Sunday, June 3, 2012

Famiglia, festa, lavoro


Sono reduce dalla partecipazione al Congresso mondiale delle famiglie. Mercoledì pomeriggio ho partecipato alla sessione dedicata alla comunicazione globale (organizzata congiuntamente dall'associazione Web Cattolici della CEI - che ha presentato la Guida al Web per le famiglie - e da TV 2000), giovedì alla tavola rotonda in cui la Regione Lazio presentava la Carta di Roma per una visione bambinocentrica della vita e della società. In entrambi i casi sono stato chiamato a portare il mio punto di vista sul rapporto che lega i media (soprattutto i nuovi media), i genitori e i figli. Sfrutto questo post per organizzare qualche riflessione che recuperi il senso del dibattito cui ho avuto il piacere di assistere.

1. Con Fabio Bolzetta (che insieme a me, il presidente di WeCa Giovanni Silvestri e Leo Spadaro aveva progettato la sessione) ci siamo immaginati un vero e proprio talk. Così, invece di lasciare la parola canonicamente ai relatori sul tavolo, Fabio si è mosso tra il pubblico, ha raccolto domande, ha fatto interviste. Intanto, dalla regia Andrea Canton suggeriva risorse on line per la famiglia e restituiva l'andamento del dibattito che in parallelo si svolgeva in Twitter. Questi momenti, preceduti da un filmato realizzato da TV 2000 e scanditi da video educativi presi da Youtube, hanno scandito gli interventi del tavolo, sintetici e incisivi come deve essere in un talk. Il risultato è stato comunicativamente efficace consentendoci di raggiungere il nostro obiettivo: discutere sulla comunicazione odierna sfruttandone le forme e gli strumenti espressivi.

2. Il mio contributo è partito da una constatazione: lo stallo delle soluzioni classiche della pedagogia al problema del rapporto tra media e famiglia, basate sulla condivisione del consumo e sul controllo dello spazio e del mezzo. Si tratta di indicazioni non sostenibili. Infatti i mobile devices spostano il luogo del consumo lontano dalla casa (per i minori lo era nell'80% dei casi nel 2006, lo è per circa il 46 % a distanza di sei anni): non serve più tenere il computer in salotto! Ma soprattutto manca il tempo agli adulti: sempre più spaventati, sempre meno consapevoli, sempre più in difficoltà e alle prese con tempi lavorativi assorbenti.


3. Come fare, allora? certo occorre tornare a trovare tempo per educare in famiglia. E, soddisfatta questa condizione, si possono percorrere due strade principalmente. Praticare quella che Meirieu chiama "pedagogia del contratto" - ovvero costruire soluzioni negoziate, ad esempio protocolli di consumo condivisi, codecisi da genitori e figli - e riaffermare la centralità della responsabilizzazione. Lo si potrebbe esprimere con uno slogan:  meno controllo, più governo! Il controllo è l'opposto dell'educazione: controlliamo quando non ci riconosciamo capaci di educare. Il governo dice invece di un rapporto sereno con le situazioni, della capacità del genitore di aiutare il figlio a gestire correttamente il suo rapporto con i media.

4. E al di là del metodo, che contenuto dare all'educazione ai media familiare? Darei due indicazioni:
- Educare il senso critico.  Contro il potere omologante degli script (Toschi, 2011) occorre recuperare consapevolezza, discernimento, capacità di giudizio.
- Insegnare la comunicazione generativa.  I ragazzi di solito tendono a conformarsi agli stereotipi della cultura popolare; occorre invece creare le condizioni perché possano liberare le loro possibilità espressive, perché possano essere creativi.

5. I media...mediano:
- la storia (sempre più filtrata dagli schermi della televisione, del cinema, del social network);
- la realtà (sempre più ibrida, aumentata, ma spesso depauperata degli odori e dei sapori - come dimostra il successo delle fattorie didattiche);
- le relazioni, anche quelle tra genitori e figli.
In quanto mediatori i media svolgono una funzione di catalizzatori a livello macro e microsociale. Sono i catalizzatori del fatto che il problema sono gli adulti, non i media. Per mettere al centro il bambino occorre oggi occuparsi soprattutto degli adulti.

