Martedì 9 marzo ho aperto un ciclo di tre serate sul Male di vivere, organizzate da Don Enrico Radaelli, presso la parrocchia di San Zeno, a Treviglio. Don Enrico "mi ha avuto" tra i suoi ragazzi prima come direttore dell'oratorio di S. Agostino, dai sette agli undici anni, poi come parroco di San Zeno, durante la mia adolescenza. L'affetto e la stima che ho per lui e i ricordi che il tornare tra gli amici in "cascina" (il nostro oratorio era una vecchia cascina) fa tornare alla memoria mi fanno sempre accettare con piacere il suo invito.
Il tema, questa volta, è il male di vivere, quel groviglio di sensazioni e di fenomeni che a volte paiono consegnarci l'immagine di una società - e soprattutto di giovani - in crisi, una crisi irrimediabile, di senso. Il problema è capire cosa i ragazzi oggi chiedano alle agenzie formative, alla famiglia, alla scuola, all'oratorio. Ho deciso di affrontare la questione attraverso una premessa, tre sintetici quadri, e una conclusione.
1. Una premessa: non ce li meritiamo!
Il pieghevole illustrativo del ciclo di incontri riporta il punto di vista di scrittori e filosofi sulla congiuntura attuale. Salvatore Natoli parla di Internet come di "un modo per chattare a vuoto". La Mastrocola dipinge ragazzi "perennemente collegati con il vuoto e lontani da ogni relazione vera".
Rifletto su queste affermazioni e mi nascono spontanee alcune considerazioni.
Prima considerazione. Quante volte parliamo senza conoscere, costruiamo teorie senza la serietà di confrontarle con i dati, le esperienze, la vita... Ecco, l'idea che i giovani di oggi siano solipsisti, incapaci di relazioni, abbrutiti nel mondo delle chat, la può partorire solo qualcuno che non conosce nulla, né dei giovani né del mondo della Rete. Anche se scrive romanzi di successo...
Seconda considerazione. Si tratta di un gioco vecchio. Si chiama "il gioco del noi e loro". "Loro sono iperattivi, inconcludenti, superficiali, senza relazioni vere... Noi eravamo riflessivi, profondi, centrati sul nostro compito, capaci di relazioni..."
In margine a questo gioco si possono fare alcune osservazioni:
- le generazioni adulte lo hanno sempre giocato con le più giovani. Quante volte lo abbiamo sentito fare e fatto noi stessi. I nostri genitori lo giocavano con noi. E i loro genitori (i nostri nonni) con loro: "I giùen d'una olta i era 'n oter laùr...";
- questo gioco rivela la paura: la paura del nuovo (ciò che non si conosce fa sempre paura), la paura della propria responsabilità, la paura di non essere all'altezza;
- infine, addebita la propria incapacità e il proprio disagio alla "differenza" dei ragazzi. Così: "Io non sono capace" diventa: "Loro sono diversi".
Terza considerazione. Non ce li meritiamo! "Loro", i giovani, i ragazzi, sono incommensurabilmente meglio di noi e di come ce li rappresentiamo.
Ha ragione il Cardinale Martini (quanto ci manca nella fase attuale la sua voce!): "Non c'è spettacolo più deprimente che incontrare genitori ed educatori che si dolgono in continuazione dei loro ragazzi e non riescono a convincersi di possedere strumenti educativi formidabili".
2. Primo quadro: le richieste dei ragazzi alla famiglia
Le richieste dei ragazzi alla famiglia mi paiono due. Le chiedono di essere presente e di incarnare il "principio di origine" (Meirieu).
Rispondere richiede competenze genitoriali che i genitori, spesso, non hanno più.
Per i genitori essere presenti vuol dire (e qui mi faccio aiutare da Anna Mariani, che su questi temi ha scritto cose molto belle):
1) non essere "troppo-genitori". Cioè evitare sia la presenza invadente (la supergenitorialità di chi ha già fatto tutto e benissimo, frustrando l'iniziativa dei figli) che la prescrittività che impone norme rigide ed esige il riconoscimento attraverso questa imposizione;
2) non essere "non-genitori". Cioè evitare: la mancanza, il non esserci (sono non genitore se sono sempre fuori e quando ci sono mi assento); il silenzio, che passa per la delega al coniuge o la dedizione al lavoro ("Chiedi alla mamma...", "No, adesso no, devo lavorare..."); l'astensione, per non "ledere la sua libertà..." (discorso assurdo di chi scambia la par condicio per l'educazione e confonde il rispetto dell'altro con il laissez-faire);
3) non essere "iper-genitori". Cioè evitare: di proteggerli a prescindere (quando il pupo ha sempre ragione ed è l'insegnante che non lo capisce, l'allenatore che non comprende il suo talento o lo fa giocare in un ruolo non suo...); di dare loro amore (?) senza norme (quando ci si sente in colpa, perché si è spesso assenti o perché si pensa di averli danneggiati con la propria separazione, si tende a "compensare" con un ipernutrimento affettivo che, in mancanza di norme, è però assolutamente diseducativo).
E veniamo al principio d'origine. Vuol dire almeno tre cose:
1) sceglierli per la seconda volta (la prima li scegliamo quando li concepiamo, come dice Angelini, ma poi vanno scelti di nuovo, vanno creati una seconda volta);
2) essere loro di riferimento per la costruzione della loro personalità;
3) generarli non solo alla vita, ma ai valori.
3. Secondo quadro: le richieste dei ragazzi alla scuola
Sono tre: essere attuale, incarnare il "principio di verità" (Meirieu) e in-segnare. E anche in questo caso si pone il problema delle competenze, questa volta dell'insegnante...
