Saturday, May 26, 2018

"Coraggio, non temete, sono io!"



Di rientro dall'Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, torno a riflettere sui tanti temi che mi hanno sollecitato.

1. Il primo è sicuramente il grande impatto di Papa Francesco. Arrivato nell'atrio della Sala Nervi a piedi, con l'ombrello chiuso sotto il braccio, se ne è riandato a piedi, sempre con l'ombrello chiuso sotto il braccio. Nei pochi minuti in cui siamo stati ammessi al suo dialogo con i vescovi, prima dell'"Extra omnes", non ha lesinato indicazioni profonde. Mi porto via il richiamo a "povertà e trasparenza", soprattutto alla povertà, ignazianamente ricordata come "madre e muro": da lì tutto nasce e lì troviamo la nostra protezione. Gli portavo una lettera con i saluti di Padre Vilson Groh, un sacerdote marista che lo aveva incontrato nel febbraio scorso in udienza privata, a Roma. Il giovedì prima dell'Assemblea ero con Vilson, sul Morro di Mont Serrat. Sul morro vivono 17 comunidades (è il nome che in Brasile si dà a quelle che noi spesso indichiamo come favelas): noi eravamo in quella più in cima, dove ancora non c'è una chiesa. Messa in casa, con Vilson e i suoi parrocchiani. Due battesimi, i problemi di tutti i giorni, politica e catechesi. La fede della gente incredibile. Forse sto invecchiando, mi commuovo più facilmente che in passato, ma durante tutta la celebrazione ho trattenuto le lacrime. A Roma, per l'Assemblea, ho capito che la Chiesa è tutte e due le cose: i vescovi e i preti in prima linea. Ma anche molti vescovi sono in prima linea, anzi, a modo loro, forse un po' tutti.

2. Secondo tema: il dialogo con i vescovi. Mi era stato assegnato il compito di far riflettere con la mia relazione l'episcopato sulla missione della Chiesa nel mondo attuale della comunicazione. Era stato Mons. Galantino a chiedermelo e avevo accettato forse con un po' di incoscienza. Due mesi di lavoro: a scrivere, limare, verificare, controllare, riverificare, riscrivere. Il risultato ha dato corpo a una relazione letta davanti ai Vescovi e accompagnata da alcune slides, senza parole, solo immagini: volevo che ancorassero l'attenzione e allo stesso tempo offrissero spunti all'immaginazione pastorale. Dai dialoghi intercorsi con alcuni di loro durante i quattro giorni a Roma devo dire che forse l'obiettivo è stato raggiunto. Non dico nulla della mia relazione. Se avete voglia di leggerla, nella sua versione integrale, la trovate qui.

3. Terzo tema: come rispondere alle tante domande innescate e, soprattutto, cosa dire ai vescovi in chiusura di Assemblea. Ho lavorato a fondo su tutti gli stimoli raccolti e ne è uscita una sintetica restituzione organizzata attorno a quattro punti.

Il Decreto Conciliare Inter Mirifica
Nel 1963, il Vaticano II, dedica al tema dei media e della comunicazione, un Decreto che appunto inizia così. Inter mirifica vuole dire "tra le cose meravigliose". I media sono cose meravigliose! Certo ci sono i rischi e possono far parte di esperienze di peccato, ma dobbiamo guardare al positivo. I media sono opportunità, con le dovute attenzioni, ma sono opportunità. E occorre ricordare che la qualifica di "sociali" alle comunicazioni è una specificità della Chiesa. Perché assecondare gli stereotipi di chi vuole la Chiesa oscurantista? Non aver paura non significa sottovalutare, o ritenere di non aver nessun bisogno del perdono. Vuol dire semplicemente fare una scelta di campo, che forse è anche una scelta di immagine e di compito per la Chiesa. Ne abbiamo bisogno!

