Friday, November 20, 2009

Il giornale in classe

La regione di Castelo Branco si trova a circa 200 chilometri a est di Lisbona. È una regione rurale, dove le distese di ulivi si alternano ai vigneti, che in questa stagione restituiscono splendide colorazioni, con tutti i toni del giallo e del rosso. Mi trovo a Castelo Branco insieme a Evelyne Bevort, del CLEMI di Parigi, in veste di valutatore di un progetto finanziato dalla FCT, Fundacão Ciencia e Cultura. Il progetto, coordinato da un intraprendente giovane giornalista locale, Vitor Tome, che insegna alla Scuola Politecnica (dove si formano i futuri insegnanti), si chiama “EducaMédia. Educar para os Média atravès da produção de jornais escolares”. Costituita una rete di 24 scuole in tutta la regione, Vitor ha costruito degli strumenti (un DVD, un manuale, un content management system per la pubblicazione on line) per aiutare gli insegnanti a produrre dei giornali in classe sull’esempio di altre esperienze internazionali come la Semaine de la presse dans l’ecole in Francia o La prensa en la escuela in Argentina.

Abbiamo visitato tre delle scuole che partecipano al progetto, una a Teixoso, un paese di 3.500 abitanti vicino a Covilhã, sotto la Serra da Estrela (la cima più alta del Portogallo continentale), l’altra a Idanha, a pochi chilometri dalla frontiera spagnola, l'altra ancora a Castelo Branco. Tre scuole molto diverse e che hanno trovato soluzioni altrettanto diverse per far entrare il giornale in classe.

A Teixoso la scuola è bellissima. Costruita su modello svedese è organizzata in piccoli padiglioni. Ciascun padiglione consta di 4/5 aule per la didattica ordinaria e di altrettante aule specializzate (per l’educazione tecnologica, le scienze, la matematica, le lingue straniere). Il blocco principale contiene i servizi: il grande salone per la ricreazione (che all’occorrenza diventa teatro), la radio scolastica, le sale riunioni e di informatica, la sala e il bar dei professori. Proprio qui c’è la sorpresa più grande. In Portogallo il contratto degli insegnanti è di 42 ore settimanali: la scuola (come del resto nel Nord Europa) è un luogo da abitare e questo è subito percepibile, perché lo spazio è vivo, appropriato, non scuola ma casa, una sensazione strana da descrivere. Il giornale scolastico è coordinato da quattro professori, si avvale di quattro giornalisti dell’ottava classe (14 anni) e del contributo dei ragazzi del PIEF che studiano informatica. Il PIEF è il sistema di formazione professionale, integrato alle scuole dell’obbligo (che in Portogallo vanno dalla prima alla nona classe): molte lezioni sono condivise con i compagni, poi la classe si divide e il PIEF segue i suoi corsi professionalizzanti (a Teixoso ci sono tre “canali”: informatica, agricoltura e cucina). Il giornale è assolutamente professionale: formato tabloid, esce in tre numeri l’anno che vengono distribuiti in tutta la zona gratuitamente. L’obiettivo degli insegnanti è di aumentarne la periodicità e di farlo diventare il giornale della comunità locale.

La scuola di Idanha è più tradizionale, ma lo schema organizzativo è sempre quello e la sensazione di un luogo vivo è comunque presente. Saliamo al piano superiore. Sulla parete delle scale piccoli manifesti creati dai ragazzi riportano dei pay-off sul valore del giornale in classe. Uno recita: “Leggere allunga la vita”. Entriamo in biblioteca: un gruppo di ragazzi sta navigando in Internet con la professoressa di francese, nello spazio multimedia altri ragazzi stanno lavorando al giornale, un professore con la barba è seduto in un salottino e sta “catechizzando” un giovanotto con la testa bassa. L’archivio è occupato da quattro insegnanti che stanno facendo le prove: devono incidere un radiodramma che sarà messo in onda per Natale. Chiediamo scusa e li “sloggiamo”. Comincia l’intervista con le insegnanti. A Idanha il giornale in classe fa parte del progetto educativo di istituto e Cecilia, l’insegnante che stiamo incontrando, lo ha adottato con i 19 allievi della sua classe.

L'ultima scuola, a Castelo Branco, ci accoglie mentre una classe sta svolgendo l'attività sul giornale nell'area di progetto (due ore la settimana da dedicare a temi trasversali alle diverse discipline). La classe è coperta da una wireless area: i ragazzi, a gruppi di quattro, si occupano delle diverse attività della redazione, chi scrive articoli, chi elabora i dati di un'inchiesta condotta in scuola sugli alunni del primo anno, chi sceglie immagini. Una troupe della televisione portoghese è presente in aula: mi intervistano e intervistano i bambini. La giovane professoressa che guida il lavoro è brillante. Mi convinco che possiamo immaginare i progetti più affascinanti del mondo e introdurre in classe le tecnologie più sofisticate, ma alla fine è sempre l'insegnante, nel bene e nel male, a fare la differenza.

Alla fine della giornata tiro le somme e individuo tutti i vantaggi che lavorare al giornale in classe garantisce, così come traspare dalle sperimentazioni delle scuole di Castelo Branco:

- consente di potenziare l’apprendimento della lingua materna (in questo caso il portoghese);

- consente di sollecitare l’abitudine alla lettura;

- consente di valorizzare le diverse competenze dei ragazzi (da chi scrive a chi impagina);

- favorisce la collaborazione e lo scambio tra insegnanti e tra studenti;

- aggrega la comunità nel territorio;

- stimola la partecipazione dei genitori alla vita della scuola;

- costringe gli insegnanti a modificare le loro pratiche.

Ma la produzione del giornale in classe dovrebbe consentire, al di là di questi vantaggi che riguardano la didattica, anche di declinare i temi squisitamente educativi della riflessione critica e della responsabilità autoriale. La consapevolezza che la notizia è sempre una costruzione, la centralità del servizio del giornalista alla verità, il valore della riflessione critica sono le grandi lezioni che la Media Literacy ha sempre legato al lavoro in classe con la e sulla stampa. Nell’anno rimanente del progetto triennale che stanno portando avanti le scuole di Castelo Branco dovranno lavorare soprattutto in questa direzione.

Saturday, October 24, 2009

Constructive controversies in Media Literacy

On 21-24 October 2009 was held in Bellaria (Italy) the Final Congress of the EUROMEDUC Programme. This is a Programme of European Community aimed to recommend to the Community itself some suggestions about Media Literacy in the age of digitalization.
Unfortunately, for me it was no possible to stay in Bellaria during the whole Congress. In the same week (as usual) were concentred a lot of other activities (lessons at the University, another Congress organized by my Department of Education at the Catholic University of Milan). So I was there only during the opening session, on Wednesday 21, and next morning, when I was invited to give my key-note speech. The key-note of the opening session was given by David Buckingham, one of my colleagues, professor at the Institute of Education at the University of London. David's speech described the "changing landscape" of Media Literacy; in it, Media Literacy has surely a lot of new opportunities, but also meets some risks. Tha main of them is the temptation to give to the concept of Media Literacy a too inclusive meaning. Really, nowadays, Media Literacy could mean a lot of things: inclusion, e-partecipation, life-skills, functional competences, information retrieval, efficient use of the media, critical evalutaion of information, pop culture, and so on. As I already said in one of my books (Digital Literacy, IGI, Herschey 2008), when Media Literacy is becoming everything it is the same thing that nothing is Media Literacy. So, according to David (and I agree with him) there are some confusions/risks to take care of:
- education through the media is different from education about the media;
- Media Literacy is not to motivate guys;
- do not put out of our sight the critical question;
- be aware of the "mithology" of the so called digital natives (in this blog we've already talked about this question);
- to refuse a sentimental vision of childhood;
- the fact that media are becoming participative doesn't mean that we are giving the power to the people.
Some of theese risks (in the form of five controversies) were the object of my speech too.
The slides I used at the Congress are published in Slideshare at this URL: http://www.slideshare.net/piercesare.rivooltella/constructive-controversies-in-media-literacy.