Saturday, May 12, 2012

Narrazioni digitali e Media Literacy



Ho partecipato a Torino, nell'ambito delle iniziative previste in occasione del Salone del Libro, a un convegno sul tema "Narrazioni mediali e Media Literacy". L'evento era organizzato dagli amici di Antenna Media, ufficio di rappresentanza per l'Italia dei  programmi della Commissione Europea sulla Media Literacy. Nel mio intervento ho messo a tema proprio il concetto di narrazione, in riferimento ai media digitali, provando a verificarne le specificità comunicative e le aderenze con l'educazione mediale.
Il concetto di narrazione neomediale comprende fenomeni diversi: le narrazioni della tv interattiva (perché nell'epoca dei media digitali la televisione è costantemente impegnata
 in un processo di continua ibridazione e ridefinizione del suo statuto rappresentativo), ma anche quelle dei blog, di Facebook, di Twitter, di Youtube.
Quali le caratteristiche distintive di queste narrazioni? Tra le tante possibili ne individuo tre che mi paiono particolarmente significative.
1. Anzitutto esse sono narr-azioni. Questo significa che l'attenzione si sposta dal contenuto, dai racconti, e si concentra sulla relazione, sulla dimensione fatica, sull'agire performativo. Con Jakobson, ha natura fatica quella comunicazione la cui funzione non è tanto di e qualcosa o di riarsi alle cose, quanto piuttosto di mantenere aperto il canale di comunicazione con l'interlocutore, di garantire il contatto. Per la pragmatica, invece, è performativa quella comunicazione che più che pensare alla comprensibilità dei suoi significati, lavora a che i suoi effetti siano efficaci. Sinteticamente - recuperando una suggestione dell'ultimo McLuhan - possiamo dire che le narrazioni neomediali sono spesso più massaggi che messaggi.
2. Le narrazioni neomediali sono anche narrazioni sociali. Non ci sono più i Padri da ascoltare, l'ethos e il nomos del popolo da trasmettere, ma tutti raccontano e si raccontano. Le narrazioni tradizionali erano grandi racconti, recavano iscritto il senso e il valore dell'autorità, erano narrazioni verticali in cui normalmente l'asimmetria (di esperienza, di età, di prestigio sociale) pesava in favore dell'adulto. Narrazioni orizzontali, oggi le narrazioni neomediali sono spesso più happening che spazio per la trasmissione culturale.
3. Narrazioni senza Memoria. Le narrazioni neomediali non sono più lo spazio in cui si materializza la memoria sedimentata, si può incontrare la storia, ma luoghi in cui galleggiare sul presente e mettere in circuito le memorie biografiche individuali, spesso a metà tra tentazione narcisistica e ripiegamento calligrafico. Allo stesso tempo, però, la presa diretta con l'attualità fornisce alle narrazioni neomediali una terribile forza performativa: basta pensare al rapporto tra Twitter e la primavera dei popoli arabi, o alla relazione dei risultati delle recenti elezioni amministrative con un certo uso della blogosfera. Le narrazioni neomediali sono cronaca, irruzioni nel presente, oscillano tra la leggerezza del disimpegno e la drammatica urgenza della convocazione.
Cosa comporta tutto questo dal punto di vista mediaeducativo?
A questo riguardo vedo materializzarsi alcune esigenze che assumono le forme di altrettante frontiere.
1) La prima è la frontiera etica: se la narrazione produce effetti, aggira le mediazioni, si fa emotivamente autoriale, l'azione educativa non chiede più solo che venga sviluppata la consapevolezza critica, ma che maturi la responsabilità di chi non è più solo consumatore, ma diviene consum-attore.
2) La seconda frontiera è metodologica: gli strumenti di analisi vanno riadattati per farli funzionare su forme neotestuali fluide, collettive, disarticolate. Cosa significa oggi fare un'analisi di un profilo in Facebook, di un filo di discussione in Twitter, di un social network?
3) Infine va considerata la frontiera politica: la dialettica tra passato e presente, tra disimpegno e convocazione, attiva la cittadinanza chiedendo alla Media Literacy di diventare educazione civile. Si tratta di un concetto su cui sono spesso tornato e di cui sno sempre più convinto.

