Friday, March 6, 2015

Children Television e Scuola


Il 3 marzo scorso, in Università Cattolica, Piermarco Aroldi ha presentato una bella ricerca di OssCom sul valore della Children Television in Italia oggi. Mi è stato chiesto di intervenire, in sede di tavola rotonda, a commentare i dati della ricerca. L'ho fatto lasciandomi interrogare dal tema dal punto di vista della scuola. E quindi, mettendomi nei panni dell'insegnante, mi sono chiesto: "Se io fossi un insegnante, cosa mi aspetterei dalla Children Television? Quale vorrei che fosse per me il suo valore?". Mi sono risposto a tre livelli.

1. Anzitutto vorrei collaborazione. Nella tradizione internazionale della Media Education da sempre uno dei punti di forza del lavoro educativo con i bambini, con i ragazzi, è il coinvolgimento dei professionisti dei media. l'insegnante non basta. Lo dimostrano da anni (oserei dire, da decenni) iniziative di grande successo come La semaine de la presse dans l'ecòle in Francia, o il progetto Periodista por un dìa in Argentina; ma anche negli USA la collaborazione è cosa ordinaria, fa parte della deontologia professionale del giornalista, del professionista dei media. Qui si può aprire un primo spazio, un primo piccolo cantiere: cosa vorrebbe dire per la televisione dell'infanzia incontrare la scuola? Non sporadicamente, ma in una logica di continuità.

2. In secondo luogo vorrei integrazione. La Children Television è un importante elemento del tempo libero dei bambini, è uno degli elementi che contribuiscono a riempirne gli spazi e i tempi informali. Oggi, la distanza di questi spazi e tempi da quelli formali della scuola è una delle ragioni del ritardo, della fatica, degli insuccessi con cui la scuola prova a parlare alle giovani generazioni. Occorre riavvicinare questi due mondi. Occorre ripensare la mission della scuola a partire da linguaggi condivisi. La Children Television potrebbe essere una delle passerelle da lanciare tra questi mondi. Come si può fare? Si tratta di un secondo piccolo cantiere da aprire.

3. Da ultimo mi piacerebbe che la Children Television facesse qualcosa sul piano della autorialità. Lo chiederei in due direzioni. La prima è quella della transmedialità. Mi piacerebbe che la televisione producesse sempre meno per la... televisione, ma per il secondo, il terzo, il quarto schermo... Ovvero: prodotti sempre più transmediali in grado di essere presenti anche sui dispositivi mobili . La seconda direzione è quella che porta all'editoria scolastica. Il digitale, la rivoluzione del digitale, non ha prodotto grandi pensate da parte degli editori. I formati sono tradizionali, non originali. C'è crisi di idee. Non potrebbero gli autori della Children Television immaginare dei formati in grado di rilanciare la partita? Non potrebbe l'educational televisivo suggerire qualche idea all'editoria scolastica? Anzi: allearsi con essa per costruire delle repository transmediali di contenuti audiovisivi di qualità da utilizzare in scuola? Terzo cantiere. Li facciamo partire?

Sunday, March 1, 2015

Vino nuovo, otri vecchi?


1. Nel 1993, Gianfranco Bettetini e Fausto Colombo curano un libro il cui titolo - Le nuove tecnologie della comunicazione - a distanza di vent'anni andrebbe aggiornato. Si parlava, in quel libro, di memorie ottiche, di satelliti a trasmissione diretta, del computer. Nel frattempo si sono diffusi il Web e i cellulari, gli smartphone e i tablet, il cloud e il social network. Insomma: un altro mondo. Quel che però, in quel libro, era interessante (e rimane valido) è il criterio di classificazione in base al quale i due studiosi organizzavano le nuove tecnologie in tecnologie di rappresentazione, di comunicazione, di conoscenza. In buona sostanza, ciascuna delle tre categorie metteva in forma una funzione-base: costruire immagini, allestire mondi (rappresentare); produrre messaggi, dialogare (comunicare); archiviare e organizzare le informazioni, gestirle efficacemente (conoscere).

2. La prima stagione di Internet, quella che proprio lungo gli anni '90 del secolo scorso conosce la sua affermazione, era costruita sostanzialmente attorno a tre tipi di applicativo (e di esperienza): i siti Web, le IRC, i Newsgroup.  Il sito Web (il mio primo sito Web risale al 1994, era in Geocities di Yahoo, precisamente in Atene) serviva per rappresentare e rappresentarsi. Nei Newsgroups si chiedevano informazioni, si costruiva conoscenza, si organizzavano gruppi e comunità attorno agli interessi e ai bisogni delle persone. Infine, nelle IRC (Internet Relay Chat), si comunicava; una comunicazione spesso consegnata al divertimento del fake, della simulazione.

3. Oggi, da un certo punto di vista, il discorso regge ancora. In che senso? Nel senso che i tre verbi continuano a funzionare. Pensiamo a Facebook e alla deriva dei suoi usi sociali che lo stanno rendendo un ambiente sempre più generalista, sempre più "vetrina": spazio di rappresentazione (di sé, del Sé, di un gruppo o di un'istituzione) più diffuso, Facebook soppianta il sito, più istituzionale, più ufficiale. Pensiamo a WhatsApp e a come esso serva a raccogliere microgruppi di affinità che in esso si aggiornano, si tengono in contatto, si scambiano informazioni, pianificano eventi, gestiscono appuntamenti, soddisfano un bisogno di contatto. Ma anche ad Ask.fm, il cui carattere anonimo riproduce (anche se con segno ben diverso) le situazioni basate sul fake di IRC. Infine ragioniamo su Dropbox, su Drive, sui mille applicativi che servono a gestire la nostra conoscenza. Non c'è dubbio, la classificazione tiene.

4. Questa sintetica riflessione mi consente due ordini di considerazioni, emerse in chiusura di una bella giornata di lavoro con operatori della prevenzione sulla Cyberstupidity.
La prima. Un conto è parlare di strumenti, altro di logiche. Il 2.0 identifica sicuramente degli strumenti (Facebook, Twitter, ecc.), ma soprattutto delle logiche di comunicazione (orizzontale, dal basso, informale, interattiva, ecc.). Occorre non confondere. Altrimenti mi convinco che aprire un profilo in Facebook consenta al mio servizio di essere 2.0. Il classico vino nuovo in otri vecchie.
Seconda considerazione. Gli adulti, in particolare educatori, insegnanti, operatori della prevenzione, si sentono angosciati dall'incapacità di essere aggiornati in tempo reale sugli applicativi del momento. Come si fa? Ne escono sempre di nuovi? Non si fa in tempo a conoscerne uno che è già superato... Qui ragionare su ciò che è costante aiuta. Conoscere, comunicare, rappresentare: la continuità nella differenza. Questo è quello che pesa in favore dell'adulto: la capacità di ragionare sulle invarianti. Occorre partire da qui per provare ad accorciare il gap con le giovani generazioni.
Il mio gruppo di ricerca al CREMIT e gli amici di Contorno Viola hanno provato a farlo pensando a una metodologia di prevenzione basata sulla Peer Education e sulla Media Education: la Peer&Media Education. Abbiamo consegnato le nostre riflessioni a un libro, Il tunnel e il kayak. Il nostro laboratorio rimane un cantiere aperto.