Monday, October 12, 2009

Media Literacy in Europe


















Sabato 30 settembre, con un convegno al Castello Mediceo di Melegnano, si è aperto l'anno scolastico del Centro "Giovanni Paolo II", la scuola presso la quale il CREMIT ha attivato una maxi-sperimentazione per il curricolo di Media Education nella scuola primaria e secondaria di secondo grado.
In quest'occasione ho provato a ragionare sugli spunti, di riflessione e operativi, provenienti dalla Raccomandazione del 20.08.2009 della Commissione Europea su "Media Literacy in the digital environment for a more competitive audiovisiual and content industry and an inclusive knowledge society".
Isolo quattro affermazioni "pesanti" della Raccomandazione (probabilmente sfuggita ai più, ancora intenti ad occupazioni più amene sulle spiagge o sulle cime del Belpaese):
1) la Media Literacy è "un fattore importante per la cittadinanza attiva nell'odierna società dell'informazione" (art. 3);
2) la Media Literacy "si riferisce alla capacità di accedere ai media, di capire e valutare criticamente i diversi aspetti dei media e i loro contenuti e di creare comunicazioni in una varietà di contesti" (art. 11);
3) la Media Literacy "è un'abilità fondamentale non solo per i giovani, ma anche per adulti e anziani, genitori, insegnanti e professionisti dei media" (art. 15);
4) "Le modalità di inclusione della Media Literacy nei curricoli di scuola a tutti i livelli sono primaria responsabilità degli Stati membri" (art. 18).
Si tratta di quattro affermazioni di fondamentale importanza. Vi si sostiene: la stretta relazione tra competenza mediale e cittadinanza; il carattere composito di questa competenza, non solo tecnica, ma di lettura critica dei dati e di scrittura creativa; la trasversalità della Media Literacy rispetto a tutte le età della vita; l'obbligo per la scuola di farsene carico.
Su quest'ultimo punto nella nostra sperimentazione abbiamo precorso i tempi, disegnando un curricolo integrato che fa della Media Education uno degli assi portanti dell'offerta formativa attraverso tre scelte strategiche:
1) la corresponsabilità degli insegnanti disciplinari. La Media Education non è una disciplina a sé, ma un monte-ore interstiziale alle diverse discipline che viene speso in maniera equilibrata tra laboratori co-gestiti da esperti e insegnanti e riprese da parte dei singoli insegnanti nelle loro discipline;
2) la presenza di una figura specifica di media educator con funzione di coordinamento e supporto per gli insegnanti;
3) la collaborazione organica con un centro di ricerca (nel nostro caso il CREMIT).
L'esperienza partita lo scorso anno sta dando risultati superiori alle attese e in netto anticipo rispetto agli orientamenti di sistema della scuola italiana. Siamo consapevoli di non occuparci solo di strumenti tecnologici, ma di preparare i cittadini di domani.

Monday, September 14, 2009

Cl@ssi 2.0



Tra l'8 e il 10 settembre si è svolto presso il Centro Congressi di Milano Fiori, il seminario nazionale di avvio del progetto Cl@ssi 2.0 del MIUR per le regioni del Nord (analoghi seminari si sono tenuti nella stessa settimana a Montecatini e a Palermo per le altre regioni).

Nel contesto del seminario, reagendo alla relazione-quadro di Giovanni Biondi, Capo-Dipartimento dell'Innovazione, ho ragionato attorno al concetto di Didattica 2.0 attraverso 4 descrittori.


1. Oltre la contrapposizione di teoria e pratica
Una didattica 2.0 si colloca oltre l'ingenua supposizione che la pratica sia solo l'applicazione della teoria. Al contrario, essa pensa la pratica proprio come luogo privilegiato della concettualizzazione. Si tratta di temi cari alla ricerca didattica: richiamano l'idea dell'apprendistato cognitivo così come sviluppato da Collins, Brown e Newman) e la convinzione che il contesto sia un'occasione generativa (Cognition & Technology Group at Vanderbilt).

2. Dalla trasmissione alla costruzione
Una didattica 2.0 assiste allo spostamento del baricentro dell'agire dalla centralità della produzione discorsiva alla centralità della produzione di conoscenza, come il lavoro pionieristico di Scardamalia e Bereiter attorno allo CSILE (Computer Supported Interactive Learning Environment) documenta. Cosa voglia dire lo si comprende non appena - per restare al caso della LIM - si provi a concettualizzarla non solo secondo la metafora dello schermo (appesa al muro, per proiettare contenuti), ma anche secondo la metafora della finestra (punto di contatto, grazie a Internet, trala classe e il mondo) o più opportunamente come tavolo di lavoro (il che si ottiene, ad esempio, "sdraiandola" per terra o sopra un tavolo).

3. Dalla tecnologia ospite alla tecnologia ambiente
Il modello dell'aula dedicata (l'aula computer, l'aula audiovisivi) traduce un'idea di eccezionalità: è un luogo in cui non si può andare sempre, con il risultato che il consumo di tecnologia in scuoal secondo questo modello è "festivo", non feriale. Al contrario, la tecnologia in classe si naturalizza, diviene invisibile come tecnologia. Da questo punto di vista la Classe 2.0 rappresenta il "quinto livello" dell'integrazione di tecnologia in scuola (Figueira, 2005):
1) exploratory (è il livello degli insegnanti pionieri, dei guastatori che sondano terreni sconosciuti quando tutti gli altri non ne sospettano nemmeno l'esistenza);
2) supported (è la fase del blended, del Software dedicato, della tecnologia pensata come strumento e facilitatore);
3) strategic (è il livello del cambiamento di sistema, come il progetto Scuola digitale del MIUR attesta);
4) mission critical (è il livello della scuola che diviene polo di eccellenza in materia di tecnologia, facendone un punto fisso della sua mission e un tratto specifico della sua offerta formativa);
5) transformative (è il livello in cui la tecnologia trasforma le pratiche didattiche e di apprendimento).

4. La centralità del fare e del collaborare
La classe 2.0 è, infine, una classe che si roganizza attorno a due idee didattiche: l'idea del laboratorio (come da Freinet in avanti è stato teorizzato) e quella della comunità di apprendimento (Jonassen). Vengono in primo piano in tale prospettiva:
- la centralità degli apprendimenti;
- il problem solving;
- la metacognizione;
- la coinvestigazione;
- la scrittura collaborativa.

Wednesday, July 15, 2009

Autonomia

A Valgrisenche, presso il Vieux Quartier, si è svolto il terzo seminario del ciclo "Media, storia, cittadinanza" organizzato dal CREMIT in collaborazione con l'Istituto Storico della Resistenza di Torino. Il seminario verteva su due parole-chiave: autonomia e narrazione. Faccio alcune sottolineature sul primo dei due termini.
Tre mi sembrano le questioni da mettere in agenda al riguardo, da organizzare attorno a tre coppie di termini:
- sfera pubblica/sfera privata;
- apprendimento insegnanto/non insegnato;
- autonomia/eteronomia.

1. Più che di erosione della sfera pubblica in funzione di un processo di chiusra nel privato (con quel che ne consegue a livello di passaggio dalla civitas al civis), preferirei piuttosto parlare - guardando alla società attuale - di un'esplosione della seconda nella prima. Noi viviamo in una società estroflessa che:
- ha ridefinito il confine tra pubblico e privato (spostandolo sempre più c0sì da riconfigurare come pubblici molti momenti ed eventi tradizionalmente ritenuti privati);
- ha promosso forme di partecipazione perifierica e a bassa definizione (come nel Social Network);
- sviluppa forme di partecipazione inibita nella meta, non trasformativa, basata sulla discorsivizzazione.
I media - soprattutto i social media - hanno a che fare con tutte queste forme.

2. La tesi del carattere autoalfabetizzante dei media pare essere confermata dalla diffusione dei media digitali e del Web 2.0. Non c'è bisogno di insegnare ai bambini ad usarli: li sanno già usare meglio degli adulti. Ma nascono a questo riguardo alcune domande:
- saper fare da soli significa aver appreso?
- imparano proprio da soli o non dipendono in ogni caso dalla socializzazione orizzontale (i pari) o dai contesti culturali entro i quali sono inseriti?
- quel che possiedono sono skill o competenze? Sono abilità operative o riflessive?
Il problema vero è che le agenzie educative pretendono di insegnare quel che i più giovani già posseggono: skill, abilità operative.

3. Viviamo in una società contraddittoria che da una parte delega all'individuo (come dimostrano il Welfare delle libertà, la logica dell'accreditamento, la voucherizzazione), dall'altra erige a primo problema la legalità, la normazione, la regolamentazione.
Il dispositivo può essere letto come sintomo di una incapacità ad educare le coscienze: lascio fare, delego e mi preoccupo solo della sanzione. Così il meccanismo va in stallo, non c'è spazio per la crescita individuale.
Ma allora come si educa l'autonomia? Serve la testimonianza. Come osservava Kant nella seconda Critica, se mi imbatto in un potente, il mio capo si china ma il mio spirito no; di fronte invece al mendicante può essere che il mio capo non si chini, ma il mio spirito sì.
Questo sposta il problema dell'autonomia dei nativi digitali sulla generazione adulta:
- per insegnare l'autonomia gli adulti devono saperla testimoniare;
- questa testiomonianza conferisce loro autorità, un'autorità "democratica" che consente all'adulto di essere significativo senza negare lo spazio di libertà dei più giovani.