Wednesday, May 9, 2012

Tifo, festa, appartenenza



Domenica sera ero in piazza. Come me i miei figli. Avevamo appena vinto lo scudetto, dopo sei anni, dopo la serie B, dopo due stagioni finite in maniera mediocre, dopo aver disperato che saremmo mai tornati. Maglia e sciarpe indossate subito dopo il fischio finale, giusto il tempo di vedere Chiellini soffocato dall'abbraccio dei tifosi e via nel corteo dei tifosi. 
Bambini con cappelli bianconeri a tre punte, trattori a trombe spiegate, scooter con a bordo gli stessi passeggeri che troverebbero posto in una utilitaria. Una folla variopinta. In tutti la voglia di urlare la propria felicità, di trovare un motivo per fare festa, per rivendicare una appartenenza. 
In prossimità della piazza il corteo frena, si ferma. Auto di traverso, parcheggiate dove capita. Al centro della piazza la festa vera del tifo. Cori, "chi non salta è milanista, è". I miei figli incontrano amici, tutti juventini, tranne uno, infiltrato, tifoso del Milan. Poche parole, complimenti di rito. Dalla piazza parte un coro all'indirizzo di Allegri. Il ragazzo annuisce: "Hanno ragione". Poi guarda un gruppo di ragazzi magrebini tra i più accessi, avvolti in maglie e bandiere bianconere: "Erano qui anche l'anno scorso. Facevano festa con noi". 
Fare festa, rivendicare un'appartenenza. C'è un filo invisibile che lega il tifo, l'appartenenza sportiva, con le logiche e le pratiche della cittadinanza e dell'inclusione in una società multiculturale. Per quei ragazzi il problema non è essere della Juve o del Milan, ma sentirsi parte di qualche cosa, trovare un motivo per scendere in piazza. Una questione chiave soprattutto per le seconde generazioni, nate nel nostro Paese, che per una serie di ragioni non si sentono più parte della cultura dei padri ma che per un'altra serie di ragioni avvertono di non essere pienamente "pari" dei loro coetanei. Mentre lasciamo la piazza ci penso e rifletto che il dispositivo è in fondo lo stesso anche per noi. Sentirsi parte di una storia, riconoscersi. Come diceva Vujadin Boskov: "Noi siamo noi, loro sono loro". Un progetto ma allo stesso tempo un problema educativo.

Tuesday, April 17, 2012

Nuovi media per nuovi modelli formativi

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Si è svolto, sabato 14 aprile e domenica 15 aprilei, a Torino il seminario di studio Eduskill (seguendo il link si trovano i video di tutti gli interventi), organizzato dall'associazione ACMOS di Torino insieme a Urban Experience. Mi è stato chiesto di intervenire con un contributo sul concetto di New Media Education. L’ho sviluppato in tre passaggi.


1. Il primo passaggio è una premessa. Prima del mio intervento, la bella comunicazione di Domnico Chiesa aveva eccepito su alcune tendenze “millenariste” presenti nel dibattito attuale sui media digitali, accennando al tema del “nativi digitali” e di internet che renderebbe stupidi. Ho ripreso lo spunto per sottolineare come in entrambi i casi si tratti di esempi interessanti di moral panic accademico: Carr e Prensky non sono dei ricercatori, ma dei giornalisti scientifici. È veramente interessante che abbiano potuto così tanto sulle opinioni di chi dovrebbe invece fare scienza! Di fatto i nativi digitali sono un alibi: non vi sono evidenze sperimentali della mutazione genetica di cui sarebbero testimoni e si usano le neuroscienze per legittimare una tesi senza profondità. Il problema vero della scuola, oggi, non sono i cervelli diversi dei ragazzi, ma la sua incapacità di sintonizzazione socio-culturale.

