Saturday, March 31, 2012


La mente, l’occhio e il cuore

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Venerdì 30 marzo mi trovavo ad Acireale, presso il Centro di Cultura dell’Università Cattolica, per l’ultimo modulo di un corso di formazione per insegnanti sull’uso dei media digitali nella didattica. Quello stesso giorno il Di.S.A.L., l’associazione dei Dirigenti delle Scuole Autonome e Libere, mi ha chiesto una relazione al loro convegno annuale. Non potevo bilocarmi tra Acireale e Montecatini, sede del convegno. Skype ha fatto il suo dovere. Restituisco di seguito lo schema del mio intervento il cui titolo - La mente, l’occhio e il cuore: nuove tecnologie, nuova educazione? – mi è parso particolarmente sfidante, tanto da farne la traccia stessa della mia riflessione. Il file audio contenente l’intera relazione è disponibile in Podomatic.

1. La mente
Il profilo cognitivo (il brainframe, per dirla con de Kerkhove) che le nuove tecnologie contribuiscono a costruire è quello di:
- una mente incarnata (embodied cognition): il primato della dimensione tattile (nelle interfaccia) e l’esternalizzazione della scena cognitiva sugli schermi concorre a definire il lavoro cognitivo come lavoro sugli oggetti;
- una mente distribuita: la policronia (cioè la possibilità di vivere più tempi nello stesso tempo) e un ordine dell’attenzione periferico (perché impegnato a non perdere d’occhio nessuno dei frame aperti sulla propria scrivania) eleggono la velocità a propria cifra distintiva. Ne consegue che il pensiero abilitato dalle tecnologie è un pensiero breve;
- una mente multiliteracy. Le nuove tecnologie chiedono al soggetto la competenza di saper usare linguaggi diversi, propri dei singoli sistemi espressivi, e formati mediali diversi. Il risultato è quello che Jenkins chiama navigazione transmediale e che si traduce in un’estensione delle competenze alfabetiche (secondo l’indicazione del New London Group).

2. L’occhio
La cultura occidentale ha sempre evidenziato uno stretto rapporto tra il vedere e il sapere: per i Greci se ho visto, so. Quindi, riflettere sull’articolazione dello sguardo neomediale significa comprendere qualcosa in più su come con i nuovi media si pensa e si apprende. Lo sguardo neomediale è:
- uno sguardo incorniciato. La metafora della finestra (del menu, del frame), come criterio di organizzazione di quanto è visibile sui nostri schermi suggerisce il significato di questa prima caratteristica dello sguardo neomediale. È uno sguardo parziale, che necessita sempre di essere contestualizzato, che vive spesso del rimando, che ha bisogno di essere collocato (come quando si naviga tra le pagine del Web);
- uno sguardo iper-reale. La realtà che attraverso i nuovi media si può esperire è una realtà aumentata, una realtà spesso più reale di quella reale, nella misura in cui lo sguardo è più ravvicinato rispetto alle cose di quello che il nostro sguardo naturale potrebbe essere. Lo sperimentiamo con la funzione “zoom” di qualsiasi applicazione, o con le applicazioni di Augmented Reality disponibili ormai sui nostri telefonini;
- uno sguardo mobile. Il nostro tempo, anche grazie ai media che lo caratterizzano, ha sostituito l’ordine della visione moderno con un altro ordine della visione. Quello era ben rappresentato dalla prospettiva: lo spazio prospettico assegnava un posto all’osservatore che vedeva quel che poteva vedere. Oggi la moltiplicazione degli schermi e delle cornici dentro gli schermi comporta che sia l’osservatore ad assegnare un posto a questi schermi e a queste cornici, con il risultato che si vede quel che si vuole vedere.

3. Il cuore
Quest’ultima istanza, quest’ultima dimensione, ha a che fare soprattutto con tutto ciò che rende i nuovi media non solo degli artefatti cognitivi, o dei dispositivi della visione, ma anche delle macchine sociali (Scanagatta, Segatto, 2009). Sono ancora una volta tre le dimensioni che meritano di essere evidenziate:
- la relazionalità. I nuovi media sono un tessuto connettivo, sono la “pelle della cultura” (de Kerkhove), sono spazio e occasione di una scrittura emotiva, non esternalizzano soltanto la mente ma anche l’intimità. I nuovi media sono fatici, consentono il contatto, danno ragione a McLuhan quando scriveva che il medium è il massaggio. Richiedono una grammatica e una sintassi degli affetti;
- la socialità. Bauman qualche anno fa scriveva un libro intitolato Voglia di comunità. La dimensione sociale della scena neomediale materializza questa istanza mettendo in relazione (spesso sovrapponendoli) il pubblico e il privato, l’interno e l’esterno;
- la partecipazione. Consentendo di accedere al globale dal locale i nuovi media (in particolare i blog, Twitter, gli aggregatori di feed) estendono le possibilità partecipative delle persone, consentono di essere informati su ciò che accade anche molto lontano da noi “prendendo parte” alle vicende, alle cause umanitarie, ai movimenti politici. Anche se poi il rischio è che questa partecipazione rimanga a “bassa definizione”, prenda corpo esclusivamente nel tag: “Mi piace, non mi piace”.