Resistere alla tentazione del determinismo tecnologico
Una lettura semplificatoria (e per questo rassicurante) del problema dei media potrebbe farci leggere il loro rapporto con i nostri valori e comportamenti attraverso la categoria di causa-effetto.
Mi chiedo:
- i media generano dipendenza, o offrono a chi è già dipendente un ulteriore elemento da cui dipendere (in sanità si parla di comorbilità)? L'uso eccessivo (non la dipendenza, che scientificamente è ancora da dimostrare) non dipende solo dai media: i fattori sono molteplici, la realtà è complessa;
- i media ci limitano nella nostra libertà, o proprio perché non siamo liberi, troviamo nei media un'ulteriore possibilità per non scegliere di fare il bene? È l'atteggiamentodei cristiani per bene, i primi della classe, quelli con la coscienza a posto, che hanno sempre paura di esporsi, che non aprono le porte ai poveri, che preferiscono i salotti puliti;
- i media ci rendono violenti, ci lacerano, ci deresponsabilizzano, od offrono alla nostra violenza un nuovo potente modo per esprimersi? Quante persone uccidiamo ogni giorno con le nostre parole? Le uccidiamo non per colpa dei media, ma per colpa nostra.
Ecco, credo occorra pensare piuttosto ai media come a dei catalizzatori che non come a dei fattori. Non producono effetti mai da soli: indicano piuttosto le emergenze (ciò-che-emerge), sono preziosi per capire i bisogni dell'uomo di oggi, dell'uomo di sempre. Ecco il compito: riscattare i media dal rischio di pensarli come spazio del peccato, per capire che sono veramente la piazza di oggi, dove incontrare gli uomini, tutti gli uomini, per ascoltare i loro bisogni.

I media non rispondono mai a una logica sostitutiva
Media vecchie nuovi convivono. È vero che le immagini abilitano un pensiero analogico, ma si continua a leggere e scrivere. Non dobbiamo pensare ai media come a qualcosa che toglie (ad esempio il pensiero argomentativo), ma che aggiunge (il pensiero analogico). quel che si deve imparare a pensare è l'et-et e non l'aut-aut, con un atteggiamento che il documento finale ha definito, in maniera mirabile, di "simpatia critica".

Quale atteggiamento verso i media?
In passato, il pensiero dei media era stato all'impronta dell'utopia. Sorretta dall'idea di progresso, l'utopia era costruita sull'idea di una società trasparente in cui la comunicazione sarebbe stata funzione di verità e pace: se tutto è trasparente, non c'è più inganno, sotterfugio, manipolazione (Wiener).
All'utopia si è sostituita la distopia, sorretta dall'idea della crisi, di una società del controllo in cui la comunicazione sarebbe funzione di repressione, condizionamento, illibertà: se tutto è trasparente (la telesorveglianza, i Big data, ...), non c'è più spazio privato, non c'è più libertà (Foucault, Debord).
Oggi, il rischio è di sostituire a entrambe la retrotopia (Bauman). La retrotopia è essere incapaci di immaginare il futuro, averne paura, e quindi tornare indietro, cercare nel passato una zona di conforto.
È retrotopia:
- pensare alla tollerenza zero come modo di risolvere i problemi dell'ordine pubblico;
- tornare alla scuola dei contenuti e dell'autorità;
- tornare alla Chiesa preconciliare, l'ultratradizionalismo, il cattolicesimo che non "esce" ma "si chiude".
Si tratta di una malattia, segnata da miopia storica e, credo, da un peccato di omissione: rifiutarsi di vedere il bene e non farlo.
Alla tentazione della retrotopia la Chiesa deve rispondere come ha sempre risposto, con la profezia. "Coraggio, non temete, sono io!".