Saturday, July 4, 2009

Fenomeno Facebook


Venerdì scorso mi sono trovato in una conferenza pubblica (a Gignese, sul Lago Maggiore) a riflettere sul fenomeno Facebook. L'occasione è stata utile per fare ordine all'interno di una serie di appunti, impressioni, idee che sulla questione avevo già fissato (e parzialmente pubblicato in un contributo su "Vita e Pensiero", 2009, n. 1) e sto organizzando in vista di un articolo di taglio antropologico che una rivista di Teologia mi ha chiesto di scrivere per un numero monografico sul tema della persona.


Organizzo la mia riflessione attorno a quattro domande-chiave:
1) cosa è Facebook?
2) dove, quando e perché nasce?
3) quali funzioni svolge?
4) a che rischi eventuali espone l'utente?

1) Cosa è Facebook? Si può rispondere a tre livelli.
Sul piano tecnologico, Facebook è un applicativo del Web 2.0, per la precisione un Social Software. Due precisazioni sono d'obbligo. Quando si parla di Web 2.0 si fa riferimento alla "seconda generazione" del Web, caratterizzata dal concetto-chiave che la piattaforma non è più il software, ma il Web (come ben evidenzia il "mondo Google" con tutti i suoi servizi). Dentro il Web 2.0, il Social Software rappresenta una generazione di applicativi la cui funzione è di rendere possibile la condivisione di contenuti digitali (testi, immagini, video), i propri commenti ad essi, la categorizzazione degli stessi (tagging).
Sul piano materiale, invece, Facebook è un album, un portfolio che consente di raccogliere e condividere immagini, filmati, note di testo, messaggi, con altri utenti della Rete.
Infine, sul piano sociale, Facebook è un sistema per ripristinare, attivare e mantenere contatti con altre persone, confermando l'ipotesi della Teoria dei sei gradi separazione (ha anche un gruppo in FB attraverso il quale si può partecipare all'esperimento). Tra le madeleines più straordinarie e commoventi che mi sono capitate a questo riguardo negli ultimi messi: il mio amico Lorenzo, più visto dopo la prima elementare e ritrovato in FB 40 anni dopo; la mia amica Giselda, oggi in Nuova Zelanda, anche lei ritrovata in FB dopo almeno 20 anni.

2) Dove, quando e perché nasce?
FB nasce nel 2004, all'Università di Harvard, ad opera di uno studente allora diciannovenne, Mark Zuckerberg, con due funzioni:
- consentire alle matricole di orientarsi nel campus;
- favorire il ricongiungimento degli alumni dopo gli anni dell'Università.
Questa duplice vocazione rimane intatta anche oggi che FB è il social network più diffuso al mondo, con duecento milioni di utenti nel mondo (dato di aprile 2009):
- la funzione di orientamento negli usi friendship driven, favorendo la (ri)costituzione di reti amicali, disegnando mappe di appartenenza geografica (come nel gruppo "Italiani"), autoironicamente etnica ("Noter de Berghem"), di genere ("Amici del Milk"), ecc.;
- la funzione di gestione dei contatti negli usi interest driven, aggregando comunità di interesse e guidando l'ingegneria sociale attraverso la capitalizzazione dei contatti con le persone (anche se su questo aspetto specifico altri social software svolgono meglio la funzione, come Linkedin).

3) Quali funzioni svolge?
Mi pare di poterne indicare almeno tre.
FB svolge anzitutto una funzione antropologica. Infatti costituisce per giovani e meno giovani un momento di effettiva costruzione del Sé, attraverso:
- la possibilità che offre all'utente di fornire una propria autorappresentazione (le famose "fotine" di FB);
- l'opportunità che fornisce di autonarrarsi (mediante le informazioni su gusti, tendenze, scelte e quant'altro che si possono inserire nel profilo);
- le narrazioni condivise con gli altri (dai messaggi in bacheca, alle chat che si possono intrattenere con gli utenti che sono connessi mentre anche noi lo siamo, le proprie "note", un vero e proprio blog interno).
In tutti questi casi l'elemento che spicca è l'estroflessione del processo di costruzione del Sé, un processo che riguardava in passato solo l'interiorità del soggetto e che oggi passa in maniera sempre più decisa dallo spazio pubblico.
FB svolge anche una funzione sociale. Mi sembra che lo faccia sottolineando il valore della relazione per la relazione. Anche in questo caso si possono portare diversi esempi a supporto:
- la comunicazione fàtica (ben rappresentata dalla funzione che consente di mandare un "poke" a un amico o di rispondere a un suo "poke");
- la comunicazione non finalizzata (come quando veniamo taggati in qualche fotografia);
- la cross-comunicazione (resa possibile dalle notifiche di eventi che, proprio perché visualizzabili sulla propria home page, vengono estesi anche al proprio social network);
- la comunicazione ludica (a base di giochi, quiz, ecc.);
- la comunicazione inclusiva (tipica degli inviti a gruppi o ancora una volta ad eventi).
L'elemento rilevante mi pare sia a questo livello la confusione dei retroscena che FB produce. Il retroscena, nella sociologia della performance di Goffman, è lo spazio che l'individuo condivide solo con chi vuole e al quale riserva il proprio "volto privato". Nel retroscena si dismettono le maschere ufficiali, i ruoli formali, ci si sente più liberi. E' quello che succede in FB, dove però il retroscena è... pubblico. Occorre terlo presente.
Terza e ultima funzione di FB: la funzione politica. A questo livello si può dire che FB costituisca un potentissimo strumento di convocazione, ovvero di pressione istituzionale. Lo fa attraverso:
- la circolazione delle opinioni nello spazio pubblico (come quando scrivo delle note, o ricorro alla funzione di blog embedding che mi consente di importare - come nel mio caso - il mio blog in FB);
- l'organizzazione del consenso e il movimento di pressione sull'opinione pubblica (come quando si aprono gruppi o si avviano petizioni);
- il raccordo e la mobilitazione degli individui e dei gruppi (soprattutto attraverso gli eventi, come il recente caso Iran ha confermato).

4) Quali rischi comporta?
Un ultimo accenno ai rischi di FB, che mi sembra siano un po' gli stessi degli altri applicativi del Social Network. Indico i due principali:
- la perdita del controllo sui propri dati personali. Non è solo un problema tecnico (i dati rimangono sui server anche dopo l'eventuale cancellazione del mio account), ma anche sociale: infatti anche se i miei dati non li colloco io in FB, lo potrebbe fare uno qualsiasi dei miei amici, come quando vengo taggato in fotografie che io magari mai avrei pubblicato;
- il fattore-tempo. Con i nuovi media c'è un problema di manutenzione e un problema di saturazione. Di manutenzione: aggiornare i nostri profili nel Web 2.0 occupa tempo, che si aggiunge al tempo necessario per rispondere alle mail. C'è un problema di sostenibilità. Di saturazione: i nuovi media, sempre disponibili, assorbono anche i nostri non-tempi, quei tempi in cui non facevamo nulla, restavamo in silenzio. Si tratta di una questione molto rilevante soprattutto per le giovani generazioni (come attesta un bel libro di Giuseppe Ardrizzo cui ho avuto il piacere di partecipare).


Friday, June 26, 2009

Requiem per E.R.


La settimana scorsa, dopo 15 anni, si è conclusa la serie di E.R. Medici in prima linea. Era già programmato. Sarebbe successo anche se Micheal Chrichton non fosse morto. Lo ha confermato Stephen Spielberg che insieme al romanziere ha condiviso l'ideazione e la produzione del telefilm. Dal giorno successivo eravamo già tutti orfani: parlo di noi, i seguaci, gli indefessi cultori che per 15 anni si sono fatto compagni di strada delle vicende di Benton e Carter, di Doug Ross e di Marc Green, e che hanno imparato a conoscere il reparto d'urgenza del Policlinico di Chicago come se fosse la propria casa (e infatti nel 2003 è stato emozionante in occasione di un viaggio nella capitale dell'Illinois riconoscere l'edificio, proprio sotto la line adella metropolitana).
L'ultima puntata è stata un estratto assolutamente eloquente delle ragioni che hanno fatto di E.R. un caso, forse il più straordinario prodotto di fiction della storia della televisione. Parlo di aspetti narrativi e di linguaggio, che provo a richiamare sinteticamente.
La sceneggiatura. Di qualità. Straordinaria. Mai una caduta. E' sempre stata il motore della serie e l'ultima puntata lo ha confermato. Una puntata costruita a chiasma e su un duplice livello narrativo.
A chiasma, perché ha messo in relazione la fine e l'inizio, la morte e la vita. Mentre il marito di un'anziana coppia accompagna per il suo ultimo viaggio la moglie da anni malata di sclerosi multipla, Carter inaugura il nuovo "Carter Centre" alla memoria del figlio e la figlia di Marc Green, ora studentessa di medicina, entra al Policlinico. Ogni fine è un nuovo inizio, nella più grande sofferenza è nascosto il germe di una nuova gioia. E' l'essenza della medicina, è la vicenda della vita.
E poi il doppio livello narrativo. La puntata, a livello meta, porta in scena un altro distacco: il distacco dello spettatore dalla serie che da lui prende congedo. Anche qui la morte. Ma poi lo zoom all'indietro dell'ultima sequenza, mentre riconsegna il Policlinico a Chicago, prelude al fatto che anche noi ricominceremo, prima o poi riusciremo a posare di nuovo lo sguardo da qualche parte.
Il linguaggio. Anche su questo punto E.R. ha fatto scuola, soprattutto per l'uso "aereo" della camera, per i suoi piani-sequenza straordinari. Una tecnica coinvolgente ma di difficile sostenibilità, sia per gli operatori (chiamati a "montare" le scene in tempo reale cucendole con il proprio movimento sul set) che per gli attori, di fatto sempre in scena e mai del tutto consapevoli di quel che potrebbe succedere.
Un'ultima annotazione. Il successo di E.R. è anche legato al fatto che per la prima volta nella storia del medical le storie da raccontare sono quelle dei medici e solo di riflesso quelle dei pazienti. Storie orizzontali (che si aprono e si chiudono nel corso della stessa puntata) e storie verticali che attraversano più puntate; storie che scavano nelle fragilità, negli slanci, nell'umanità a tutto tondo dei protagonisti; storie che in quindici anni hanno messo a tema tutti i conflitti di coscienza e le grandi questioni che l'etica medica oggi si trova ad affrontare.
Ci mancherà tutto e ci mancherà ancor di più perché i medical italiani che di E.R. provano a prendere il posto dimostrano impietosamente la loro natura di grottesche caricature.

