo conosciamo. Flavia mi risponde: "Nem aquì! Sò acontece no palco. Ou no ano da Copa do Mundo, se a seleçao ganhar...". Rido. Il taxi mi riporta all'Arpoador. Negli occhi la jinga di Carlinho, ma anche della splendida ballerina di colore che aprirà il desfile delle scuole nel Sambodromo venerdì prossimo.
Tijuca, 6 febbraio 2010
La Tijuca è un quartiere popolare di Rio de Janeiro, collocato tra il centro della città e un morro oltre il quale si estende il nuovo quartiere della Barra, la Maiami di Rio de Janeiro, con le case dei ricchi, gli shopping più moderni, i locali alla moda. A Tijuca si trova una delle scuole di samba più tradizionali di Rio de Janeiro, la escola do Salgueiro, campione in carica dallo scorso Carnevale. Salgueiro è il nome della comunidade che di solito sempre sta dietro a una scuola di samba. E' sabato e in vista del Carnevale la scuola apre al pubblico (come ogni sabato da novembre a febbraio) una delle prove che "a bateria" fa.
Il meccanismo del Carnevale a Rio è complesso. Non è anarchia, ma ordine. Le scuole sono qualcosa di simile alle contrade senesi: ciascuna con i suoi colori, la sua academia, la sua macchina organizzativa. Lavorano un anno intero per sfilare nel Sambodromo, vicino a Central do Brasil (la stazione di Rio, ombelico del mondo e luogo di raccolta di tutte le povertà umane): in palio l'onore, ma anche tanti soldi.
Una scuola che sfila è composta di una "bateria", ovvero un gruppo (fino a 200 e più) di percussionisti coordinato dal mestre da bateria, che detta i tempi e scandisce le scelte di ritmo. Si tratta del cuore della scuola: il Samba è sostanzialmente batida, potrebbe anche fare a meno degli altri strumenti. Dietro e davanti alla bateria sfilano i gruppi di figuranti (alas) e i carri allegorici. Apre la sfilata la "reina da bateria": secondo tradizione la ballerina più bella e più brava (oggi spesso un'attrice, comunque un personaggio famoso). Le fa da contraltare il puxador: il cantante, che ha come compito quello appunto di puxar, di tirare, il gruppo.
Mentre le scuole sfilano (ogni sfilata, dal giovedì prima di Carnevale al martedì successivo) si apre attorno alle 20.30 e può terminare anche la mattina dopo) delle giurie specializzate assegnano i punteggi: tra i "criterios" ci sono i travestimenti (fantasia), la bravura dei ballerini, la precisione/coordinamento/armonia della bateria, la qualità del tema sviluppato.
Un mondo complesso, quasi una società parallela che vive e lavora un anno intero in funzione del Carnevale. Con una funzione di equilibrio sociale. Infatti, per tradizione, le scuole di samba appartengono ai quartieri poveri; spesso i padroni devono chiedere ai loro inservienti di poter sfilare; e inoltre chi balla e chi suona ha nella scuola la sua rivincita sociale, "conta", è qualcuno.
Ma negli ultimi anni la spinta degli interessi commerciali sta travolgendo tutto. Le allegorie sono sempre più care, così per sfilare occorre pagare: e quindi lo spirito popolare si va perdendo. A sfilare sono i ricchi, che "possono". I Carioca sono critici su questo sviluppo del sistema e già guardano al passato con un po' di saudade.
Mentre ero nel mezzo della academia di Salgueiro (con qualche migliaio di persone) mi guardavo intorno. Guardavo i percussionisti e i ballerini: tempi e ritmi forsennati, che non a caso sono gli stessi del candomblé e arrivano a indurre la trance. Ma anche la gente comune è letteralmente fuori di sé: c'è corpo, c'è natura. Più che la trasgressione è l'anima nera, africana, di un popolo intero che si libera. In Brasile tutto è etnografia, sempre. Un europeo può provare a capire: ma ha altri battiti dentro. Pensa di assistere a uno spettacolo: ma il Carnevale, a Rio, è ancora un rito. E' il disordine che lotta con l'ordine, è un gigantesco dispositivo sociale di disinnesco della violenza: nel pagliaccio che non può entrare in Chiesa e viene cacciato da tutti si riconosce l'ombra del capro espiatorio. Occorre tornare a rileggere René Girard, che proprio a Rio ha dato l'intervista che rappresenta la panoramica più sintetica e completa del suo pensiero.
Rio de Janeiro, 9 febbraio 2010
Il teatro Rival è uno dei luoghi classici della musica dal vivo a Rio. Nel cuore di Cinelandia (il centro della città, con il Teatro Municipal riconsegnato allo splendore di un tempo dal restauro, e la Biblioteca Nacional) ha visto passare sul suo palco tutti i grandi interpreti della musica brasiliana. Questa sera è Teresa Cristina di scena. Una delle voci più belle della nuova generazione. Fa samba de raizes, Teresa: è il samba più tradizionale e intimo che ha come maestro Paulinho da Viola. Teresa l'ho sentita la prima volta nel Club Democraticos, una sala da musica che si trova alla base della salita che porta a Santa Teresa, il quartiere degli artisti di fine Ottocento, la Montmartre di Rio. Sono passati sei anni. E' diventata famosa. La voce è sempre meravigliosa, come meravigliosi sono i suoi musicisti: tre alle percussioni, uno alla chitarra, uno al cavaquinho. Il repertorio è dei suoi: spazia dal ritmo bahiano a Paulinho e concede alla platea qualche grande classico. E' la mia despedida da Rio, il mio saluto. Torno in albergo con le parole di Paulinho nella testa: "Eu sou assim, quem gostar de mim eu sou assim...". Sembra parlare di Rio de Janeiro. Il mio volo per Madrid parte domani. Il mio pezzo di alma carioca mi aspetterà qui, da qualche parte, fino alla prossima volta che, ne sono certo, ci sarà.
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