2. Quando si parla di New Media Education l’accento può essere portato sui New Media e ci si chiede pertanto che caratteristiche debba avere l’educazione che se ne occupa. In questo caso occorre tenere presente che essi sono protagonisti di un duplice riposizionamento, sociale e concettuale, rispetto ai media tradizionali:
- sociale, perché migrano nelle nostre vite, si indossano. Qui occorre andare oltre una rappresentazione residuale dei media, come di strumenti che occupano alcuni momenti della nostra giornata;
- concettuale, perché dalla tradizionale concettualizzazione che ne faceva degli strumenti, e dalla successiva che li ripensava come ambienti, occorre oggi capire che nella società contemporanea essi sono un vero e proprio tessuto connettivo.
Se si comprende questo duplice shift, si capisce che l’educazione ai media non è più un optional per la scuola, non può esserlo se la scuola vuole continuare a svolgere il proprio ruolo, e cioè quello di formare cittadini: i nuovi media sono dispositivi di cittadinanza.

3. Si capisce, allora, che i New Media richiedono una Media Education che sia New. Ccorre un cambio di paradigma nella Media Education che la riscatti dalla stasi concettuale in cui versa da anni. Le questioni da affrontare sono diverse. Ne indico due a scopo esemplificativo:
- l’esigenza di nuovi metodi di analisi delle forme testuali (cosa significa fare analisi di una pagina Facebook? E di un ashtag di Twitter?);
- l’esigenza di passare dall’educazione del senso critico (obiettivo da sempre della Media Education, certo ancora oggi importantissimo) all’educazione della responsabilità, perché i nuovi media sono autoriali, i soggetti non li usano solo per navigare o ricevere informazioni, ma anche per produrle e pubblicarle.

Saturday, March 31, 2012


La mente, l’occhio e il cuore

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Venerdì 30 marzo mi trovavo ad Acireale, presso il Centro di Cultura dell’Università Cattolica, per l’ultimo modulo di un corso di formazione per insegnanti sull’uso dei media digitali nella didattica. Quello stesso giorno il Di.S.A.L., l’associazione dei Dirigenti delle Scuole Autonome e Libere, mi ha chiesto una relazione al loro convegno annuale. Non potevo bilocarmi tra Acireale e Montecatini, sede del convegno. Skype ha fatto il suo dovere. Restituisco di seguito lo schema del mio intervento il cui titolo - La mente, l’occhio e il cuore: nuove tecnologie, nuova educazione? – mi è parso particolarmente sfidante, tanto da farne la traccia stessa della mia riflessione. Il file audio contenente l’intera relazione è disponibile in Podomatic.

1. La mente
Il profilo cognitivo (il brainframe, per dirla con de Kerkhove) che le nuove tecnologie contribuiscono a costruire è quello di:
- una mente incarnata (embodied cognition): il primato della dimensione tattile (nelle interfaccia) e l’esternalizzazione della scena cognitiva sugli schermi concorre a definire il lavoro cognitivo come lavoro sugli oggetti;
- una mente distribuita: la policronia (cioè la possibilità di vivere più tempi nello stesso tempo) e un ordine dell’attenzione periferico (perché impegnato a non perdere d’occhio nessuno dei frame aperti sulla propria scrivania) eleggono la velocità a propria cifra distintiva. Ne consegue che il pensiero abilitato dalle tecnologie è un pensiero breve;
- una mente multiliteracy. Le nuove tecnologie chiedono al soggetto la competenza di saper usare linguaggi diversi, propri dei singoli sistemi espressivi, e formati mediali diversi. Il risultato è quello che Jenkins chiama navigazione transmediale e che si traduce in un’estensione delle competenze alfabetiche (secondo l’indicazione del New London Group).