Thursday, April 9, 2009

Gli amici Americani


"Dear Prof. Rivoltella, We have seen the images of the aftermath of the earthquakes in L’Aquila and Castelnuovo and would like to send our hope that you, your family, and your friends are safe and well. Please know that you are in our thoughts and prayers. Sincerely, Kristin".

"Hello Dr. Rivoltella. Upon seeing the devastating aftermath of the earthquakes in L’Aquila and surrounding regions, our thoughts are with you. I hope that you, your family, and your friends are all safe. Please let us know if we can be of any assistance to you in this difficult time. Best regards, Julia".

Questi due messaggi mi sono arrivati ieri. Devo dire che non è stata una buona giornata. Stavo rimuginando tra me e me sulle solite beghe del solito hortus conclusus accademico. Insomma: tristezze. Ed ecco le due mail. Julia è il Development Editor di IGI Books, Kristin il Director of Editorial Content dello stesso editore. Mi hanno seguito nella pubblicazione del mio libro americano sulla Digital Literacy. Ci siamo conosciuti e frequentati via mail, per ragioni professionali. Come mi è capitato tante volte, in Italia, in Spagna, in Brasile, in Francia, in ogni Paese in cui siano usciti miei contributi sui soliti temi, educazione, media, tecnologie. Oltre tutto IGI è un grosso editore, il principale negli USA in materia di tecnologia. Vuole dire centinaia, forse migliaia di autori. Bene, Julia e Kristin, ciascuna di suo, hanno avuto un pensiero per il loro autore italiano, si preoccupano, promettono preghiere per tutti, chiedono se possono fare qualcosa.

Io non so se questo abbia a che fare qualcosa con l'America e con gli americani. So bene che non si può e non si deve generalizzare: il capitale sociale sta venendo meno in America come da noi. Lo scriveva qualche anno fa Robert Putnam in un bel libro (Bowling alone) in cui il bowling diventava emblema della costruzione di una Nazione - il bowling come spazio per l'attivazione di reti sociali. Ma non credo che queste mail non abbiano a che fare con lo spirito del popolo. Sono figlie di una genuinità che forse da europei guardiamo spesso con supponenza. La "genuingenuità" che poi porta gli amici d'Oltreatlantico a dividere il mondo in buoni e cattivi, a sentirsi unti da Dio, ... Ma certo è che quella stessa qualità morale poi genera mail di questo tipo. Mia sorella che vive negli USA, così come diversi amici italiani che lavorano in Università e centri di ricerca americani mi confermano la stessa cosa: una gara a informarsi, a rendersi disponibili, a capire in che cosa potersi rendere utili. Non è forma. Non è una danza sociale. E sollecitudine vera, preoccupazione dell'uomo per l'uomo: una sorta di reviviscenza dello spirito dei pionieri, "costretti" ad aiutarsi proprio perché tutti in viaggio verso la loro frontiera, consapevoli di essere fratelli proprio perché tutti solo uomini in quel grande spazio aperto.

Così vengono alla memoria le parole dei Walt Whitman, che in Presso la riva dell'Ontario azzurro canta: "Questi Stati sono il poema più vasto, / Qui non c'è solo una nazione, ma una brulicante / Nazione di nazioni, / Qui il fare degli uomini concorda con il vasto operare / del giorno e della notte. / Qui è ciò che avanza in magnifiche masse poco curanti / dei particolari, / Qui la rudezza, le barbe, l'amicizia, la combattività che l'anima ama, / Qui le folle, i cortei, l'uguaglianza e la diversità, che / l'anima ama". E la commozione prende il sopravvento, noncurante di apparire ingenua. Appunto.

Sunday, April 5, 2009

Nuovi media e cittadinanza


Questo post origina da un invito che l'Istituto Storico della Resistenza di Torino mi ha fatto per intervenire al Seminario "I giovani e la Costituzione" che si è tenuto a Torino il 4 aprile scorso. Il tema assegnatomi era: "Didattica dei nuovi media". Mi ha suggerito subito due possibili sviluppi.
Il primo. Riflettere sulle specificità didattiche proprie degli strumenti, cioè quelle specificità didattiche che sono abilitate dalle loro affordances. Incamminarsi su questa strada implica di ragionare su tali affordances in relazione ai loro usi didattici. Ad esempio interrogarsi sull'autorialità dei nuovi media, sulla loro portabilità, sulla loro socialità.
Il secondo. Riflettere sulla necessità di dare risposte da parte della scuola agli aspetti che riguardano l'uso sociale dei nuovi media. Tra i tanti, l'economia dell'attenzione che essi comportano (diversa da quella implicata dalel forme più convenzionali di comunicazione) e la pluricollocazione nello spazio e nel tempo dei soggetti.
Ma in ciascuno di questi casi mi veniva da chidermi: e la Costituzione?
Così ho provato a cambiare prospettiva e a chiedermi cosa implichino i nuovi media rispetto alla didattica di scuola nel loro inerire ai temi e ai valori della Costituzione: che rapporto esiste tra nuovi media, educazione e cittadinanza?
La risposta passa attraverso la descrizione di tre frames:
- il frame alfabetico;
- il frame critico;
- il frame autoriale.
Ciascuno di essi verrà articolato sulla base di un identico schema:
- il punto di vista portato in gioco;
- il tipo di ragionamento in esso implicito;
- alcune osservazioni.

Il frame alfabetico
Questo primo frame ha a che fare con il fatto di insegnare i linguaggi, di usare gli strumenti.
Il punto di vista che esso porta in gioco è quello classico delle politiche educative. Storicamente, nel nostro Paese, non è mai stato impostato diversamente che così.
Il ragionamento che spiega questo punto di vista (il sillogismo alfabetico) si può articolare pressapoco così:
- oggi i ragazzi vivono in una società dell'informazione;
- compito della scuola è preparare i ragazzi alla vita;
- compito della scuola è preparare i ragazzi a vivere nella società dell'informazione.
Tre rapide osservazioni.
Anzitutto qui si incontra una prima dimensione della cittadinanza tematizzata dai nuovi media, la potremmo chiamare cittadinanza funzionale. Essa ha a che fare con il diritto all'accesso, con l'inclusione.
Secondo. Occorre tenere ben presente (e non sempre le politiche educative lo hanno fatto) che i nuovi media sono autoalfabetizzanti. Questo implica che la scuola non possa pensare di insegnare l'ABC ai ragazzi: l'ABC già lo sanno, meglio di noi. Si tratterà piuttosto di insegnare gli usi più sofisticati, di insistere sulla dimensione estetica, di elevare l'uso delle grammatiche e della sintassi.

Il frame critico
La logica cambia. Non si tratta più di insegnare i linguaggi, ma di far riflettere sugli usi, di problematizzare le pratiche.
Il punto di vista è quello tipico della Media Education, di cui la costruzione del pensiero critico è da sempre una delle principali ossessioni.
Il ragionamento che spiega questo punto di vista (il sillogismo critico) è il seguente:
- oggi i nuovi media sono protesi naturali della vita individuale e sociale dei ragazzi (e non solo dei ragazzi);
- compito della scuola è fornire strumenti culturali per elaborare i loro vissuti;
- compito della scuola è produrre riflessione culturale (anche) sui nuovi media.
Ancora tre osservazioni.
Incontriamo qui una seconda dimensione della cittadinanza, la cittadinanza democratica. Essa ha a che fare con valori come la dignità, la libertà, la tolleranza, la solidarietà, il pluralismo.
Secondo. Mai come nel caso dei nuovi media è vero che il mezzo è il messaggio. Nel caso della televisione il problema era di educare a una ricezione critica dei messaggi; nel caso di Internet e dei dispositivi mobili si tratta soprattutto di educare a un uso critico dei mezzi. Lo slittamento è dai contenuti alle pratiche.
Infine, il compito della scuola: insegnando il pensiero (critico) essa può (deve) diventare palestra di democrazia.