Attualità della scuola vuol dire non dover sempre rincorrere la società. Un tempo era la scuola "avanti": oggi il rapporto si è rovesciato e la scuola sembra sempre in ritardo, continuamente superata dall'innovazione, perennemente a disagio, apparentemente impegnata in una lotta di retroguardia che non riesce a incidere sull'oggi.
Attualità della scuola vuol dire anche saper leggere le culture giovanili offrendo ad esse ospitalità nella didattica. Infine, significa adottare i linguaggi dell'oggi per costruirvi attorno un nuovo alfabetismo fatto di senso critico e responsabilità espressiva.
Incarnare il principio di verità, invece, significa anzitutto essere maestri, nel senso della relazione magistrale, cioè della capacità di mettere in forma la conoscenza del mondo in modo modellizzante. Significa anche essere testimoni, cioè incarnare uno stile di pensiero e di vita emblematico che possa servire al giovane per essere cittadino. Infine, far comprendere che la cultura consente di interpretare le cose e che questo consente di leggere in esse le tracce dell'Oltre.
Quanto all'in-segnare, occorre tornare a Platone per capire cosa comporti, a Platone che definiva l'insegnamento uno "strofinarsi di anima contro anima". Niente di più intimo e di più tremendamente importante: insieme privilegio ed enorme responsabilità. Un significato che forse si è perso con il tempo, fino a ridurre l'insegnamento a qualcosa di tecnico, a un mestiere. Se invece il senso profondo dell'in-segnare viene custodito, allora si capisce che esso ha a che fare con il formare (nel senso della Bildung, del dare-forma) e con l'esperienza della ricerca della verità fatta in comune con l'alunno. Un compito alto, un compito rilevante, un compito da non svilire e da non addormentare nella routine.
4. Terzo quadro: le richieste dei ragazzi all'oratorio.
Siamo all'oratorio. Anche in questo caso isolo due importantissime richieste che i ragazzi gli fanno oggi: la richiesta di essere accogliente e di incarnare il "principio di carità". Le competenze fanno problema anche qui, perché servono catechisti ed educatori di nuovo modello. La disponibilità e la buona volontà non bastano più...
Cosa comporta l'accoglienza?
Comporta, in primo luogo, di saper essere una casa per tutti, nella consapevolezza che la mancanza di luoghi di aggregazione per i giovani porta all'oratorio anche solo come a uno spazio di ritrovo.
Comporta di accettare l'altro senza restrizioni, senza vincoli, senza garanzie di reciprocità. Se ti amo, non ti amo a condizione di..., lo faccio senza riserve e senza aspettarmi nulla in cambio.
Ma comporta anche di essere esigenti, cioè di coniugare l'accoglienza con le regole, il rispetto, nella consapevolezza che in molti casi questo è l'unico spazio in cui viverle e praticarle per molti ragazzi. L'amore incondizionato è anche un amore esigente. Il messaggio i giovani lo capiscono e lo apprezzano.
E il principio di carità? Anche qui per punti indico tre linee di lavoro per farlo proprio:
- costruire l'oratorio come uno spazio per intercettare i bisogni e, dialogando con le istituzioni, allestire i dispositivi per soddisfarli (si pensi ai tanti esempi di "patto di comunità" che anche in Diocesi si stanno moltiplicando);
- costruire l'oratorio come uno spazio di gratuità, dove si vale per quello che si è e si impara la capacità del dono senza tornaconto;
- costruire l'oratorio come uno spazio della Grazia, cioè un luogo in cui mettersi alla ricerca della propria vocazione, del proprio posto nel mondo. Se penso al mio oratorio, posso dire che l'essere insegnanti, politici, religiosi, di molti di noi sia maturato proprio tra le sale e il cortile dell'oratorio...
5. Una conclusione
Se ripercorriamo i tre quadri che abbiamo rapidamente disegnato, riconosciamo quelle che la tradizione francescana, rifacendosi a S. Agostino, chiamava le tre primalità (esse, nosse, velle) ritenendole il riflesso di Dio nell'anima dell'uomo.
A ben vedere, famiglia, scuola e oratorio rispondo alla stessa logica:
- la famiglia, la sua generatività, è il luogo dell'essere;
- la scuola, la sua magistralità, è il luogo del conoscere;
- l'oratorio, la sua missionarietà, è il luogo della volontà e dell'amore, e cioè della scelta.
Il problema è che oggi, a volte, una delle tre (anche tutte e tre, capita) manca e questo comporta un sovraccarico nel mandato di qualcuna di esse (si chiede tutto alla scuola, si pretende che l'oratorio sopperisca).
Altro problema: a volte famiglia, scuola e oratorio lavorano disgiunti, al limite in contraddizione. Serve un coordinamento: ecco lo spazio del patto di comunità.
Infine, la deriva verso l'informale, verso l'educazione senza mediazioni, pone a rischio l'educazione vera: dipende da noi adulti fare in modo che non sia così. Educare è cosa del cuore, come diceva Don Bosco. E l'augurio, per tutti noi, genitori, insegnanti ed animatori è di poter rivolgere un giorno ai nostri ragazzi le stesse parole di Don Lorenzo Milani nel suo testamento: "Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto".
Riferimenti bibliografici
Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 2006 (quarta edizione)
Mariani, A., La scuola può fare molto ma non può fare tutto, SEI, Torino 2006
Meirieu, P., I compiti a casa, Feltrinelli, Milano 2000
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IL RISPETTO PRIMA FORMA EDUCATIVA
La politica è un punto dolente per sua esplicita ammissione, infatti non fa più proseliti né sforna nuovi eroi, rimane lì, a barcamenarsi tra spot elettorali e slogan scopiazzati qua e là.