Wednesday, May 2, 2018

Un'idea di scuola




Nella “Moratoria sulla Buona Scuola”, un appello firmato nei mesi scorsi da un migliaio di insegnanti e studiosi, si legge: «La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale». E ancora: «Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?». La tesi è nota e coglie nella formazione di scuola la contrapposizione tra due paradigmi antagonisti, quello “del capitale umano”, economicistico e orientato all’efficienza e alla produzione, e quello “dello sviluppo umano”, preoccupato invece della promozione dell’uomo e delle libertà personali (Baldacci, 2014). In buona sostanza: l’istruzione per il profitto e l’istruzione per la democrazia (Nussbaum, 2011).
Scorrendo le pagine del documento mi sono sentito confermato nelle ragioni che mi hanno spinto a scrivere, in almeno due direzioni.
La prima è la convinzione che oggi più che mai si abbia bisogno di un’idea di scuola. Non di discorsi: di un’idea. “Pensare la scuola” è il compito che tradizionalmente è sempre stato svolto dalla pedagogia della scuola e che oggi rischia di essere delegato da una parte alla politica, dall’altra ai tecnici. Il problema è che l’una e gli altri – la politica e i tecnici – un’idea di scuola, anche se ingenua e implicita, ce l’hanno: così le loro scelte, anche se lontane dalla pedagogia, finiscono per materializzarla. Di qui l’importanza di tornare a pensare la scuola, di riproporre un confronto sulla scuola.
Qui trovo l’altro spunto. Se è importante riproporre un confronto sulla scuola, discutere di quale sia l’idea di scuola che vogliamo realizzare, è altrettanto importante farlo in modo non ideologico, lontano da preconcetti. È ancora fresca la memoria della berlusconiana scuola “delle tre i” (Impresa, Inglese, Informatica) e di come il governo di centro-sinistra le avesse sostituito la scuola “della serietà, del merito, delle regole”. Discutere di un’idea di scuola significa non accingersi all’ennesimo testacoda, non sostituire la “buona scuola” con un altro slogan (i “contenuti”, figli della cultura e della libertà di pensiero, al posto delle competenze, sintomo dell’asservimento al mercato e alla produzione), ma riprendere con serietà il discorso da dove è stato interrotto: la scuola è troppo importante perché diventi solo uno spazio di schermaglie da bar dello sport.

Il libro muove da queste consapevolezze (alimentate negli ultimi anni dalla partecipazione a seminari, da molti incontri di formazione degli insegnanti, da scritti brevi generati da queste occasioni) e si costruisce su quattro idee, una per ciascuno dei capitoli di cui è composto.
Il primo capitolo lavora sulla constatazione che la scuola funziona ancora oggi come un dispositivo. Tutto lo suggerisce: il rapporto tra uno che parla e gli altri che ascoltano, l’orario, la suddivisione in classi e discipline, il registro, i voti, le sanzioni, l’autorità, la verticalità dei rapporti. Invece, nello stesso tempo, la società è andata sempre più orizzontalizzandosi (Marzano & Urbinati, 2017) e la famiglia ridefinendosi secondo un modello affettivo piuttosto che normativo (Lancini, 2017). Lo scarto è evidente e si traduce in un ritardo culturale, nell’incapacità di risultare significativa per i suoi studenti.
Il secondo capitolo è dedicato al “fiuto degli studenti” e agli “insegnanti incompiuti”.  Un insegnante è incompiuto se è sempre in ricerca, se non si accontenta. Non è un professionista seduto, l’insegnante, ma qualcuno che la consapevolezza del proprio dovere e lo sguardo dei suoi ragazzi guidano costantemente verso il meglio. Solo così l’insegnante risulta significativo e merita il riconoscimento degli studenti.
Il terzo capitolo è organizzato attorno al metodo. In una società orizzontale potrebbe sembrare che il metodo non serva, poiché rappresenta, probabilmente, una traccia della verticalità di cui ci si dovrebbe essere finalmente liberati. Ma non è così. Se il lavorare con metodo non si traduce in una gabbia, per l’insegnante e per lo studente, esso è lo spazio attraverso il quale l’insegnante può organizzare le proprie pratiche professionali e la scuola assumere l’innovazione. Quanto allo studente, il metodo gli garantisce il giusto grado di direttività, che non vuol dire che l’insegnante gli si sostituisca togliendogli il margine di qualsiasi responsabilità, ma che gli possa indicare il quadro e le coordinate entro cui muoversi per fronteggiare la complessità.
L’ultimo capitolo discute dei media digitali, muovendo dall’assunto che oggi noi e i nostri ragazzi siamo, per così dire, “attraversati dai media”. Questo comporta che non abbia senso discutere se ritagliare o meno per essi uno spazio in scuola: se la scuola vuole essere contemporanea deve occuparsi dei media, come linguaggi in cui le culture giovanili sono articolate e come dispositivi attraverso i quali le vite di tutti sono espresse. Occuparsi dei media non significa cedere a una moda, ma perseguire l’obiettivo di rendere la scuola contemporanea. I media nella scuola sono frontiera etica e spazio di costruzione della cittadinanza.