Il frame autoriale
Significa preparare i giovani a saper occupare lo spazio pubblico.
E' il punto di vista del media-attivismo che oggi assume diverse forme: quella del microgiornalismo, del blogging, dell'open source e dell'open access.
Il ragionamento che spiega questo punto di vista (sillogismo autoriale) è il seguente:
- oggi la demediazione (il fatto che per pubblicare messaggi non servano più gli apparati) consente a chiunque di essere autore ed editore, di prendere la parola nello spazio pubblico;
- compito della scuola (fin dall'antica Grecia) è di essere spazio di apprendistato poltico;
- compito della scuola è di costruire cittadini responsabili.
Ancora tre osservazioni.
Questo terzo frame inquadra la cittadinanza attiva. Essa ha a che fare con la partecipazione, il servizio, la responsabilità, l'esercizio del dissenso, il diritto/dovere all'informazione.
Secondo. Qui ci sono due rischi da evitare, quelli che Bertolini chiamava "eccesso di io" e "eccesso di mondo". L'eccesso di io rinvia al riflusso nel privato, alla centratura dell'io sul suo utile particolare; l'eccesso di mondo fa riferimento alle diverse forme di assolutizzazione del particolare sociale, come l'identificazione con il popolo, l'etnia, un'ideologia.
Terzo. Il compito della scuola qui è di insegnare a pensare e ad agire politicamente.

Concludendo
Se è vero quello che siamo venuti dicendo, allora la didattica dei media e la Media Education sono veramente una forma (una parte?) dell'educazione alla cittadinanza. Sarebbe un delitto non includerli dentro l'ora di Costituzione e cittadinanza.
Certo qui si apre un nuovo e più complesso dibattito. Cosa includere? E cosa escludere? Cosa si intende per educazione alal cittadinanza?
A me piace definirla proprio con le parole di Bertolini: è far scoprire la gioiosa fatica di pensare e di agire sensatamente.

Wednesday, April 1, 2009

Serve più disciplina?


Provare a ragionare di disciplina presenta sempre una difficoltà, che sembra insormontabile: la difficoltà che proviene dalla contraddizione tra il dire e il fare, la parola e l’azione. Come posso discutere di disciplina, fornire indicazioni su come ottenerla, se in fondo io stesso faccio fatica a imporla? Più in generale: come posso parlare di educazione in modo da fornire a chi mi ascolta delle indicazioni, se io stesso sono un “imperfetto genitore”, per dirla con Marcello Bernardi (1988).
Dall’impaccio mi toglie sempre il fatto di tornare con la memoria alle parole di Turoldo (1993; 114) che in una sua omelia rilevava una contraddizione analoga tra la sua inadeguatezza di uomo peccatore e le indicazioni che invece nella sua attività di predicatore forniva a chi accorreva ad ascoltarlo. Turoldo non trova una soluzione, la contraddizione rimane; ma miracolosamente la sua parola dà prova di essere efficace comunque, funziona “ex opere operato” e per fortuna non “ex opere operantis”. E questo lo sprona a dire, a predicare anche se non sempre riesce a praticare: "posso anche sentire la distanza fra quello che dico e quello che sono, è vero, ma intanto almeno diciamo quello che dovremmo essere. Pensate Cristo: “Sono venuto a portare la guerra”. E ancora: “Se un occhio ti scandalizza, càvalo”, e poi: “se una mano ti scandalizza, tagliala”. Noi altri invece abbiamo inventato tutta questa ovatta. Ecco il pensiero che dicevo all’inizio: quando comparirò, almeno questo potrò dire al Signore: la tua Parola ho cercato di predicare, non sarò certo sempre riuscito a praticarla, ma almeno a predicarla, sì! E forse se riuscissimo almeno a predicarla potremmo essere anche più credibili e forse ci aiuteremmo ancora di più a essere coerenti".
onfortato da questa consapevolezza provo a introdurre il mio discorso, che muove da una constatazione e si lascia attivare da tre domande.
La constatazione. Oggi attorno alla disciplina (o meglio, alla mancanza di disciplina) pare organizzarsi una vera e propria urgenza educativa. I ragazzi non hanno più rispetto, gli adulti sembrano incapaci di ottenerlo; la maleducazione, la mancanza di regole, il bullismo, la trasgressione in tutte le sue forme paiono essere le nuove inquietanti cifre di identificazione delle giovani generazioni; la famiglia e la scuola si scoprono impotenti, incapaci di trovare soluzioni praticabili.
Proprio ragionando attorno a questa percezione di urgenza, attorno a questo clima da “millenarismo educativo”, mi è tornato tra le mani un passo che ricordavo di aver letto e che mi aveva stupito, tanto mi sembrava spiazzante rispetto a certi nostri “adagio” come quello che invita sempre a rivolgersi al passato come a una mitica età dell’oro o dell’innocenza purtroppo perduta (“Una volta sì, non come oggi…”):

“Eh già! Non c’è da stupirsi. I ragazzi d’oggi fanno tutto quello che vogliono. Non c’è più autorità né rispetto. Quando eravamo giovani noi, nessuno osava replicare agli ordini del padre…”. L’osservazione non è né fuori luogo né sbagliata. Ma bisogna anche chiedersi perché i ragazzi, oggi, fanno quello che vogliono, perché non c’è più autorità e perché i ragazzi si ribellano ai propri genitori. Per avere autorità, non basta urlare e picchiare sodo; ci sono ben altri fattori che subentrano e cooperano alla formazione delle condizioni perché possa esistere la vera autorità.

Sembra si descriva la situazione di oggi. Invece è Freinet (1978; 34), il maestro Celestine Freinet, che scrive, nel 1959. Teniamolo presente, prima di caricare l’oggi di eccessive preoccupazioni: stiamo parlando di problemi che non rappresentano delle variabili, ma delle costanti, in educazione. Servirà ad affrontarli con maggiore serenità.
Le domande. In Brasile, dove spesso mi reco per attività di ricerca e di insegnamento presso alcune Università con cui negli anni si è sviluppata una arricchente collaborazione, usano una bella espressione per indicare le domande che favoriscono l’orientamento di una ricerca. Parlano di “perguntas norteadoras”, di “domande che indicano verso il nord”: sono le domande che indicano la stella polare, ti mostrano la rotta, tracciano la strada che dovrai seguire.
Bene, anch’io voglio indicare tre domande di questo tipo all’inizio del mio percorso. Eccole:
Cosa dobbiamo intendere per disciplina? Qual è il significato di questo termine?
La disciplina occorre? E quale?
Perché ne abbiamo perso le tracce, o forse noi stessi l’abbiamo liquidata? E si può ricuperare? A che condizioni? Con che vantaggi per chi educa e con quali attenzioni?