Gli uomini al vertice, quelli a metà, gli altri alla base della piramide, sono a disagio nell’agire comune per programmare minimi obiettivi, per cui diventa miraggio la pratica condivisa nell’impegno di una buona vita, molto meglio stare in ordine sparso, in attesa, pronti al balzo.
Un microcosmo di gestualità portate di taglio per fare più male, di parole lanciate come fossero cluster bomb per esser certi di conseguire il danno importante.
Atteggiamenti che diventano comportamenti quotidiani violenti, per esser primi, per rimanere con i primi, poco conta a quale prezzo stare a galla: persino il conflitto che diviene notte tempo violenza, la stessa droga una sostanza non del tutto malaccio, il valore della persona non più bene primario.
I giovanissimi, gli adolescenti, non parlano e così non danno possibilità di parlare, sono lì a osservare, sono carta assorbente per non tralasciare niente di questa dinamica sgangherata del vociare, prendere a botte, gridare aiuto inascoltati.
Il tradimento culturale sta nel ribaltare lo stato delle cose, nel cambiare i connotati alla realtà, così i più giovani già per metà professionisti di domani, diventano armi contundenti di un pezzo di futuro che non è mai possibile ipotecare.
Una sorta di democratico rinculare nei simboli tribali, soprassedendo alle sacralità ridotte a comparsate maleodoranti, nel belare vittimistico l’equilibrio delle rendicontazioni, tra il giusto avuto e il maltolto, la dignità di un rifiuto e la vergogna di un accordo comprato.
In questo botto a perdere del consumo della notizia, dello smercio informatico, della comunicazione istantanea sguaiata, c’è il rischio di interpretare il rumore di sottofondo come un ritmo incalzante, il movimento ondivago di una crociera della mente, dentro il paradosso di un benessere apparentemente diffuso, perché portatore di sprechi incredibili: benessere non certo nei valori raggiunti e condivisi, piuttosto per traguardo economico da aggredire e acquisire.
Tutto ciò incide sulle personalità in costruzione? Su quelle più fragili? Sulle altre cosiddette formate? Forse è sufficiente osservare dove gli sguardi non sono di persone realizzate, ma di una umanità ripetutamente vinta.
Per essere portatori di una libertà che educa occorre arrischiare un passo indietro rispetto a ciò che ferocemente attualizziamo, perdendo di vista la sostanza delle cose, l’analisi, gli interventi da azionare senza ulteriori rimandi.
Un passo indietro dall’assuefazione a giudicare chi sta al passo e chi no, chi vince e chi perde, chi starà ai piani alti e chi invece nei sottoscala.
Forse c’è ancora tempo per procedere sul terreno delle nuove relazioni, nella coerenza generosa della libertà, scegliendo di non rimanere prigionieri delle stive colme di dobloni d’oro, del piccolo schermo eroe in tuta mimetica, chissà se c’è ancora spazio sufficiente per credere in qualcosa di autentico, non mercificabile, un valore che dia ancora senso alle persone, alle cose, persino alle Istituzioni: il rispetto come prima forma educativa dell’umanità.
COMPLICI E VITTIME PLAUDENTI
Sull’autostrada a giocare con la propria vita, con quella degli altri, nella frazione di un secondo più alcuna speranza. Un attraversamento folle, da non praticare neppure sotto tortura, eppure il piccolo plotone in armi virtuali, a turno decide di mandare gambe all’aria il tavolo verde, gioca e scommette contro la morte, decide di farlo con la forza ottusa dell’irresponsabilità travestita di coraggio, e quando questo accade, il più delle volte la morte passa all’incasso senza fare una piega, raccoglie il maltolto e scompare fino alla prossima occasione.
Questo giro non è stata mattanza, sull’asfalto non sono rimasti occhi reclinati di innocenti, la sorte non ha chiamato “banco solo”, i ragazzini sono tutti ritornati alle proprie case con una buona dose di pacche sulle spalle.
Sull’autostrada a scavalcare le recinzioni a difesa delle regole, a oscurare ogni luce di emergenza, a infrangere ogni comando d’arresto salvavita, questa volta è andata bene….Questa volta.
In una classe anonima del nord più attrezzato di denari e culture incrociate, s’è fatto avanti un altro gruppetto di spavaldi, di iracondi, di ometti a gambe larghe e mani in tasca, dietro il muro creato a misura dai compagni complici-vittime plaudenti: hanno afferrato una compagna, l’hanno denudata, tentando l’infamia più grande di una violenza finale.
Mentre la classe recitava la commedia, il professore incartato nelle nozioni trasmesse, il branco alle prime armi faceva man bassa di dignità e innocenza, mentre la bambina è a terra nel silenzio più colpevole.
Un paio sono stati arrestati, l’accaduto ha destato clamore, l’oltraggio su una bambina non permette attenuanti, la strategia assunta per lacerare il cuore e la carne, troppo plateale per essere scambiata per una ragazzata.
Bullismo, violenza, indifferenza, in questi giorni ho avuto modo di ascoltare tante voci sottolineare che si parla “troppo” di bullismo, che forse non è vero che sia un fenomeno esteso, un atteggiamento aggressivo che da statistica è diventato dato esponenziale.
Ho sentito adulti, padri, madri, educatori, affermare che forse non è intelligente discutere di vittime e carnefici nelle scuole, negli oratori, nelle strade, perché da noi non accade, da noi non ci sono bulli, da noi non c’è disprezzo delle regole, da noi è ben compreso e condiviso il valore del rispetto per le persone e per le cose…..
Ma non ho sentito parlare di quegli adolescenti che invece dietro l’angolo fumano e calano giù, girano con il serramanico, sballano e menano, fuori dalle regole che invece sono tutela e garanzia per non soccombere ai singhiozzi che verranno.