2. L’occhio
La cultura occidentale ha sempre evidenziato uno stretto rapporto tra il vedere e il sapere: per i Greci se ho visto, so. Quindi, riflettere sull’articolazione dello sguardo neomediale significa comprendere qualcosa in più su come con i nuovi media si pensa e si apprende. Lo sguardo neomediale è:
- uno sguardo incorniciato. La metafora della finestra (del menu, del frame), come criterio di organizzazione di quanto è visibile sui nostri schermi suggerisce il significato di questa prima caratteristica dello sguardo neomediale. È uno sguardo parziale, che necessita sempre di essere contestualizzato, che vive spesso del rimando, che ha bisogno di essere collocato (come quando si naviga tra le pagine del Web);
- uno sguardo iper-reale. La realtà che attraverso i nuovi media si può esperire è una realtà aumentata, una realtà spesso più reale di quella reale, nella misura in cui lo sguardo è più ravvicinato rispetto alle cose di quello che il nostro sguardo naturale potrebbe essere. Lo sperimentiamo con la funzione “zoom” di qualsiasi applicazione, o con le applicazioni di Augmented Reality disponibili ormai sui nostri telefonini;
- uno sguardo mobile. Il nostro tempo, anche grazie ai media che lo caratterizzano, ha sostituito l’ordine della visione moderno con un altro ordine della visione. Quello era ben rappresentato dalla prospettiva: lo spazio prospettico assegnava un posto all’osservatore che vedeva quel che poteva vedere. Oggi la moltiplicazione degli schermi e delle cornici dentro gli schermi comporta che sia l’osservatore ad assegnare un posto a questi schermi e a queste cornici, con il risultato che si vede quel che si vuole vedere.

3. Il cuore
Quest’ultima istanza, quest’ultima dimensione, ha a che fare soprattutto con tutto ciò che rende i nuovi media non solo degli artefatti cognitivi, o dei dispositivi della visione, ma anche delle macchine sociali (Scanagatta, Segatto, 2009). Sono ancora una volta tre le dimensioni che meritano di essere evidenziate:
- la relazionalità. I nuovi media sono un tessuto connettivo, sono la “pelle della cultura” (de Kerkhove), sono spazio e occasione di una scrittura emotiva, non esternalizzano soltanto la mente ma anche l’intimità. I nuovi media sono fatici, consentono il contatto, danno ragione a McLuhan quando scriveva che il medium è il massaggio. Richiedono una grammatica e una sintassi degli affetti;
- la socialità. Bauman qualche anno fa scriveva un libro intitolato Voglia di comunità. La dimensione sociale della scena neomediale materializza questa istanza mettendo in relazione (spesso sovrapponendoli) il pubblico e il privato, l’interno e l’esterno;
- la partecipazione. Consentendo di accedere al globale dal locale i nuovi media (in particolare i blog, Twitter, gli aggregatori di feed) estendono le possibilità partecipative delle persone, consentono di essere informati su ciò che accade anche molto lontano da noi “prendendo parte” alle vicende, alle cause umanitarie, ai movimenti politici. Anche se poi il rischio è che questa partecipazione rimanga a “bassa definizione”, prenda corpo esclusivamente nel tag: “Mi piace, non mi piace”.