Sunday, January 21, 2018

Santo Scolaro




Questa fotografia è del 12 novembre del 2012. Si era saliti a Barbiana con l'amico Luca Toschi e si era trovato lì, senza esserci accordati, Michele, Michele Gesualdi. Pochi mesi dopo si sarebbero manifestati i primi sintomi della terribile malattia che ce lo ha portato via. Ma quel giorno era in forma, in splendida forma. Abbiamo passato ore ad ascoltarlo, mentre si muoveva con noi nella stanza dove si faceva scuola a Barbiana, e poi sotto, nel laboratorio, e poi ancora su... Sembrava che il tempo si fosse fermato e che il priore dovesse uscire da un momento all'altro: Michele lo materializzava con lo sguardo, con il gesto, ricordando dove stava e cosa diceva. Una drammaturgia didattica, teatro della vita, spiegazione vivente di cosa significava Barbiana per lui, il fratello Franco, gli altri... No, non una drammaturgia, un ufficio, un rito, cui abbiamo avuto la benedizione di prender parte.

Qui Michele ci mostra uno dei loro "libri di testo". Si facevano così: la mamma di Don Lorenzo portava su le riviste patinate che si leggevano a Firenze; loro le prendevano, guardavano e selezionavano le immagini, le ritagliavano, le incollavano; poi si commentavano, ci si scriveva le didascalie. Li si faceva così i libri a Barbiana. Oppure li si costruiva sui cartelloni e poi li si appendeva alle pareti. Il self-publishing non nasce con la scuola digitale: era già lì, nel bricolage didattico della canonica.

Raccontava Michele, raccontava con lo sguardo e la voce di chi rivive. Raccontava i primi tavoli dove si sarebbe fatta scuola e spiegava che a Barbiana la scuola era nata in laboratorio, letteralmente: morsa, pialla, chiodi e martello. Raccontava le serate di cineforum, con Don Lorenzo a proporre i grandi del cinema classico e poi ad analizzare, a discutere. Raccontava la lettura del giornale, la scuola del pensiero critico, lo sviluppo della parola. Media Education diremmo noi oggi. Media Education come spazio per costruire la cittadinanza. Imparare a parlare e a pensare per essere cittadini.

Raccontava Michele il lavoro, il lavoro duro, le ore passate a scuola. Perder tempo era una delle cose più gravi per Don Lorenzo: la "bestemmia del tempo". Guai a buttarlo via, guai a usarlo per sé. Il tempo andava usato tutto nell'impegno, e nell'impegno per gli altri. Era la motivazione "da dare a chi non ce l'ha": capire di poter essere utili per gli altri, e donarsi.


Pensavo con tenerezza a tutto questo leggendo nei giorni scorsi della morte di Michele Gesualdi. Ci pensavo leggendo il suo libro-testamento, L'esilio di Barbiana. E mi sembrava di ascoltarlo, di sentire le sue parole quel giorno di autunno, a Barbiana. Mi sembrava di vederlo mentre ci mostrava l'immagine del Santo Scolaro, la materializzazione del fatto che don Lorenzo aveva voluto più bene ai suoi ragazzi che a Dio. E lui lo sapeva bene, lui che nella canonica aveva vissuto per dodici anni. Ora li immagino mentre si abbracciano in Paradiso, come il priore ebbe a promettere anche ad Adele Corradi.


Grazie Michele perché quel giorno, incontrando te, è come se avessi incontrato Don Lorenzo. E mi sono tornate alla memoria le parole di Lettera a una professoressa che avevo letto a scuola a 14 anni per la prima volta. E ho capito perché ho fatto l'insegnante e ancora non ho smesso. Come scrisse una volta Don Lorenzo: "Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà di trovarlo per forza perché non si può fare scuola senza una fede sicura".