“La mia scuola è esente da questi problemi, la mia famiglia è pulita, noi non facciamo uso di droga, né abbiamo prossimità con la violenza”, dentro un paese piagato dall’ingiustizia, dalla prepotenza, dalla arroganza, per questo incapace di valorizzare ciò che è bene, incapace di farlo con il tono autorevole che gli compete.
Come per chi abita la cattedra del colpevole, senza facili assoluzioni, è stato importante rivedere il proprio passato, ritornare a ciò che è stato, rielaborando ogni trascorso, ancor di più è necessario farlo ora, per esser di aiuto davvero ai più giovani, ponendo termine a questo suicidio collettivo, quanto meno per non essere ancora una volta complici nel silenzio.
GIUSTIZIA CHE TRASFORMA
Tra gli appunti sparsi disordinatamente sulla scrivania ho ritrovato un mio vecchio articolo sulla Giustizia e sul Carcere, facce della stessa medaglia che dovrebbero trasformare al cambiamento di mentalità il colpevole e rendere migliore l’intera società.
Le parole su questa pagina ingiallita dagli anni trascorsi, possono ancora essere utili per pensare a quanti vivono nella marginalità, emarginando gli altri, e così facendo si crea una vera “giustizia ingiusta”, che poggia le fondamenta su due basi: il mancato riconoscimento dei diritti altrui, e il fatto di confondere ottusamente l’omertà con la solidarietà.
Due atteggiamenti di comodo, dettati da una necessità di sopravvivenza che però si maschera da “giustizia sociale”.
Quando si sta ai margini, ogni situazione, ogni limite e distanza, sono usate per giustificare le proprie azioni, la colpa è sempre degli altri che non ascoltano, non aiutano, rimangono indifferenti, eppure anche se povertà e solitudini creano ingiustizie, non sono sufficienti ad assolvere alcuno dalle proprie responsabilità.
Quale giustizia e quale pena possono arginare l’illegalità diffusa, la furbizia assunta a valore, la violenza cresciuta professionalmente ed economicamente, se il carcere continua a essere il luogo nel quale più di ogni altro si genera e si rigenera l’esclusione. Sebbene nel suo perimetro chiuso non ci siano eroi, ma unicamente uomini sconfitti, la pratica diventa metodo consolidato, si muore attaccati a una corda, si muore inascoltati da una giustizia che momentaneamente è nella posizione di non potere vedere le sue tante ingiustizie.
Forse bisogna di immaginare una giustizia diversa, finalmente condivisa, che non si risolva in una condanna e in una pena meramente da scontare, un debito da pagare senza alcuna consapevolezza di quanto sia difficile tentare una possibile riparazione, partecipando attivamente affinchè il carcere recuperi davvero alla società: e ciò potrà avverarsi quando esso stesso sarà recuperato dal consorzio civile.
Per un detenuto, per un operatore, per una società che è comunque e sempre coinvolta nella sua opera di risanamento, dovrebbe significare che il tempo non sia un tragitto che scivola addosso, con poca importanza e nessuna dignità.
C’è necessità di partecipare a una buona Giustizia, a un carcere davvero utile, che non renda oltremodo inumana la disumanità. Su questi pilastri della convivenza civile non è sufficiente dire la propria usando toni aspri, dialettiche violente, forse occorrerà partecipare con la forza delle idee, con atteggiamenti che non banalizzano un problema che sta minando la percezione di equità e compassione.
La Giustizia è dimensione che ha bisogno di buona volontà per migliorare le cose e le persone, anche dentro una cella, ma per non concorrere a una civiltà che muore, non dobbiamo accontentarci di avere dei numeri, degli oggetti ingombranti, ma uomini da aiutare per diventare a propria volta perni su cui fare girare tanti altri in difficoltà.
Parlare di ciò è anche un po’ il pane del perdono, quel segno tangibile di una riconciliazione, un senso ritrovato nell’onore riconquistato, un pane e una dignità meritati sul campo, sul terreno fertile di una giustizia e di una pena a misura di uomo.
ATTRAVERSO IL SUDORE DELLA SOLIDARIETA’
Perché il carcere dovrebbe parlare il linguaggio dello sport? Perché questi due mondi apparentemente distanti dovrebbero accorciare le distanze per consentire a chi sta male di stare un po’ meglio?
Ricordando di avere fatto parte di un gruppo teatrale carcerario, mi viene in mente il testo teatrale “Il Maratoneta”, un’autoscrittura che prendeva il via dall’opera originale di Alan Sillitoe: La solitudine del maratoneta.
Un testo aspro, una ricognizione autentica del proprio vissuto, una maratona interpretata fino alla fine con il cuore in gola, tutta dentro una scelta dura come pietra che dura, un faccia a faccia attraverso il riesame intero del proprio passato, un mutamento interiore senza somme da detrarre, una nuova condotta sociale priva di una comoda ultima fila a nascondersi.
La corsa, la maratona, le gambe, le braccia, i muscoli tesi al parossismo, la fatica, il dolore, il sudore, la voglia di mollare, di dare una fine alla sofferenza, e poi ancora l’espulsione delle tossine, il benessere di una scelta di libertà, il desiderio di arrivare, di farcela, di non rimanere nuovamente a terra, di soccombere alla didascalia della prigione, dove non esistono uomini vincenti, ma soltanto uomini sconfitti.
A volte lo sport entra in carcere esclusivamente per intrattenere e divertire, come unico obiettivo il gioco, eppure il detenuto corre e suda da quel ”dentro”, che è il frutto di un “fuori”, che non può essere dissolto solo perché segregato e nascosto.