Dal punto di vista dell’educazione sarebbe facile ripercorrere i punti che abbiamo sinteticamente fissato per far vedere di ciascuno opportunità e criticità. Cosa si chiede all’educatore, all’insegnante, per massimizzare le une e ridurre l’impatto delle altre? Sinteticamente, direi:
1) superare la tentazione dell’arrocco. Sentendosi sotto attacco, percependo che l’accettazione della sfida del nuovo gli comporterebbe troppa fatica, l’insegnante si mette spesso sulla difensiva, con due argomenti principalmente: “Sono diversi da noi, non sanno più ragionare, non sanno più leggere, non sanno più andare in profondità sulle cose!”; “La Cultura è altro rispetto alle futilità dei media e la scuola deve continuare ad essere lo spazio della Cultura!”. Si tratta di atteggiamenti che non pagano, perché non risolvono il problema ma lo cristallizzano;
2) cambiare la punteggiatura. Se nella situazione canonica dell’insegnamento tradizionalmente inteso quel che si percepisce è la difficoltà dei ragazzi ad apprendere, a sviluppare curiosità e interesse per l’acquisizione del dato culturale, questo può essere dovuto a loro (o ai media), ma anche alle pratiche dell’insegnante. In buona sostanza il problema potrebbe essere non che loro sono diversi, ma che noi siamo sempre gli stessi!
3) accettare il cambiamento. Lo sforzo che all’insegnante si richiede è di mediazione didattica, ovvero di trasposizione dei propri contenuti disciplinari nei nuovi alfabeti della cultura. Si tratta di un compito che da sempre qualifica il lavoro del docente: occorre non smettere di svolgerlo proprio nel momento in cui ce ne sarebbe maggior bisogno.

Saturday, March 24, 2012

Mediashow 2012



Sono appena tornato da Melfi. Ho partecipato alla quattordicesima edizione del Mediashow, l'olimpiade scolastica della multimedialità. Centoventi ragazzi da tutto il mondo (anche un cinese, tra ungheresi, romeni, svedesi) che in otto ore sviluppano un tema attraverso il linguaggio della multimedialità.Un'esperienza interessante che devo all'insistenza di Alfio Andronico, "padre" storico dell'informatica e di AICA nel nostro Paese. Da tre anni mi invitava e avevo sempre qualche impegno concomitante. Quest'anno ho risposto all'invito ed è stato Alfio a "marcar visita". Gli auguro che si riprenda in tempo per il nostro Congresso della SIREM, a Milano, il 5 e 6 giugno prossimi. Prendo spunto da questa giornata passata nella storica cittadina del Vulture per fare qualche considerazione.

1. Arrivo al "Ruggero II", il Liceo che ospita la manifestazione, con la navetta che mi ha prelevato in albergo. Scendo e all'entrata della scuola la Banda dei ragazzi ci accoglie a ottoni spiegati. La grancassa e i piatti fanno il resto: il clima è da processione del Santo. Tutto intorno ragazzi affaccendati, ragazzi alle finestre delle scuole vicine, il camion della sede Rai della Basilicata. Vengo rapito per un caffè da Riccardo Rigante, professore di latino e greco, Preside del Ruggero II fino allo scorso anno, vero artefice del Mediashow. Il professor Rigante è un uomo intelligente, colto e di carisma. Me ne accorgo poco dopo, quando nell'aula magna, dopo l'inno di Mameli suonato dai ragazzi, le autorità si avvicendano ai saluti senza riuscire a eliminare il brusio di sottofondo dei ragazzi e dei loro professori. Quando al saluto viene chiamato Rigante, si fa silenzio. Conosco bene la scena. Succede nella scuola quando hai stima di chi ti sta davanti. E Rigante è un uomo di scuola. Lo apprendo da tante cose lungo la giornata che passiamo insieme. A sera, quando ci salutiamo, siamo diventati amici.

2. La traccia che arriva dal Ministero è stralunata. Come spesso accade anche per i temi dell'Esame di Stato, la frase che fa da premessa alla richiesta è decontestualizzata, non c'entra nulla con il resto. Ai ragazzi viene chiesto di girare uno spot di tre minuti su come dovrebbe essere la scuola del futuro, su come si immaginano la classe con le tecnologie. Mentre immagino le difficoltà che gli "olimpionici" dovranno affrontare (ma chi lo sa come sarà la scuola del futuro? E come si fa a chiedere a dei ragazzi come vedono il setting tecnologico?) un dubbio mi balena all'improvviso (e lo confesserò poi all'assemblea). Visto che dalle classi 2.0 dei lumi sulla scuola del futuro non sono arrivati, si spera magari che qualche ragazzo possa essere d'aiuto al riguardo.

