Tuesday, May 31, 2011

I ragazzi, gli adulti e i media

Su richiesta degli amici delle ASL liguri torno sui contenuti del dibattito che fece seguito al mio intervento “genovese” di cui ho già riferito in un recente post di questo blog. Si discuteva di “nativi” e “migranti” e di come colmare il gap esistente tra loro per facilitarne la comunicazione. Avevo organizzato le risposte alle domande – tante e tutte interessanti – attorno a tre grandi item:
- i concetti;
- gli attori;
- le pratiche.
Restituisco in sintesi in questo post l’intelaiatura del mio discorso a tutti e tre questi livelli.

1. I concetti
Un primo focus riguarda categorie come quelle di “virtualità” e di “informazione” che continuano a fare problema. Ci si chiede, infatti, se “essere sociali” nel Web sia la stessa cosa che esserlo “nel sociale”: la preoccupazione è, insomma, che alla lunga la socialità mediata sottragga tempo e spessore alla socialità “in carne ed ossa”. Sul versante dell’informazione, invece, soprattutto da parte di chi opera nella prevenzione, è sempre più chiaro che la conoscenza del rischio non è sufficiente a garantire che il ragazzo lo eviti.
La prima questione mi consente di dire che la categoria del virtuale, in quanto contrapposta a quella del reale, va definitivamente dichiarata superata. Ci aveva già pensato diversi anni orsono Pierre Levy a far osservare che l’opposto del virtuale non è il reale, ma l'attuale. Aristotelicamente, la virtus (ovvero la potenza, la entelechia) non è nulla, ma una forma d’essere assolutamente "reale": nel seme il frutto è in potenza, nel frutto la potenzialità del seme è portata all’atto. Vale lo stesso per la tecnologia. Una relazione mediata da computer non è priva di realtà, al contrario: soprattutto non è alternativa rispetto ad altre forme della relazione insieme alle quali determina l’insieme delle possibilità attraverso cui il soggetto costruisce il proprio mondo sociale. Non ha più senso parlare di reale e virtuale in un contesto come quello attuale in cui quel che sperimentiamo è piuttosto uno spazio-tempo assemblato: le categorie importanti oggi sono quelle di intimo/privato, o di isolamento/partecipazione.
Quanto all’informazione è chiaro che essa non esaurisce il compito della formazione. L’informazione di per sé può non essere sufficiente a prevenire il rischio: essa perde di efficacia man mano che passa il tempo dal momento in cui la si è reperita; può alimentare la curiosità invece di sollecitare l’attenzione; se è troppo tecnica rischia di essere molto lontana dalle pratiche dei soggetti, che fanno fatica a ricondurla ai contesti di vita dei quali fanno esperienza. Tutto questo spinge a sperimentare altre forme di intervento.

2. Gli attori
I protagonisti della “partita” sono i ragazzi e gli adulti. Si tratta di due categorie di soggetti che più che divise da differenze generazionali (o, peggio, evolutive) mi sembrano incapaci di ascolto e relazione, soprattutto per colpa degli adulti.
La ricerca recente sui consumi degli adolescenti indica che i ragazzi distribuiscono bene le loro attività: le loro “diete” sono equilibrate. Rari sono i casi di ragazzi riconducibili al profilo degli “hikikomori”. La casa sta sostituendo la piazza come luogo di ritrovo, o meglio, dalla casa è possibile raggiungere quei luoghi sociali perfettamente integrati nelle nostre vite che sono i social network: gli adolescenti sono sempre in contatto, sia off che on line. Usano i loro media non per isolarsi ma per fare comunità. Certo Internet rappresenta per loro anche un rischio (se si pensa al pericolo del grooming, soprattutto per i più piccoli), ma occorre non dimenticare che sono numerosi i casi in cui sono proprio gli adolescenti ad “adescare” gli adulti.
Gli adulti sono normalmente molto lontani dalle forme di consumo dei ragazzi. Le culture partecipative di cui loro sono protagonisti sono distanti. L’adulto ha spesso voglia di ritirarsi più che di partecipare, oppure vede nel social network un’opportunità per tornare in gioco, senza riuscire a capire che colmare il gap non significa tornare adolescenti. Se poi parliamo di quel tipo particolare di adulto che è l’insegnante, pare di poter dire che la categoria che per lo più lo descrive (tranne le positive eccezioni, che pure esistono) sia quella della refrattarietà. Gli insegnanti non si mettono in gioco, hanno paura. Le ragioni sono diverse: bassa autostima, percezione di richieste elevate, mancanza di formazione metodologica, un atteggiamento conservativo come forma di autodifesa. In una battuta: la scuola non è cambiata, il mondo sì.