Nella differenza che diventa la forza e la magia dello sport in carcere, e si manifesta nel carico di “energie” che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione, forzatamente compresso e coattato.
E’ possibile servire reciprocamente allo sport, in quanto portatori di una umanità modificata dalla restrizione, che ricerca ed esalta le differenze, esprimendo, attraverso il lavoro della fatica una potenza anche maggiore.
Quella incredibile espulsione delle tossine offre un doppio sostegno a chi è in una cella a scontare la propria pena, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e spinge alla cooperazione, alla solidarietà, allo scambio con gli altri.
La memoria e il dialogo sono tra i pochi mezzi efficaci per resistere alla quotidiana e progressiva corrosione di sé.
Il sacrificio, il sudore della solidarietà, migliora gli uomini e la dimensione in cui vivono, operando con modalità opposte dove è contenuta, collettive anziché individualizzatrici, coinvolgenti anziché segreganti, portatrici di arricchimento affettivo e artistico, anziché di coazione a ripetere.
Fare sport in carcere non vuol dire creare false illusioni, l’uso di fantasticherie e sogni per evadere in altri spazi e in altri tempi, o in altri corpi, ma port per crescere, un gioco liberamente vissuto, con la mente e con il corpo, un nuovo linguaggio, socialmente accettato, adeguato, reso produttivo e creativo.
Per stabilire dei legami che ti fanno sentire finalmente accettato, per entrare in contatto con gli altri, edificando relazioni importanti, per smetterla di rimanere muti, obbligando gli altri a non parlare.
GIUSTO FRA I GIUSTI
Ho accompagnato Padre Pier Sandro Vanzan, grande amico della Comunità Casa del Giovane, giornalista e scrittore della Civiltà Cattolica, e relatore del Convegno in memoria di Giovanni Palatucci, nell’aula magna della Questura di Pavia.
Ha iniziato il suo intervento definendo Palatucci eroe umile, servo di Dio come la sua fede, un grande poliziotto non per stazza fisica, ma per quell’amore autorevole che ha saputo incarnare e profondere, uno di quei personaggi che sanno smuovere le coscienze, esempio di grande impatto umano, che non è possibile fare a meno di ammirare e sperare di emulare anche solo di rimbalzo.
Un funzionario dello Stato che non si è celato dietro le leggi, le sanzioni, quelle leggi antisemite che in tanti fecero rispettare, ma che egli invece sfidò, le mise di lato clamorosamente, rischiando in prima persona, aiutando gli indifesi, quegli ebrei ridotti a cose, non più parte di alcuna umanità, neppure quella più derelitta e sconfitta.
“Ci tengono dietro le scrivanie, invece di mandarci in mezzo alla gente “: denunciare pubblicamente questa disfunzione bastò per esser punito e spedito al confino a Fiume, ma non riuscirono a placcarlo, fece tutto ciò che solo i miracoli possono fare.
Morì a Dachau di umiliazioni, di stenti, di tifo, ma non sono le medaglie che ha ricevuto in seguito a farne il famoso Questore buono, bensì l’esser stato testimone attivo della speranza, proprio come sta in quel motto che contraddistingue chi serve in Polizia, vicini alla gente, tra la gente, con la gente.
Palatucci bandiera di dignità, di fiducia, nonostante le contraddizioni delle leggi, Palatucci dilacerato da quelle leggi che andavano violate, disattese, perché profondamente sbagliate, proteso a salvare quanti più cittadini in disgrazia, di ebrei e futuri deportati, uomini nati liberi e privati ingiustamente della propria libertà.
Cinquemila uomini trasse in salvo, esseri umani destinati al macero, facendoli fuggire su navi greche, dirottandoli con documenti falsi, nascondendoli dallo zio Vescovo, dove l’accoglienza si fece salvezza.
Quale spirito scavava al fondo della sua anima, muoveva i passi della sua missione, forse occorre chiederlo a quanti ha salvato per comprenderne il furore di Giustizia, ben sapendo che solo colui che è lassù sopra di noi, è nella posizione di salvare chicchessia, ma forse Palatucci ha avuto dal suo “Capo”, l’autorizzazione a farsi uscita di emergenza.
Non andavano da lui, era lui che andava a cercare quegli uomini, quelle donne, quei bambini, in procinto di varcare i cancelli della morte nei campi di stermino, quando non erano neppure più numeri da apporre alla fossa.
In ebraico il titolo di giusto tra le nazioni di Israele, significa santo, sono 417 i giusti degli ebrei, ognuno per lo meno con una azione eroica al suo attivo: Palatucci fu eroe tutti i giorni, nei gesti quotidiani ripetuti, nel rispetto della sua fede, oltre la legge degli uomini, un esempio da portare a mano nelle scuole, nella vita di ciascuno.
La Shoà, un dramma che si sta studiando ancora per il bisogno di riappacifare, riconciliare, metabolizzare per non negare l’inaccettabile, bisogna ricordarlo e bisogna guardare a “Palatucci giusto fra i giusti, perché davvero pochi lo furono veramente, molti furono complici”.
Vincenzo Andraous
Responsabile Centro Servizi Interni
Comunità Casa del Giovane
Pavia 11-3-2010
IL TIRAPUGNI DEL BULLO
Un fermo di routine della Polizia di Stato ha consentito il ritrovamento di un tirapugni sull’auto di un ragazzo da poco diventato diciottenne, un tirapugni per incontrarsi dietro l’angolo. Forse non è il caso di farne un dramma, di esagerare con le parole, di mischiare quel che è successo con ciò che non è possibile prevedere, ma la mia esperienza, unita a quella di tanti altri ragazzi che faticando, lavorando, impegnandosi, ritornano a vivere nella Comunità Casa del Giovane, mi spingono a pensarla diversamente, a tenere ben presente il rischio che possa accadere l’irreparabile, ciò che nessun padre e nessuna madre vorrebbero succedesse al proprio figlio, cìò che un adolescente non riesce neppure a immaginare, la vita a perdere di qualcuno, la propria esistenza gettata in pasto a una cella lontana dalla propria famiglia.