Il significato della disciplina

Quando parliamo di disciplina facciamo riferimento di solito a un’accezione del termine che si forma lungo tre tradizioni di riflessione: quella pedagogica, quella psicologica e quella sociologica.
Per la pedagogia (penso in particolare a Comenio, a Herbart, a Locke) e per la tradizione educativa che da essa deriva, disciplina è un sistema di regole, o meglio è il rispetto di un sistema di regole. Si tratta quindi di un codice di comportamento cui attenersi, di un protocollo di modi di dire e di fare che regola lo stare a scuola come lo stare in famiglia. Nel sistema dell’istruzione la sua importanza è sempre stata sottolineata, anche attraverso la notifica di una valutazione che si esprime(va) in un voto (la “condotta”).
La ragione filosofica ultima di questa importanza rinvia in fondo a un’antropologia ben precisa, quella che pensa al rapporto tra natura e cultura come necessariamente caratterizzato da un processo in cui alla natura, di per sé disordinata, viene dato ordine dalla cultura. E infatti del ragazzo indisciplinato si dice di solito che “si comporta come un selvaggio”, che “non ha regole”: è l’istanza della civilizzazione che si impone a quella della libera espressione della natura individuale (e contro cui Rousseau reagiva nel suo Emilio). In buona sostanza, rovesciando il senso del famoso slogan di Don Milani, per la tradizione pedagogica “l’obbedienza è (sempre stata) una virtù”.
La psicologia (in modo particolare la psicologia del profondo, con Freud, e quella relazionale con Allport) fornisce una spiegazione a quanto già fissato dalla tradizione pedagogica, rafforzandola. In questa prospettiva la disciplina è funzionale all’interiorizzazione della norma e quest’ultima costituisce il male necessario senza di cui la convivenza civile sarebbe impossibile.
L’uomo, nel suo stato di natura, tenderebbe di per sé a lasciarsi guidare nel proprio comportamento dal principio di piacere. Lo si vede nel bambino molto piccolo: cerca la soddisfazione immediata della pulsione, piange se non arriva immediatamente, si seda solo quando viene soddisfatto. Una logica che non può essere dell’adulto: l’adulto deve imparare che vi sono pulsioni che non possono trovare soddisfazione immediata, ma solo dilazionata, o addirittura che non potranno trovare soddisfazione. Il principio di realtà rappresenta proprio questa logica di contenimento e di frustrazione della pulsione: vi sono cose che non posso fare subito, altre non le posso fare del tutto!
Questa funzione censoria, che ci dice cosa possiamo e cosa non possiamo fare, è esercitata dal Super-Ego. Nella topica freudiana della psiche, il Super-Ego rappresenta la norma interiorizzata, la parte di noi che avendo imparato cosa si può e cosa non si può fare presiede al controllo delle nostre pulsioni. È la funzione normalmente esercitata dal padre: il complesso del padre (o l’iscrizione del padre) diviene così sintomo di tutto ciò che dice della norma, dell’obbedienza, del controllo. Ciò di cui la contestazione alla fine degli anni ’60 cercherà di liberarsi sarà proprio questa funzione: i padri saranno il vero bersaglio della rivoluzione.
La sociologia (da quella funzionalista di Durkheim alla prospettiva neo-marxista di Bowles, Gintis, Bourdieu) aiuta a completare il quadro già descritto da pedagogia e psicologia. In questa prospettiva, la disciplina e il suo ruolo si determinano in relazione con il processo di socializzazione. Nella misura in cui ogni sistema sociale mira alla propria conservazione, esso ha bisogno che l’ordine sociale con le sue norme, i suoi valori, i suoi comportamenti codificati, si riproduca. La disciplina funziona in questo senso: riduce il margine di possibilità della trasgressione e della devianza, favorisce il mantenimento dello stato delle cose.

In sintesi, allora, la disciplina alla luce della rapida analisi che del suo significato abbiamo prodotto attraverso la lettura che le scienze umane ne hanno dato:
è imposta, non scelta;
è esteriore, formale, si impone all’individuo dall’esterno;
è un male necessario.

Quale disciplina

Se vale quel che abbiamo fino a questo momento discusso, parrebbe che la disciplina sia un non-valore, una categoria che funziona solo “in negativo”. Ma allora, serve?
La mia risposta – che funziona anche come tesi di fondo di tutto il mio intervento – è che se c’è autorità la disciplina non serve. L’insegnante autorevole non ha bisogno di imporre la disciplina ai suoi allievi: ottiene “naturalmente” un comportamento adeguato. Al contrario, quando si sente la necessità di imporre regole disciplinari è probabilmente perché non si è in grado di essere rispettati in virtù della propria autorevolezza. L’autorità non si impone, viene riconosciuta.
Perché venga riconosciuta, l’autorità deve essere un modello, un esempio, deve affermarsi “nei fatti e nella vita”. Tutti grandi maestri, come Socrate, come Gesù, hanno saputo improntare il loro insegnamento all’esempio: la condizione fondamentale dell’autorità è la testimonianza. Solo chi sa essere testimone riesce ad essere autorevole. Ci riesce perché per lui parlano i fatti, parla la vita.
Autorevolezza non è autoritarismo: l’autoritarismo chiede l’obbedienza per l’obbedienza, non mira a farsi riconoscere; vuole solo imporsi, ma si condanna a non poter mai capire fino in fondo se quello che ottiene non sia soltanto l’”inessenziale operare” (come diceva Hegel) di chi gli è sottoposto. Il testimone non si accontenta che i suoi discepoli facciano quel che dice; il testimone spera che attraverso il suo esempio possano perfezionare se stessi. Pretende di scrivere nelle loro anime: “da mihi animas, cetera tolle”; dammi le anime, tieni pure il resto!
Qui troviamo lo spazio per il ricupero della disciplina.
La disciplina di cui finora abbiamo parlato, quella che non serve se c’è l’autorità, possiamo definirla “disciplina oggettiva”. La disciplina oggettiva è eteronoma: come abbiamo visto si impone dall’esterno e chiede il rispetto della regola. Ad essa possiamo concedere al massimo l’utilità di svolgere una funzione di supplenza: in mancanza di autorità, aiuta a limitare i danni.
Ma c’è una “disciplina soggettiva” che cresce proprio nella relazione educativa e che non è resa nulla dall’autorità, anzi ne costituisce uno dei fini: lo si capisce se si torna a quanto poco sopra dicevamo a proposito della testimonianza e del suo essere rivolta al perfezionamento interiore di chi se ne fa discepolo.
Questa “disciplina soggettiva” che la testimonianza autorevole cerca di attivare, la possiamo intendere come:
- un processo/percorso di perfezionamento interiore. Quando ritorno in me stesso, quando mi concedo spazi di autoesame, quando individuo le mie debolezze e scopro su cosa devo lavorare per essere una persona migliore: in tutti questi casi esercito quel lavoro di perfezionamento che la disciplina soggettiva è;
- una tecnologia del sé. Tecnologie del sé sono per Foucault (Martin, Gutman, Hutton, 1998) quelle tecniche che, dalla sapienza greca alla tradizione monastica fino agli esercizi ignaziani, consentono all’uomo di esercitare un controllo su se stesso. Sono tecniche come la meditazione, l’ascesi, il controllo delle passioni: tutte forme di disciplina interiore;
- grazie a queste tecniche, la disciplina soggettiva ha per obiettivo di rendere libero l’uomo. E’ libero il saggio socratico quando scopre di non aver bisogno di nulla, è libero il cristiano quando scopre che “nulla gli manca e nulla lo turba, perché solo Dio gli basta”.

Raggiungiamo qui un risultato significativo. L’autorità, riconosciuta nella testimonianza, chiede al discepolo la disciplina interiore perché, attraverso di essa, impari ad essere libero. Alla disciplina “oggettiva”, eteronoma perché si impone dal di fuori, subentra la disciplina “soggettiva”, autonoma, perché sono io stesso che me la do e che la esercito imparando a diventare libero.

Si trova qui quello che Perrenoud indica come uno dei paradossi dell’educazione: rendere libero l’altro attraverso l’esercizio dell’autorità.

Dalla disciplina perduta alla disciplina ritrovata

Se si comprende fino in fondo il significato della disciplina e dell’autorità sulla scorta di quanto sinteticamente abbiamo cercato di suggerire, si fatica a capire perché negli ultimi decenni si sia cercato in tutti i modi di farne piazza pulita. Perché ci siamo disfati della disciplina? Perché abbiamo liquidato con essa l’autorità e il suo valore educativo?

La risposta può essere trovata in tre possibili motivazioni.

Vi è anzitutto un motivo storico. Abbiamo confuso l’autorità con la disciplina oggettiva riducendola ad autoritarismo. Ha pesato in questo l’apologia della disciplina e dell’autorità celebrata dal Fascismo, che ne ha fatto uno strumento di vessazione e disumanizzazione: nella misura in cui la Repubblica trova proprio nella negazione del Fascismo uno dei suoi fondamenti, è stato inevitabile che con esso venisse negata la caricatura dell’autorità in cui si era identificato.

In secondo luogo (motivo ideologico) abbiamo travolto l’autorità nel processo ai padri che abbiamo celebrato a partire dal ‘68. La disciplina e l’autorità sono state ritenute incompatibili con l’esercizio della libertà e della democrazia: ci si è convinti che solo eliminandole fosse possibile restituire all’individuo la possibilità di essere se stesso, di crescere libero.

Infine (motivo sociologico), soprattutto negli ultimi dieci-quindici anni, abbiamo liquidato l’autorità perché come adulti ci siamo accorti di non saperla più esercitare. In questo terzo caso stiamo parlando di una rinuncia. La crisi della funzione genitoriale e delle figure educative in genere sta sullo sfondo di questo processo.
Crisi della funzione genitoriale: perché la trasformazione dei tempi e delle forme del lavoro rende la carriera sempre più ingombrante e la stabilità economica sempre più difficile da raggiungere spingendo in avanti negli anni il tempo della generazione; perché c’è sempre meno tempo per i figli; perché spesso ci si trova a crescerli da soli e ci si convince che vadano protetti e non educati.
Crisi delle figure educative: perché crescono a dismisura i compiti di cui le agenzie educative vengono caricate (le tante “educazioni”, dall’ambiente alla sessualità, dalla cittadinanza alla salute, …); perché con proporzionalità inversa diminuisce vistosamente il prestigio sociale delle professioni educative; perché queste professioni ancora stentano ad essere pensate come tali e questo allontana la possibilità che si pensi con serietà alla loro professionalizzazione.