3. Le pratiche
Come attivare il dialogo? Come colmare il gap? Procedendo per punti, schematicamente, si possono fissare alcune indicazioni operative:
- riscoprire il valore della mediazione (che però significa chiedere agli adulti di riappropriarsi di questo compito, di tornare ad essere significativi per i ragazzi);
- usare i media e i linguaggi dei giovani per aprire dei canali di prevenzione;
- mettere al centro il bambino-autore, ossia promuovere l’uso creativo del cellulare e degli altri media per sviluppare senso critico attraverso la produzione dei messaggi;
- ibridare le culture e condividere le pratiche;
- allestire delle passerelle conversazionali da percorrere nei due sensi: ci sono esperienze dei ragazzi che devono poter “entrare” nel mondo degli adulti e viceversa. E a volte proprio la rete, minacciando di compromettere per sempre la relazione, finisce per attivarla, come succede nel film di Veronesi Genitori e figli. Agitare bene prima dell'uso.


Thursday, May 26, 2011

La relazione educatore-bambino

Sono reduce da una bella mattinata. Con Susanna Mantovani abbiamo tenuto le due relazioni-guida di una giornata di formazione per le insegnanti di scuola dell'infanzia e le educatrici di nido del Comune di Milano,  nell'ambito di un più articolato progetto formativo. Il tema della giornata era la relazione tra educatore e bambino. Susanna lo ha affrontato occupandosi del "dentro" (la sezione, la classe). Lo ha fatto con la proverbiale efficacia comunicativa, la passione che le brilla negli occhi quando si parla di bambini, la smisurata competenza che ne fa su questo tema uno dei massimi esperti a livello internazionale. Io mi sono inserito provando a costruire un quadro complementare a quello della sua analisi. Partendo dalla sua affermazione secondo cui nelle relazioni esistono delle costanti (e delle variabili) culturali ho cercato di restituire un punto di vista interpretativo su quelle tra queste costanti che caratterizzano l'oggi, disegnando un quadro di quel che rispetto alla sezione e alla classe è il "fuori".
Il mio punto di partenza è (stato) un dato, evidente a chiunque si occupi di educazione: sembra che i bambini (ma anche gli adolescenti, i giovani) di oggi siano in qualche modo diversi da come eravamo noi (o anche solo i loro predecessori di 5/10 anni orsono). Più svegli? Più distratti? Più intelligenti? Meno profondi? Meno creativi? Meno obbedienti? Più irrequieti?
Ma è vero? In che misura? E su che base?
Provo a rispondere in tre passaggi:
- una tesi;
- alcune linee di analisi;
- delle piste operative.

1. La tesi
Non sono diversi i bambini, è diversa la società, ma i sistemi formativi sono sempre gli stessi.
Da questa tesi derivano alcune conseguenze:
a) fissarsi sulla "loro" diversità è un alibi per la "nostra" incapacità (come sempre capita quando si gioca il gioco del "noi e loro");
b) fissarsi sulla "loro" diversità innesca meccanismi nostalgici di ritorno a presunte età dell'oro dell'educazione ("non ci sono più i bambini di una volta", "eh, la scuola di una volta sì...");
c) fissarsi sulla "loro" diversità non consente di accettare e vivere il cambiamento.

2. Linee di analisi
Ma dove passa il cambiamento? Quali sono gli elementi che alimentano la percezione di diversità dei bambini di oggi? Ne individuo tre (potrebbero essere di più).
a) La precocità. Va addebitata alla società degli adulti, al venir meno della strada e del cortile (percepiti come poco sicuri e la percezione è spesso sproporzionata rispetto alla sicurezza reale), al fatto che i bambini si interfacciano soprattutto con gli adulti, ne assumono i comportamenti, ne prendono a modello gli stili. Il risultato è l'adultizzazione precoce, il furto dell'infanzia perpetrato ai danni del bambino, che ce se ne renda conto o meno. Ne è immagine eloquente Little Miss America, il programma della televisione americana che nelle ultime settimane mantiene il primo posto nella classifica di Striscia dedicata ai nuovi mostri.
b) La familiarità con i dispositivi tecnologici. I bambini - senza riaddentrarci nella questione dei "nativi digitali" - vivono nella società dell'informazione, una società in cui la diffusione, la naturalizzazione e l'indossabilità dei media li rende sempre più integrati con le pratiche dei soggetti.
Da questa familiarità dipendono altri aspetti della "nuova infanzia":
- velocità esecutiva;
- attenzione distribuita;
- multitasking.
c) La difficoltà a gestire la frustrazione. La nostra è una società dell'abbondanza in cui il disagio è spesso legato all'avere troppo. I bambini di oggi sono vittime del surriscaldamento affettivo (Meirieu) di cui i genitori li circondano, ovvero: iperaccudimento, protezione, difesa d'ufficio, assecondamento. La troppogenitorialità di cui parla Anna Mariani in un suo libro.