Troppe sono le storie anonime che mi rammentano come nasce una tragedia, un dolore insopportabile, accade sempre così, con una sciocchezza autorizzata a passare inosservata, poi è troppo tardi per tentare di rimettere insieme i cocci.
Rammento una pietra raccolta in gran fretta, il mito della forza, la prevaricazione, la violenza al palo, in attesa, pronta a fare il suo “dovere”, alla prima occasione, con tutto il carico di disperazione che ne è seguita.
Un tirapugni come quello che nei film sta nelle tasche dello studente nero americano, dentro e fuori la scuola, un simbolo, un totem, un colore acceso per riconoscere la riserva, dove agli altri non è permesso entrare, osservare, vedere, mentre a chi partecipa al banchetto “tutto è condiviso”, tutto, anche la follia inaspettata, quella che non risparmia nessuno.
Una cosa da poco quel tirapugni, un bravo ragazzo incappato in una bravata, ma l’avventura del salto in avanti a occhi bendati, comincia sempre così, con la paura di vivere a soli diciotto anni, dove “ vivere” sta nell’esibizione della forza che fa sparire qualunque inadeguatezza.
E’ fin troppo chiaro il segnale, la luce rossa d’emergenza, il fermo e il blocco che costringe a una paralisi culturale che si espande, come se la stessa ricerca evolutiva del giovane adulto fosse un optional di cui poter fare a meno, mentre si è liberi soltanto dopo avere ben rovistato nella nostra testa, nella nostra pancia, per liberarci della nostra incultura, illegalità, che generano indifferenza e disattenzione per i nostri limiti.
Riflettendo su quel metallo intorno alle dita di una mano, in attesa di infrangersi sui denti di un coetaneo, possiamo renderci conto di quanto male faccia togliere ai più giovani la necessità di un impegno che obbligatoriamente deve consegnare fatica da fare per inquadrare un obiettivo compatibile con il carattere individuale di un adolescente, che sarà bene ricordare, non è un bene di consumo da bypassare costantemente.
Adesso bisogna allontanare la nebbia della confusione adulta, che genera e moltiplica uno stile comportamentale sbilanciato sull’ottenimento del tutto e subito, piuttosto che attraverso il rispetto per se stessi e per gli altri, che è autorevolezza, non certo violenza come pratica quotidiana, che conduce dritti al vicolo cieco, dove è molto facile entrare, quasi impossibile uscire.
E’ LA DROGA IL MAGGIORE DISTRUTTORE DI IDENTITA’
Non si parla più di droga, del suo consumo sempre più smodato, degli innumerevoli utenti al fior di latte, degli altri dal folto pelo sullo stomaco.
Non se ne parla e basta, e se proprio siamo obbligati dal chiacchiericcio, lo facciamo quando qualcuno ci lascia le pelle, oppure quando un personaggio assai famoso, confessa di farne uso per i motivi più disparati, mentre si tratta unicamente di un consumo disperato che diventa disperante.
Se ne parla per “colpa” di qualche famoso che dialoga spesso agli altri, quasi mai a se stesso, oppure per qualche sfigato che rimane a terra, esalando un rantolo che somiglia a un crack, siamo bravissimi ad arrabbiarci, scandalizzarci, quando riteniamo sorprendente il comportamento di un nostro “eroe”, ma sul problema vero dell’uso e abuso, della accessibilità ad ogni angolo di strada, facciamo come gli struzzi, e affermiamo di non conoscerne il dramma, mentre ognuno di noi, adulti-genitori-educatori, potrebbe scrivere un trattato sul pericolo che ne deriva e affonda gli artigli sulla carne dei nostri figli.
Drogarsi è reato, ma dentro una corresponsabilità collettiva, per fare comprendere che tutte le droghe fanno male, approcciamo una comunicazione tanto urgente e delicata, con la domanda: cosa bisogna dire e cosa fa più paura a un giovane?
Trattare la questione droga equivale a parlare di morte del cuore, della testa, dei polmoni, della sparizione vera e propria di intere generazioni. E’ incredibile come all’abitudine del “calare giù” normale e in bella mostra, al consumo in grande quantità, dalla discoteca alla festa in casa, dall’oratorio all’ufficio, dal fine settimana vissuto da leoni, non siamo preoccupati da questa vita piegata dal disprezzo della morte, dove permane la convinzione di riuscire a esorcizzarla, come se la paura fosse un misero espediente per rimuovere l’angoscia d’impotenza, attraverso la cultura d’evasione, che produce atteggiamenti nullificanti..
Non è con la ricerca di parole che spaventano, il terrorismo dialettico, l’imposizione della filippica nazional popolare, che sarà possibile mettere mano all’inquietudine dei giovani, alla loro fragilità quotidiana. Occorre ridurre il rischio di incappare nelle etiche e morali d’accatto, che durano una trasmissione, un incontro e una convention ben pagata, forse è necessario dare di più e parlare di meno, fare di più per quelle comunità di recupero sul campo da decenni a combattere, a resistere, a consegnare strumenti di aiuto verso chi è imbavagliato dall’inganno delle droghe tutte.
Forse è il caso di dare sembianza e storia alla morte, alle troppe morti che ci portiamo dentro, che abbiamo intorno, forse occorre raccontare la nostra storia personale, quella rapinata di ogni dignità a causa della roba, la nostra storia personale di sconfitti-sopravvissuti-miracolati dalle mani tese, spesso sconosciute, che ci sono venute incontro.
