La mente, l’occhio e il cuore
Venerdì
30 marzo mi trovavo ad Acireale, presso il Centro di Cultura dell’Università
Cattolica, per l’ultimo modulo di un corso di formazione per insegnanti sull’uso
dei media digitali nella didattica. Quello stesso giorno il Di.S.A.L., l’associazione
dei Dirigenti delle Scuole Autonome e Libere, mi ha chiesto una relazione al loro
convegno annuale. Non potevo bilocarmi tra Acireale e Montecatini, sede del
convegno. Skype ha fatto il suo dovere. Restituisco di seguito lo schema del
mio intervento il cui titolo - La mente,
l’occhio e il cuore: nuove tecnologie, nuova educazione? – mi è parso
particolarmente sfidante, tanto da farne la traccia stessa della mia
riflessione. Il file audio contenente l’intera relazione è disponibile in Podomatic.
1. La mente
Il
profilo cognitivo (il brainframe, per dirla con de Kerkhove) che le nuove
tecnologie contribuiscono a costruire è quello di:
-
una mente incarnata (embodied
cognition): il primato della dimensione tattile (nelle interfaccia) e
l’esternalizzazione della scena cognitiva sugli schermi concorre a definire il
lavoro cognitivo come lavoro sugli oggetti;
-
una mente distribuita: la policronia
(cioè la possibilità di vivere più tempi nello stesso tempo) e un ordine
dell’attenzione periferico (perché impegnato a non perdere d’occhio nessuno dei
frame aperti sulla propria scrivania) eleggono la velocità a propria cifra
distintiva. Ne consegue che il pensiero abilitato dalle tecnologie è un
pensiero breve;
-
una mente multiliteracy. Le nuove
tecnologie chiedono al soggetto la competenza di saper usare linguaggi diversi,
propri dei singoli sistemi espressivi, e formati mediali diversi. Il risultato
è quello che Jenkins chiama navigazione transmediale e che si traduce in
un’estensione delle competenze alfabetiche (secondo l’indicazione del New
London Group).
2. L’occhio
La
cultura occidentale ha sempre evidenziato uno stretto rapporto tra il vedere e
il sapere: per i Greci se ho visto, so. Quindi, riflettere sull’articolazione
dello sguardo neomediale significa comprendere qualcosa in più su come con i
nuovi media si pensa e si apprende. Lo sguardo neomediale è:
-
uno sguardo incorniciato. La
metafora della finestra (del menu, del frame), come criterio di organizzazione
di quanto è visibile sui nostri schermi suggerisce il significato di questa
prima caratteristica dello sguardo neomediale. È uno sguardo parziale, che
necessita sempre di essere contestualizzato, che vive spesso del rimando, che
ha bisogno di essere collocato (come quando si naviga tra le pagine del Web);
-
uno sguardo iper-reale. La realtà
che attraverso i nuovi media si può esperire è una realtà aumentata, una realtà
spesso più reale di quella reale, nella misura in cui lo sguardo è più
ravvicinato rispetto alle cose di quello che il nostro sguardo naturale
potrebbe essere. Lo sperimentiamo con la funzione “zoom” di qualsiasi
applicazione, o con le applicazioni di Augmented
Reality disponibili ormai sui nostri telefonini;
-
uno sguardo mobile. Il nostro tempo,
anche grazie ai media che lo caratterizzano, ha sostituito l’ordine della
visione moderno con un altro ordine della visione. Quello era ben rappresentato
dalla prospettiva: lo spazio prospettico assegnava un posto all’osservatore che
vedeva quel che poteva vedere. Oggi la moltiplicazione degli schermi e delle
cornici dentro gli schermi comporta che sia l’osservatore ad assegnare un posto
a questi schermi e a queste cornici, con il risultato che si vede quel che si
vuole vedere.
3. Il cuore
Quest’ultima
istanza, quest’ultima dimensione, ha a che fare soprattutto con tutto ciò che
rende i nuovi media non solo degli artefatti cognitivi, o dei dispositivi della
visione, ma anche delle macchine sociali (Scanagatta, Segatto, 2009). Sono
ancora una volta tre le dimensioni che meritano di essere evidenziate:
- la
relazionalità. I nuovi media sono un
tessuto connettivo, sono la “pelle della cultura” (de Kerkhove), sono spazio e
occasione di una scrittura emotiva, non esternalizzano soltanto la mente ma
anche l’intimità. I nuovi media sono fatici, consentono il contatto, danno
ragione a McLuhan quando scriveva che il medium è il massaggio. Richiedono una
grammatica e una sintassi degli affetti;
- la
socialità. Bauman qualche anno fa
scriveva un libro intitolato Voglia di
comunità. La dimensione sociale della scena neomediale materializza questa
istanza mettendo in relazione (spesso sovrapponendoli) il pubblico e il
privato, l’interno e l’esterno;
- la
partecipazione. Consentendo di
accedere al globale dal locale i nuovi media (in particolare i blog, Twitter, gli aggregatori di feed)
estendono le possibilità partecipative delle persone, consentono di essere
informati su ciò che accade anche molto lontano da noi “prendendo parte” alle
vicende, alle cause umanitarie, ai movimenti politici. Anche se poi il rischio
è che questa partecipazione rimanga a “bassa definizione”, prenda corpo
esclusivamente nel tag: “Mi piace, non mi piace”.
Dal
punto di vista dell’educazione sarebbe facile ripercorrere i punti che abbiamo
sinteticamente fissato per far vedere di ciascuno opportunità e criticità. Cosa
si chiede all’educatore, all’insegnante, per massimizzare le une e ridurre
l’impatto delle altre? Sinteticamente, direi:
1)
superare la tentazione dell’arrocco.
Sentendosi sotto attacco, percependo che l’accettazione della sfida del nuovo
gli comporterebbe troppa fatica, l’insegnante si mette spesso sulla difensiva,
con due argomenti principalmente: “Sono diversi da noi, non sanno più
ragionare, non sanno più leggere, non sanno più andare in profondità sulle
cose!”; “La Cultura è altro rispetto alle futilità dei media e la scuola deve
continuare ad essere lo spazio della Cultura!”. Si tratta di atteggiamenti che
non pagano, perché non risolvono il problema ma lo cristallizzano;
2) cambiare la punteggiatura. Se nella
situazione canonica dell’insegnamento tradizionalmente inteso quel che si
percepisce è la difficoltà dei ragazzi ad apprendere, a sviluppare curiosità e
interesse per l’acquisizione del dato culturale, questo può essere dovuto a
loro (o ai media), ma anche alle pratiche dell’insegnante. In buona sostanza il
problema potrebbe essere non che loro sono diversi, ma che noi siamo sempre gli
stessi!
3) accettare il cambiamento. Lo sforzo che
all’insegnante si richiede è di mediazione didattica, ovvero di trasposizione
dei propri contenuti disciplinari nei nuovi alfabeti della cultura. Si tratta
di un compito che da sempre qualifica il lavoro del docente: occorre non
smettere di svolgerlo proprio nel momento in cui ce ne sarebbe maggior bisogno.