Tenere presenti sullo sfondo questi motivi costituisce la premessa indispensabile per qualsiasi tentativo si possa fare di giungere a un ricupero dell’autorità e della disciplina nel senso che sopra abbiamo provato a spiegare.
Questo ricupero impone tre scelte che costituiscono anche il passo finale del mio intervento.

Una scelta di principio. Occorre riappropriarsi dell’autorità attraverso un ricupero della testimonianza. Ricominciare a essere testimoni! Il problema non sono le giovani generazioni; il problema siamo noi adulti. Se non avremo il coraggio di tornare a percorrere i sentieri della testimonianza continueremo a non essere autorevoli, cioè non saremo significativi per i ragazzi che invece si aspettano da noi che lo siamo. Sapersene riappropriare significa ristabilire il dialogo tra noi e la loro libertà. Come dice bene Rahner (1975; 236):

La testimonianza, quale libera autorealizzazione dell’uomo testimoniante, fa appello alla libertà di chi l’ascolta

Una scelta di metodo. Occorre ritrovare i tempi e i modi per:
- l’ascolto e l’osservazione. Le ricerche recenti sulla condizione degli adolescenti ci dicono che pare terminata l’epoca della socializzazione orizzontale. L’avevamo salutata come una conquista: che la socializzazione fosse orizzontale ci pareva implicasse il guadagno di relazioni più paritarie, più democratiche; qualcuno si era illuso che tutto si potesse risolvere a livello di relazioni tra pari. Oggi sappiamo che vi è un prepotente ritorno del bisogno di socializzazione verticale. L’adulto ha la possibilità di tornare a essere significativo, ma non dimostra di saperla cogliere perché ha disimparato ad ascoltare, non sa osservare e quindi non riesce a capire quali siano i bisogni profondi dei ragazzi;
- l’esempio e la motivazione. Fare vale più che dire e spesso una parola detta al momento giusto, un tocchetto sulla spalla, una carezza sono più eloquenti di molti discorsi. La motivazione è fatta di attenzione, di incoraggiamento, di sollecitudine; è dire al ragazzo che ci sta davanti che per noi è importante;
- la responsabilizzazione. Dare responsabilità significa far sentire la fiducia. Chi non sa responsabilizzare non vuole correre rischi, si illude che il controllo sia più sicuro. Ma oggi la complessità sociale entro cui i più giovani vivono li sottrae completamente a qualsiasi possibilità di controllo da parte dell’adulto. Solo se sapranno essere autonomi ne potranno venire a capo e l’autonomia si costruisce solo attraverso la responsabilità;
- il confronto e la correzione. Vivere il confronto significa aprire uno spazio di mediazione, porre in relazione i punti di vista, discuterli senza doppi fini e senza non detti. Solo attraverso il confronto si può costruire la consapevolezza. Ma confronto non significa rinunciare a correggere. La correzione certifica il ragazzo nella sua esistenza, lo rende sicuro che per l’adulto lui è importante. Se ti correggo vuol dire che per me conti; al contrario se non ti dico mai nulla vuol dire che sono come tutti gli altri e mi confondo con la routine delle cose da fare. Il permissivo, chi si rifiuta di correggere, non educa ma sottoscrive la sconfitta dell’educazione:

Il permissivo, tutto sommato, è un autoritario incapace di farsi obbedire. (…) Il permissivo tende a lasciar cadere ogni responsabilità perché gli è stato sottratto l’unico strumento educativo che lui conosca: l’autoritarismo (Bernardi, 2002; 32-33).

La terza scelta è una scelta di stile. Essere autorevoli, insegnare la disciplina interiore per rendere liberi, vuol dire vivere l’amore esigente. Cosa significhi ce lo suggerisce Don Bosco, che così scrive negli Articoli generali del Regolamento per le case:

Farsi amare insieme ed anche temere dai giovani. Questa è cosa facile. Allorché i giovani vedono che un assistente è tutto sollecitudine pel loro bene non possono fare a meno che amarlo. Quando vedono che l’assistente non lascia passar cosa alcuna, ben inteso, cose che non vadano bene, ma di tutte le mancanze li avvisa, non possono fare a meno che aver di lui un certo timore, cioè quel timore reverenziale che si deve avere verso i loro superiori. Di una cosa deve guardarsi bene l’assistente ed è quella di non abbassarsi tanto coi giovani medesimi sia nei discorsi, come negli atti e specialmente nei giuochi: deve prendere parte in tutto, ma nello stesso tempo tenere un’aria di gravità, far vedere col suo contegno d’essere loro superiore (Braido, 2000; 339-340).

Riferimenti bibliografici


Bernardi, M. (1988). Gli imperfetti genitori. Milano: Rizzoli.
Bernardi, M. (2002). Educazione e libertà. Milano: Fabbri.
Braido, P. (2000). Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco. Roma: LAS.
Martin, L.H., Gutman, H., Hutton,P.H. (1997). Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé. Torino: Boringhieri.
Freinet, C., (1978). La scuola del fare. Bergamo: Junior.
Rahner, K. (1975). Osservazioni teologiche sul concetto di testimonianza, in Nuovi saggi V, pp. 117-140. Roma: Edizioni Paoline.
Turoldo, D.M. (1993). Il fuoco di Elia profeta. Casale Monferrato: Piemme.

Friday, March 27, 2009

A day in school in 2020


Yesterday I was in Turin. I was discussing the speech of one of my colleagues, Tracy Gray, from United States. Tracy's speech was very interesting and I mainly agreed with it. Anyway I have some comments to do about the title of the Congress itself (A day in school in 2020) and the trends of the discourses I've heard there.
First of all, in these last months I'm participating to congresses and seminars whose aim is to discuss about what school could be in the future, thanks to education technologies. Reflecting on this case (I imagine it should be better to discuss about what school IS NOW!) I remembered Barthes' words in the conclusion of his famous essay Mithologies. Barthes said there, that in mass societies all we are forced to misure ourselfes with discourses according to which things seem to be more than they really are.
What is Barthes talking about? He is talking about a tipical device of the social history of the media: we can name it "overdetermination of the meaning".
What is it? It is the second one of the three steps within a new technology is introduced in social systems. They are:
1) the invention (that is the creation of technology);
2) overdetermination of the meaning (it means to give to technology a major value than it really has);
3) uses (thanks to this meaning we give it, technology can spread out in social uses and be appropriated by the people).
How this may happen?
Normally people overdeterminates technology's meaning producing discourses able to support and enhance the social diffusion of technology itself. This is what happens when we say things like: "The future is what we build up".
The function of this discourses is to work as emancipation stories. One of this stories is implied by what people means saying: "Somebody says that technology will save us".
So, according to me, nowadays we are doing something like that about the relationship between school and education technologies. The risk is to built up rethorics whose mythologic use (in Barthes' sense) doesn't take in account the real problems we have here, that are teaching and learning practices really passing in the classrooms.
To be aware of these risks it is important to pay almost three main attentions.
First, we must keep in mind that traditional approaches to teaching are resistent to technology. Technology is not able to transform practices by itself; on the contrary, what usually happens is that people appropriates with technology using it according its known practices. So we need new "utilization frames" (Flichy).
Second, we need to consider not only technology, but also all the other variables concerning teaching and learning contexts: students' motivations and cultures, teacher abilities, parents cultures and ways of life, horizontal socialization in pairs group, and so on. Technology doesn't work alone, but become part of real life contexts and people experiences. So we cannot consider it whithout considering its relationships with these factors.
Finally, we must pay attention to some practical problems, the main of them are the relationship between formal and informal education, and between practicies and system. Normally people thinks that to bring Technologies 2.0 into the school could mean to bring social network into the school. It is uncorrect. Social networks live in the informal education space: school is a formal education context. Shifting between them means to imagine strategies that are proper to eachone of them. Finally, we all must be sure that working about practices in small contexts is not like to imagine system changes at the political point of view: the real difficult thing is to act on this secodn level, as it's easy to understand.

Sunday, March 22, 2009

Nati digitali?