Non è più tempo di elargire ulteriori fragilità, ma di affermare che la droga non lenisce la depressione, rimane il maggiore distruttore di persone, di identità, conduce dalla malattia al suicidio, e quando l’inganno è nudo, c’è la morte ad attendere al varco, e la morte fa sempre paura, soprattutto a chi pensa di non averne.
LIBERTA’ NON E’ UNO SPAZIO LIBERO
Ancora uomini a morire, ancora giovani a cadere, numeri che si accatastano in una fossa comune, dove la somma dei cadaveri non crea che qualche fastidio passeggero, usato per non concedere spazio alla pietà.
In carcere si muore, è una continua discesa all’inferno, forse non è più praticabile alcuna osservazione e trattamento del recluso, alcun progetto di ricostruzione interiore, se non fosse per l’eroicità di qualche Direttore, Agente, Operatore penitenziario.
Mi tornano in mente le parole di un grande poeta: la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.
Come è possibile trattare di libertà, di dignità, di diritti e di doveri, in un perimetro relegato a discarica delle speranze, a contenitore muto di invivibilità, come è possibile parlarne quando ogni giorno dal carcere arrivano grida di aiuto e imprecazioni inascoltate.
Libertà è partecipazione persino dentro la terra di nessuno, dentro la colpa che non è ancora consentito arretrare, così cantava il Gaber nazionale, e in questo presente di spot elettorali, c’è da svolgere una riflessione, un compito che possiede una sua obbligatorietà; se davvero intendiamo il carcere e la pena e le Istituzioni che ne compongono il senso e lo scopo per una effettiva utilità sociale, un progetto di vita futuro non solo per i detenuti, ma per la collettività intera.
Non è possibile aggirare il problema insito in quel “libertà è partecipazione”, non è più plausibile trattare la questione in termini prettamente matematici, di contenitore, di numeri, di somme disumane, di detrazioni inumane.
Partecipare significa prendere parte a qualcosa, perchè ne siamo diventati parte, costruire un ponte comune su cui camminare insieme, svolgere un tragitto insieme, fare un pezzo di strada insieme.
Partecipare sottende capacità di vista prospettica da parte di chi conduce, ma anche di chi intende ricostruire ciò che rimane, partecipare è lo spirito, è il propulsore di quel percorso di rinnovamento che realizza un giusto equilibrio tra diritti e doveri nei riguardi di chi sconta con dignità ( diritto ) la propria pena, e rispetta con lealtà quel patto sociale ( dovere ) intrapreso con il consorzio civile.
Libertà non è solo uno spazio libero che aiuta a uscire dall’angolo costretto dei nascondimenti, il carcere non è perimetro che sarà mai libero, non è facile pensare a una collettività senza più prigioni, filo spinato, ma abbandonare gli errori divenuti analfabetizzanti, questo sì che è possibile.
Carcere e partecipazione per rendere meno offensiva la disperazione, quella che deriva dalle morti inaccettabili, ma ugualmente nel menefreghismo meglio congeniato, continuano a imperversare nel panorama penitenziario italiano.
Nonostante parlarne appaia sempre più come la ricerca di una elemosina pietistica, di una solidarietà buonista, è utile ostinarsi a farne dibattito, con l’intensità di una partecipazione attenta, accorciando le distanze da un preciso interesse collettivo, rimettere al centro di una riforma urgente e improrogabile, la persona, il detenuto-cittadino, che dovrà fare ritorno in società, a cui consentire di rimettere alla prova la propria prossimità umana, la propria coscienza della libertà.
NEL FORTINO DELLE ILLUSIONI
Tanti anni sono trascorsi dal mio arrivo nella Comunità Casa del Giovane, ho conosciuto tanti ragazzi, nei sorrisi nascondevano il dolore delle assenze, delle rinunce, delle illusioni già morte, ragazzi e ragazze che pur nel silenzio della sofferenza mantengono una loro dignità, nonostante ciò che li colpisce a tradimento, gettandoli impreparati nella devastazione dell’assunzione delle sostanze, tutte le droghe, nessuna esclusa.
Ragazze violentate, ragazzi perduti, giovani dentro una guerra che non è mai stata loro, né lo sarà mai, giovani inascoltati, mal accolti, persino da Dio troppe volte inteso così lontano e remoto, una storia che ci portiamo appresso come un peso quotidiano, adolescenti che drammaticamente stramazzano davanti a noi, eppure rimaniamo incollati alla nostra vocazione di cattivi maestri, di educatori presuntuosamente inventati, obbligandoli alle nostre spalle, senza possibilità di vedere il grande bluff.
Pensiamo a questi ragazzi come plotoni allineati in un perimetro tutto loro, non riusciamo neppure a impegnare tempo a sufficienza per comprendere la loro capacità di sentirsi parte di qualcosa, di qualcuno: più noi rimarremo alla finestra a guardare, più loro si sentiranno parte di una fortezza a loro misura, a tal punto da ritenersi l’unica guarnigione preparata affinché il “fortino delle illusioni “ non abbia a cadere in mani nemiche.
Occorre parlare ai più giovani, con i loro mondi provocatoriamente chiusi in scatole cinesi, nei miti e nei simboli che tramandano desideri tribali, e uccidono le stesse emozioni, travisando il bisogno di non subordinare mai le passioni alle regole, truccando lo scontro culturale e intimo della trasgressione, per andare rovinosamente a sbattere nella “cultura” dei rischi più estremi.
E’ sempre utile stare ad ascoltare quelli che guardano alla vita con occhi smarriti nel tentativo di viverla, e con quegli altri che nella follia lucida tentano di dominarla, inconsapevoli di esserne diventati miseramente schiavi.