3. Si parla di apprendimento e tecnologie. Dopo il mio intervento si succedono gli interventi della platea. Si ragiona di innovazione. Un professore mi chiede se si può fare innovazione inserendo tecnologie a chili nelle classi e se non servirebbe più formazione. Un altro si chiede perché la Riforma Gelmini abbia tagliato quasi tutti i laboratori se poi proprio il momento del laboratorio è quello che pare più rispondente alle esigenze della nuova didattica. Non posso rendere ragione di tutte le domande. Ma traspare grande consapevolezza. La stessa che incontro durante la pausa dei lavori. Mi accosta una dirigente di Sant'Eramo in Colle, mi chiede pareri un professore di matematica di Napoli, una professoressa mi chiede di dedicarle la copia di "A scuola con i media digitali" che tiene in mano. Scopro di avere una fan accanita, che segue Medialog e compra tutti i miei libri. Le auguro di trovare sempre nell'insegnamento il privilegio, l'unico, che l'insegnamento ci offre come insegnanti: il sorriso e la gratitudine dei ragazzi.

4. Ritorno verso l'aeroporto di Palese. Il giovane conducente della macchina a noleggio e il suo amico raccontano di una sorella per lavoro a Milano, di genitori che gestiscono un'impresa di autotrasporti in Friuli. Loro sono rientrati: non si integravano. Preferiscono il loro Sud. Passiamo di fianco allo stabilimento della FIAT. Sperano che tenga: se chiudesse sarebbe un disastro. Mentre corriamo verso Bari ripenso alla giornata. Ho vissuto la scuola nella provincia italiana. E quel che me ne riporto a casa sono i volti dei professori, il loro entusiasmo, la loro serietà. Professionisti che aspettano risposte da un Ministero che non li conosce, perché nelle scuole non ci va. Loro hanno molta più qualità di quanto le nostre indagini non ci possano dire. I discorsi sulla crisi dell'educazione e sullo sfascio della scuola sono facili. Ma la scuola italiana è anche altro: è la banda che stona ma ti emoziona suonando l'inno, sono i ragazzi dell'Alberghiero nelle loro marsine, è il professore di Napoli che ti chiede se ti può scrivere, se possiamo parlare di quello che lui fa in classe, è Rigante che citando Orazio sogna un concorso nazionale sui libri scolastici: "E perché non li dovremmo poter valutare? Perché non potremmo dire agli insegnanti quali meritano di essere adottati?".

Spero mi invitino ancora il prossimo anno.

Wednesday, December 7, 2011

Internet addiction?


Federico Tonioni e' uno psichiatra, ricercatore alla Facoltà di Medicina dell'Universita' Cattolica di Roma. A lui si deve, un paio di anni fa', l'apertura del primo servizio clinico in Italia espressamente dedicato al trattamento dei disturbi legati all'abuso di media digitali. Nella giornata del 29 novembre scorso ha organizzato presso il Ministero della Sanità un seminario di studio su questo tema. Ho avuto il piacere di parteciparvi. Restituisco di seguito una sintesi della giornata unitamente alle mie considerazioni al riguardo.

1. Il primo elemento e' che la lettura psichiatrica del rapporto tra giovani e media digitali e' decisamente a tinte fosche. In ordine sparso dalle varie relazioni ho registrato i seguenti effetti che essi produrrebbero:
 - uno spostamento della centratura dalla  soggetualita' allo strumento;
- il collasso della struttura narrativa;
- una sovraesposizione della autorappresentativita';
- iperlessimia, narcisismo;
- mancanza di limiti, propensione per le esperienze estreme;
- la trasformazione dell'organizzazione mnestica;
- l'"estensione" della coscienza, con quel che ne viene in relazione all'abbandono della sfera privata e al senso di onnipotenza;
- la perdita della capacita' di ascolto, dell'altro ma anche di se';
- la idolizzazione della rete che funziona da anticamera della perversione;
- lo sviluppo di tratti ossessivo-compulsivi;
- la negazione della dimensione reale;
- l'isolamento sociale, come nel fenomeno giapponese degli hikikemori, che si porta dietro depressione maggiore, fobia sociale, inclinazione al suicidio.
Insomma, niente male.