3. Proposte educative
Come costruire la relazione di fronte a queste istanze? La risposta passa per la lettura di questi elementi e la individuazione dei bisogni che ne derivano. In sintesi:
a) compensare, disadultizzare, proporre attività e stili di relazione a misura di bambino;
b) garantire continuità (i media devono essere anche in classe, in sezione) ma allo stesso tempo bilanciare, mediare i media, favorire esperienze dirette e outdoor, lavorare sulla natura tattile dei media, un aspetto ch essi condividono con le altre esperienze del bambino;
c) sdrammatizzare, contenere, chiedere al genitore atteggiamenti più equilibrati. Qui incomincia veramente il difficile.

Saturday, May 21, 2011

Abitanti digitali


Sono reduce da Macerata, dove ho preso parte al Convegno "Abitanti digitali", l'ultimo (per ora) organizzato dall'Ufficio Comunicazioni Sociali della CEI sul tema del rapporto tra i nuovi media e la pastorale. Sulla via del ritorno ho maturato alcune riflessioni che "in punta di piedi" mi piace condividere.
La prima. Come si potrebbe dire citando Cetto La Qualunque, abbiamo capito cosa oggi renda qualsiasi cosa un successo: solo, quantunquemente ed esclusivamente IL DIGITALE. Responsabili delle politiche pubbliche, giornalisti, professori universitari (mi ci metto anch'io), tutti sono accomunati da un unico grande discorso: nativi digitali, scuole digitali, montagne digitali, parchi digitali, tutto digitale. E' la maledizione dell'avanguardia, come suggeriva Benjamin: prima o poi si converte in tradizione! Lì nasce il problema: perché se tutto è digitale è come se nulla più lo fosse. Tutti ne parlano. Non si distingue più niente, non si capisce più molto. Mi era già capitato di assistere a qualcosa di simile con la Media Education e quando è successo mi sono detto che dovevo smetterla di occuparmene: mi sa che farò lo stesso con il digitale...
Seconda considerazione. Ieri mattina, durante il dibattito seguito alla relazione-chiave del convegno, si sono ascoltati un sacerdote, un padre di famiglia, un giovane di 23 anni, un nonno. Forse in maniera non del tutto composta (soprattutto se si pensa che l'evento era in streaming sul Web) hanno detto alcune cose che mi hanno fatto pensare e mi hanno un po' messo in crisi. Il sacerdote ha chiesto perché non gli lasciassero "dire Messa" lì dove i ragazzi si incontrano: la piazza, la pizzeria... Il padre di famiglia si è chiesto: ma se tutti i preti sono su Facebook, poi, con la gente chi ci parla per davvero? Il giovane anche lui si faceva una domanda: perché TV 2000, la TV dei Vescovi, ha chiuso l'unico programma per i giovani della televisione italiana, "Uno X Uno" (lo aveva ideato e ne era l'anima Gianfranco Scancarello, un grande educatore, uno splendido padre di famiglia, un testimone della fede la cui vita da cinque anni è stata violentata dai presunti fatti di Rignano)? E poi il nonno. Un nonno toscano, che ha parlato dell'importanza di insegnare ai bambini l'odore delle vacche e a resistere alle mode. La ricetta in "cinque" parole targate Lorenzo Milani: "Ribellatevi! Ne avete l'età". Mi sembrano spunti belli, importanti: se devo essere sincero me li sono portati a casa come il guadagno vero del convegno, con tutto il rispetto per la sua parte "accademica" (mia relazione inclusa).
Terza considerazione. Un sacerdote della diocesi di Padova, in un quarto d'ora, prima del pranzo, quando il richiamo delle olive ascolane era già forte, ha dato a tutti una lezione. Una lezione di pastorale vissuta. Don Marco Sanavio è un "animale pastorale": la creatività e il genio di saper stare con i giovani ce l'ha nel sangue. Il suo racconto di un corso elearning "libero" per gli animatori pastorali, che ha innescato una "rete di feste" della pace in tutta la diocesi è stato commovente come sempre sa esserlo tutto ciò che tocca in profondità quel che c'è in noi di più umano. Auguro a Don Marco di non fare carriera: credo che il posto migliore per uno come lui sia stare in mezzo ai ragazzi. Se lo portassero via di lì allora sì che sarebbe un delitto. Sarebbe un delitto perché abbiamo bisogno di educatori, ne abbiamo bisogno come il pane. Solo dagli educatori, dai testimoni veri, dipende la possibilità per noi di avere un futuro. Diamo fiducia ai giovani: se la meritano e aspettano solo che qualcuno di noi si sintonizzi con loro. A patto di essere significativo. Ah, dimenticavo... L'immagine è tratta dal ciclo dedicato da Arcabas ad Emmaus. Rappresenta il "fotogramma" della missione: "E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme..."...