C’è anche il rischio di insegnare dal pulpito, dalla cattedra, di dire agli altri quel che non siamo capaci di ascoltare di noi stessi, possiamo travestirci da duri o da vittime, passare sopra a qualche rimorso, trucidare le speranze e i sogni di quanti più deboli e indifesi, ma è un errore non pensare ai dazi da pagare dopo, perché dopo, i dazi si dovranno pagare fino all’ultima notte più buia, dove non ci saranno mani tese né pacche sulle spalle ad attenderci.
Adolescenti indiani bianchi, riuniti in tribù, e sbrigativamente licenziamo una diversità che è importante, vite differenti, stili esistenziali diversi, ruoli sociali definiti e da declinare con qualche probabilità. Può significare un’evoluzione che porta a riconoscersi nell’altro, non nella somma banale altro-io (dato fisico), bensì come attrazione e amore per l’unità ontologica originaria umana, che è vita insieme, quel noi ( dato sostanziale ) non semplicemente interrelazione tra persone, ma percezione della similarietà umana, condivisione, accettazione, solidarietà.
E’ necessario afferrare quel filo di Arianna che è la memoria, e ricordare le cadute per raccontare ciò che si è imparato, come ha saputo fare David Maria Turoldo: guerra è appena il male in superficie, il grande male è prima, il grande male è l’amore per il nulla.
NORMALI EVENTI CRITICI
Bulli, droga, adolescenti in affanno e adulti in preda al panico, comunicazione balbuziente e mala gestione dei conflitti che degenerano, insomma un effetto trascinamento che non assolve nessuno, anzi crea le basi per sempre nuove drammaticità.
Siamo abituati a vedere e pensare agli effetti causati dalla droga, quella dei composti chimici, dei derivati, delle sostanze dai nomi bizzarri, e non ci accorgiamo di quanto sta accadendo e sbancando alle fondamenta la nostra società di primi della classe.
Forse è il momento di affermare che l’alcol è una droga proprio come qualsiasi altra consorella, colpisce la mente, il cuore e il corpo, come ogni maledetta sostanza.
Alle fermate degli autobus, al pub, in discoteca, stanno con la bottiglia in mano, con lo spinello in bocca, con la bustina negli slip, senza bisogno di coprirsi il volto, gli occhi arrossati, c’è libertà di mostrare quel che non si è, c’è libero suicidio e c’è libero omicidio, insomma c’è libertà come una prostituta.
E’ una rappresentazione teatrale in cui gli attori recitano senza copione, il “regista” di turno non fa caso a questo andazzo collettivo, quando è un po’ allarmato, mette qualche paletto, regola, norma, così gli attori diventati improvvisamente bambini, perdono il controllo, bicchieri adolescenti e bottiglie adulte si scambiano di posto, ognuno veste i panni dell’altro, nessuno è capace di consigliare l’altro, quanto meno di accompagnarlo a casa, se non proprio al sicuro.
L’alcol non è considerato alla stregua di una vera e propria droga, non c’è consapevolezza dei guasti fisici e psichici che procura, delle scomparse numerose provocate dal suo uso e abuso, eppure si tratta di un problema urgente da prendere di petto, non solamente attraverso la solita cartellonistica virtuale, una sorta di pizzo da pagare al suo consumo, al suo commercio, alla sua vendita pressoché smisurata.
La droga-alcol non si limita a consumare fino alle ossa le persone, nelle comunità terapeutiche piene di utenti alcolisti, nelle carceri stracolme di persone da doppia diagnosi, dalla devastazione psichica, alle depressioni dirompenti, ci sono i riscontri di questa vera e propria piaga sociale.
Abbiamo cultura del rischio insito nella droga, ne abbiamo molto meno delle bevande alcoliche, slogan e coretti da stadio esaltano il buon vino, la buona birra, intrugli e altre composizioni, come a dire “ bere e campare cent’anni”.
E’ sufficiente varcare i cancelli di una comunità terapeutica, dedicare una visita agli spazi e i corridoi della Casa del Giovane ( per questo motivo insisto a dire che è importante continuare a invitare le scuole, dalle elementari, alle superiori, alle università ), per renderci conto di quale nemico stiamo parlando, di quale killer stiamo discutendo, a quale macabro gioco al massacro stiamo assistendo.
Forse è giunto il momento di ritrovare un possibile equilibrio, cominciando da una corretta comunicazione, che non faccia abituare alle “circostanze critiche, agli eventi critici” declinazioni criptate, di non facile lettura, per non allarmare troppo l’opinione pubblica quando un giovanissimo entra in coma etilico oppure ci ha abbandonati per sempre.
Complimenti per la foto, una delle migliori di Ugo Mulas se non ricordo male. Sto scrivendo un blog, tentando di concludere il Master in informatica per la storia medievale, perché vorrei poter entro dicembre completare la ricerca costituendo un profilo sulla pagina e lo schema - una sorta di estetica della pagina - che rappresenti o possa interagire con scopi didattici, comunicativi, interattivi: dunque l'informatica, in verità, al servizio delle scienze umane toucourt sulla soglia delle Norton Lectures, delle Sei passeggiate nei boschi narrativi di Eco.
Avevo l'impressione di aver visto da qualche altra parte, forse su facebook il volto che ho visto nella foto, vorrei permettermi dunque di fare una conversazione, se possibile, su come l'informatica possa dare davvero contributi al laboratorio immenso della storia dell'arte e se possibile collaborare costruttivamente con chi ha fiducia nella progettualità densa delle discipline storiche.
Ti ringrazio della tua cortese attenzione e a presto.
Tania L. Gobbett
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