2. Riflettendo su questo tipo di quadro mi sento di condividere alcune considerazioni.
La prima e' che da uno psichiatra mi aspetterei che approfittasse delle basi scientifiche del suo sapere e invece (non e' questa la prima volta che mi trovo aconstatarlo), tranne virtuose eccezioni, fa psicosociologia a buon mercato, filosofeggia, insomma per dirla con Umberto Eco "sovrainterpreta". Curioso, in un frangente storico in cui le scienze "morbide" come la pedagogia provano a sciacquare i panni nell'Arno delle scienze dure (come avviene con le neuroscienze), che invece una scienza dura tenti di darsi una coloritura proprio rivolgendosi ad esse.
Seconda idea. Tutto quello di cui al punto primo puo' trovare riscontro nei fatti, ma quando, e quanto, e a quali condizioni? In buona sostanza mi pare che si ecceda in generalizzazioni, cosa che invece quando si parla di consumo mediale non e' mai consigliabile.
Infine, terza idea, ricavo l'impressione di un modo di pensare i rapporti tra i media e i giovani, in fondo causale e deterministico. Invece - come l'intervento di Domenico Pompili ha evidenziato - forse i media digitali vanno pensati come sintomi di un disagio che sta al di la di essi. Così va letto il dato sulla comorbilita', ovvero sulla tendenza di chi ha già una dipendenza (da sostanze, dal gioco) a contrarre anche quella da media digitali: al fondo vi e' una fragilità di personalità che predispone queste persone a qualsiasi tipo di dipendenza, anche quella da media digitali.

3. Con grande lucidita' Federico Tonioni ci ha aiutato a distinguere, a non generalizzare. In due anni di attività del suo servizio, nei circa 300 pazienti incontrati, rileva una netta separazione tra pazienti adulti (20%) e giovani: gli adulti, fruitori di gambling e gioco di azzardo, presentano i caratteri del disturbo comportamentale su uno sfondo autistico; nei ragazzi, fruitori di giochi di ruolo on line e social network, il dato di fondo e' il forte bisogno di interazione. Nel primo caso si può parlare di dipendenza, nel secondo meglio parlare di disturbo psicopatologico da comunicazione mediata. In buona sostanza la tensione alla relazione tipica dei giovani li emancipa dalla dipendenza.

4. Uno spazio e' stato ricavato anche per la parte propositiva, dalla prevenzione all'educazione. Sul versante dell'educazione mi e' parso consolatorio che dopo vent'anni l'idea che serva la Media Education, che la scuola se ne debba far carico, che le famiglie si debbano porre il problema della media awareness, ha finalmente fatto breccia ed e' diventata patrimonio abbastanza condiviso, come il manifesto della Società Italiana di Pediatria dimostra. Al di la di questo, pero', ho riascoltato antiche ricette, per i genitori e per gli eductaori in genere, ormai capaci di rimbalzare di tavolo in tavolo, di convegno in convegno:
- riuscire a navigare insieme nel web;
- essere informati senza essere opprimenti;
- dosare tempi, interessi e spazi;
- evitare il braccio di ferro, giunge a forme di patto condiviso;
- sviluppare una nuova cultura di autoregolamentazione.
Le cose più interessanti a questo riguardo le ha dette il collega del Gemelli che dirige il servizio di neuropsichiatria quando ha fatto riferimento all'uso del videogame per il recupero funzionale a livello percettivo o neurologico (sostituisce la riabilitazione che invece non e' gradita al bambino), quando ha parlato di Mediaterapia (in relazione a motricità, empowerment, engagement), quando ha ricordato che la prevenzione viene da una migliore conoscenza.