Dal punto di vista dell’educazione sarebbe facile ripercorrere i punti che abbiamo sinteticamente fissato per far vedere di ciascuno opportunità e criticità. Cosa si chiede all’educatore, all’insegnante, per massimizzare le une e ridurre l’impatto delle altre? Sinteticamente, direi:
1) superare la tentazione dell’arrocco. Sentendosi sotto attacco, percependo che l’accettazione della sfida del nuovo gli comporterebbe troppa fatica, l’insegnante si mette spesso sulla difensiva, con due argomenti principalmente: “Sono diversi da noi, non sanno più ragionare, non sanno più leggere, non sanno più andare in profondità sulle cose!”; “La Cultura è altro rispetto alle futilità dei media e la scuola deve continuare ad essere lo spazio della Cultura!”. Si tratta di atteggiamenti che non pagano, perché non risolvono il problema ma lo cristallizzano;
2) cambiare la punteggiatura. Se nella situazione canonica dell’insegnamento tradizionalmente inteso quel che si percepisce è la difficoltà dei ragazzi ad apprendere, a sviluppare curiosità e interesse per l’acquisizione del dato culturale, questo può essere dovuto a loro (o ai media), ma anche alle pratiche dell’insegnante. In buona sostanza il problema potrebbe essere non che loro sono diversi, ma che noi siamo sempre gli stessi!
3) accettare il cambiamento. Lo sforzo che all’insegnante si richiede è di mediazione didattica, ovvero di trasposizione dei propri contenuti disciplinari nei nuovi alfabeti della cultura. Si tratta di un compito che da sempre qualifica il lavoro del docente: occorre non smettere di svolgerlo proprio nel momento in cui ce ne sarebbe maggior bisogno.

4 comments:

lella said...

Come insegnanti non dovremmo mai smettere di interrogarci su questi temi e sulla enorme portata dei cambiamenti in atto, per scongiurare, se non altro, l’utilizzo tout court delle tecnologie digitali nella didattica.

In un corso di formazione, ancora in via di svolgimento, organizzato dal mio USR, ho la percezione che si stia facendo alfabetizzazione (fase 2?) all’utilizzo delle classi virtuali e dei programmi open source da utilizzare in classe.

Ricordo quando, anni fa, si faceva alfabetizzazione all’uso del computer: come accenderlo, come utilizzare word, copiare e incollare,…

Constato anche, sempre a livello locale, che la modifica dell‘ ‘ambiente di apprendimento’ caldeggiato dal progetto classi 2.0 consista semplicemente nell’introdurre tablet, blog, podcasting o altro nelle pratiche d’insegnamento.

Temo che, si sia smesso troppo presto di parlare delle trasformazioni profonde che caratterizzano la nostra epoca, che riguardano tutti e che lei ben delinea nel suo intervento.

Sostanziare le pratiche educative, avendo alla base i riferimenti teorici, ci consente di trovare le risposte più idonee ad un mutamento che non è solo di costume ma fondamentalmente strutturale.

Spero che la mia valutazione non corrisponda al vero, ma sia dettata solo da una percezione errata e comunque circoscritta nella realtà locale. Se così non fosse, il rischio è di perdere un’altra importante occasione di cambiamento culturale nel nostro sistema d’istruzione.

Ho postato il suo intervento nel mio blog (http://lella-ilmagodioz.blogspot.it/) uno spazio aperto da pochi mesi, dove cerco in parallelo, di fare anche una modesta opera di diffusione di questi temi; tra i miei colleghi e non.

Continuo a seguirla sempre molto volentieri, e spero di conoscerla un giorno di persona.

Nicoletta Farina

Annalisa said...

Ti seguirò anche tramite blog...interessantissimo e completamente diverso dal mio....Complimenti Prof.....

Pier Cesare Rivoltella said...

Nicoletta, grazie del feed-back. Concordo con quanto osserva. Farò con piacere un giro nel suo blog. Un caro saluto, PCR

Alexandre Rosado said...

Carissimo Rivoltella,

Per la prima volta sto seriamente leggendo il suo blog. Questo post me sembra alcuni questioni dei studenti (professori) chi partecipano della classe della UERJ in cui io sono il professore. Anche loro, quando sto facendo dei miei interventi sono in suoi tablet e anche nei computer (me chiedo se la aula é interessante o se loro sonno stanco di una giornata di lavoro). Credo che loro, quando fanno il ruolo di studenti sono molto vicino ai loro ragazzi della scuola. Questo posto, la tua riflessione può essere pensata in rispetto dei ruolo che noi, professori, fanno in un ambiente scuolare. Penso in Goffaman e penso nella cultura della scuola...

Alexandre