Il titolo mi piace poco, devo dirlo. Mi piace poco perché insinua il sospetto che si sia già deciso in anticipo che i media digitali producono trasformazioni nei "nuovi" bambini e adolescenti che ci smanettano sopra. E invece le cose sono più complesse. Perché non è possibile isolare la tecnologia nella sua capacità di produrre effetti sulle persone da tutti gli altri elementi che nei contesti sociali interferiscono su questa relazione. I nati(vi) digitali leggono meno perché passano più tempo con i media? O passano più tempo con i media perché leggono meno? Ed è poi vero che leggono meno? Se si sta a quanto le ricerche dell'équipe di Morcellini hanno fatto emergere sui consumi culturali dei giovani si direbbe di no: e infatti nell'ultimo decennio risulta che leggono di più. Qundi, prima cosa: il rapporto tra soggetto e tecnologia va letto al riparo dalla tentazione di facili determinismi. Chiarito questo articolo il mio pensiero in tre passaggi.
1. I consumi. Qui mi interessano più i tratti che accomunano nativi e adulti (gli immigranti) che non quelli che ne demarcano il gap. Mi interessano di più perché sono messi in evidenza dalla ricerca recente e dai recenti sviluppi degli usi sociali della tecnologia. La mia tesi è che il divario tra nativi e immigranti si va facendo sottile. Penso a tre aspetti. Primo: la tecnologia si va facendo invisibile (Norman), e questo la rende più facile, anche per chi come l'adulto è tradizionalmente meno avvezzo a relazionarsi con essa. Secondo: per tutti (noi compresi) le tecnologie stanno sempre più diventando protesi di competenza sociale. Comode per dirsi cose spiacevoli o comuqnue imbarazzanti, in ogni caso sempre più "innestate" nelle nostre vite. Terzo: la tecnologia (soprattutto i cellulari) va definendosi come uno spazio interessante di relazioni intergenerazionali, luogo di negoziazione dei rapporti, anticamera di un ritorno del dialogo educativo.
2. I punti di attenzione educativi. Sono quattro, comuni alla preoccupazione educativa dei genitori di tutti i tempi. Li possiamo ridurre ai seguenti: luogo (da dove comunicano?), tempo (per quanto tempo e in quali tempi?), contenuti (cosa scaricano? cosa pubblicano?), relazioni (con chi comunicano e quali spazi sociali allestiscono?).
3. Linee di intervento. Le agenzie educative possono ragionare su questi punti di attenzione, presidiandoli secondo i loro specifici. In particolare due parole in più le spendiamo sulla scuola. Qui due osservazioni. La prima. Non è vero che la scuola è solo "giurassico tecnologico", è sempre in ritardo sul nuovo, vive nel passato, è luogo di insegnanti incompetenti e demotivati. Chi ci lavora sa che la scuola è al contrario spazio di molte eccellenze, di professionalità eccezionali, di buone pratiche. Il problema è far diventare tutto questo sistema. Ecco il punto. A questo riguardo ho tre indicazioni operative: a) concentrarsi sul mindware, sulla testa dell'insegnante, cioè sulla tecnologia che realmente fa la differenza; b) applicare alla tecnologia la stessa ricetta che la Media Education ha applicato ai media tradizionali, insegnare il pensiero critico; c) lavorare per la costruzione di un'appropriazione responsabile della tecnologia da parte dei ragazzi. Il tema della cittadinanza passa oggi in larga parte da qui.

Friday, February 27, 2009

Comunicare la scuola con il Web 2.0


Quando Stefano Rolando, subito prima o subito dopo che la scuola italiana entrasse nella stagione dell'autonomia, sottolineava la necessità per la scuola di comunicare "dentro" e "fuori", non a tutti risultava immediato capire cosa intendesse. Oggi, la disponibilità delle tecnologie 2.0 lo rendono molto più facile tracciando una linea di demarcazione tra il prima e il dopo.
Prima, all'epoca del Web 1.0, la comunicazione è soprattutto semantica, si organizza attorno ai contenuti: ne sono protagonisti il sito Web della scuola e, non a caso, il webmaster. In quella prospettiva la comunicazione è un dictum: un messaggio, un contenuto, qualcosa da far sapere.
Oggi, all'epoca del Web 2.0, la comunicazione diviene pragmatica, si organizza attorno alle azioni, a un agire: e infatti passa attraverso Facebook, i blog, non necessita più di webmaster, ma di moderatori. O meglio, di moder-attori, il cui compito è quello di attivare un fare: delle azioni, delle interazioni, delle pratiche negoziali.
Proprio i nuovi artefatti tecnologici - basati sulla collaborazione e sulla generazione dei contenuti da parte degli utenti - sono protagonisti di questo cambio di paradigma consentendo al dirigente scolastico di intercettare due logiche che sono molto ben presenti alle moderne teorie dell'organizzazione.
Sull'asse della comunicazione esterna, la logica della co-costruzione del valore. Quano una scuola raccoglie in Facebook i suoi alumni, o la community dei genitori, sta chiamando questi soggetti a rendersi protagonisti del processo con cui la scuola stessa costruisce il proprio valore. E' il modello IKEA: la scuola-IKEA.
Sull'asse della comunicazione interna, invece, ad essere intercettata è la cura del silenzio organizzativo che è uno dei problemi più opachi di tutte le organizzazioni. Nella prospettiva dello story-telling l'organizzazione che parla, che comunica, che si racconta, si sottrae a questa logica paralizzante. Ancora una volta i dispositivi 2.0 lo rendono possibile, proprio nella misura in cui offrono alle risorse umane dei luoghi biografici, degli spazi dove l'ascolto prende il posto del silenzio.

Monday, January 19, 2009

Nuove tendenze della formazione

Mi è stato chiesto di intervenire su questo tema all'inaugurazione del nuovo centro di formazione del gruppo Cariparma-Credite Agricole. a Piacenza. Restituisco in sintesi le linee essenziali della mia riflessione.
L'ultimo decennio è stato un vero laboratorio per la formazione. Sancita la crisi del modello corsuale, basato sull'aula e sulla centralità del formatore, si è assistito a due percorsi di trasformazione delle pratiche formative.
Da una parte il paradigma dell'e-learning ha funzionato da utopia salvifica e da profezia occupazionale. Ha funzionato da utopia salvifica nella misura in cui è sembrato promettere la possibilità di portare la formazione everywhere ed anytime, rendendo compatibile la necessità dell'aggiornamento continuo con il tempo del lavoro. Ha funzionato da profezia occupazionale perché, dopo lo sboom della New Economy, sembrava predisporre spazi per nuovi profili professionali legati appunto alle funzioni che la catena dell'e-learning prevede: data surfing, instructional design, system administration, web development, web mastering, tutoring, ecc.
L'altro paradigma, di segno opposto, che si è rapidamente affermato è quello dell'out-door. Anche in questo caso il rifiuto dell'aula è chiaro: mentre l'e-learning se ne emancipava eleggendo a luogo della formazione uno spazio “altro” (virtuale vs reale), l'out-door la supera predisponendo contesti e sceneggiature alternativi, lontani in tutti i sensi dall'ordinarietà dello spazio-tempo lavorativo (straordinario vs quotidiano). Vicino per soluzioni e modalità narrative ai coevi reality televisivi (la ricerca di luoghi esotici, comunque “chiusi” e isolati, la centratura sulle dinamiche relazionali tra i partecipanti, la somministrazione di prove che proprio attraverso lo spirito di corpo e il reciproco aiuto si possono superare), l'out-door cerca di intercettare quelle che sembrano essere le esigenze più attuali dei contesti professionali: leadership, lavoro in team, decision making, creativià e pensiero divergente.
La percezione è che entrambi i paradigmi abbiano già esaurito la loro spinta propulsiva e che l'astuzia della tradizione (di cui parlava Benjamin facendo riferimento alla tendenza tipica di ogni avanguardia a riconvertirsi in tradizione) stia già “normalizzandoli”. La tentazione di un “ritorno all'aula” - magari corretta nel senso del “blended” - è forte. E allora quale prospettiva è possibile disegnare che eviti la tentazione di questo ripiegamento per provare a immaginare uno spazio per l'innovazione?
Fornisco tre indicazioni operative, che corrispondono ad altrettante tendenze del mercato e della ricerca della formazione attuali, due metodologiche e una tecnologica.
La prima è quella della cosiddetta “formazione breve”. Si tratta di una formazione fortemente modulare, che prende corpo in micro-interventi formativi estremamente focalizzati e circoscritti, che possano occupare lo spazio di 2-4 ore al massimo.
La seconda è quella che porta a ripensare l'e-learning nella prospettiva del Knowledge-Management. Questo significa prestare attenzione ai processi di produzione, condivisione e ricerca efficace della conoscenza favorendo la nascita di comunità di interesse o di profilo professionale all'interno delle organizzazioni e garantendo a queste comunità i mezzi per condividere la conoscenza secondo una logica emergente attraverso processi di peer-to-peer.
La terza linea di tendenza è tecnologica e coincide con l'adozione degli strumenti del Web 2.0. Penso ai blog o ai wiki aziendali, alla gestione folksonomica delle risorse (grazie alle pratiche del tagging e del commento), alla continuità che questi strumenti possono garantire rispetto alla presenza on line che ciascuno dei membri dell'organizzazione comunque sviluppa, indipendentemente dalle sue pratiche in azienda.