Wednesday, December 7, 2011

Internet addiction?


Federico Tonioni e' uno psichiatra, ricercatore alla Facoltà di Medicina dell'Universita' Cattolica di Roma. A lui si deve, un paio di anni fa', l'apertura del primo servizio clinico in Italia espressamente dedicato al trattamento dei disturbi legati all'abuso di media digitali. Nella giornata del 29 novembre scorso ha organizzato presso il Ministero della Sanità un seminario di studio su questo tema. Ho avuto il piacere di parteciparvi. Restituisco di seguito una sintesi della giornata unitamente alle mie considerazioni al riguardo.

1. Il primo elemento e' che la lettura psichiatrica del rapporto tra giovani e media digitali e' decisamente a tinte fosche. In ordine sparso dalle varie relazioni ho registrato i seguenti effetti che essi produrrebbero:
 - uno spostamento della centratura dalla  soggetualita' allo strumento;
- il collasso della struttura narrativa;
- una sovraesposizione della autorappresentativita';
- iperlessimia, narcisismo;
- mancanza di limiti, propensione per le esperienze estreme;
- la trasformazione dell'organizzazione mnestica;
- l'"estensione" della coscienza, con quel che ne viene in relazione all'abbandono della sfera privata e al senso di onnipotenza;
- la perdita della capacita' di ascolto, dell'altro ma anche di se';
- la idolizzazione della rete che funziona da anticamera della perversione;
- lo sviluppo di tratti ossessivo-compulsivi;
- la negazione della dimensione reale;
- l'isolamento sociale, come nel fenomeno giapponese degli hikikemori, che si porta dietro depressione maggiore, fobia sociale, inclinazione al suicidio.
Insomma, niente male.

2. Riflettendo su questo tipo di quadro mi sento di condividere alcune considerazioni.
La prima e' che da uno psichiatra mi aspetterei che approfittasse delle basi scientifiche del suo sapere e invece (non e' questa la prima volta che mi trovo aconstatarlo), tranne virtuose eccezioni, fa psicosociologia a buon mercato, filosofeggia, insomma per dirla con Umberto Eco "sovrainterpreta". Curioso, in un frangente storico in cui le scienze "morbide" come la pedagogia provano a sciacquare i panni nell'Arno delle scienze dure (come avviene con le neuroscienze), che invece una scienza dura tenti di darsi una coloritura proprio rivolgendosi ad esse.
Seconda idea. Tutto quello di cui al punto primo puo' trovare riscontro nei fatti, ma quando, e quanto, e a quali condizioni? In buona sostanza mi pare che si ecceda in generalizzazioni, cosa che invece quando si parla di consumo mediale non e' mai consigliabile.
Infine, terza idea, ricavo l'impressione di un modo di pensare i rapporti tra i media e i giovani, in fondo causale e deterministico. Invece - come l'intervento di Domenico Pompili ha evidenziato - forse i media digitali vanno pensati come sintomi di un disagio che sta al di la di essi. Così va letto il dato sulla comorbilita', ovvero sulla tendenza di chi ha già una dipendenza (da sostanze, dal gioco) a contrarre anche quella da media digitali: al fondo vi e' una fragilità di personalità che predispone queste persone a qualsiasi tipo di dipendenza, anche quella da media digitali.

3. Con grande lucidita' Federico Tonioni ci ha aiutato a distinguere, a non generalizzare. In due anni di attività del suo servizio, nei circa 300 pazienti incontrati, rileva una netta separazione tra pazienti adulti (20%) e giovani: gli adulti, fruitori di gambling e gioco di azzardo, presentano i caratteri del disturbo comportamentale su uno sfondo autistico; nei ragazzi, fruitori di giochi di ruolo on line e social network, il dato di fondo e' il forte bisogno di interazione. Nel primo caso si può parlare di dipendenza, nel secondo meglio parlare di disturbo psicopatologico da comunicazione mediata. In buona sostanza la tensione alla relazione tipica dei giovani li emancipa dalla dipendenza.

4. Uno spazio e' stato ricavato anche per la parte propositiva, dalla prevenzione all'educazione. Sul versante dell'educazione mi e' parso consolatorio che dopo vent'anni l'idea che serva la Media Education, che la scuola se ne debba far carico, che le famiglie si debbano porre il problema della media awareness, ha finalmente fatto breccia ed e' diventata patrimonio abbastanza condiviso, come il manifesto della Società Italiana di Pediatria dimostra. Al di la di questo, pero', ho riascoltato antiche ricette, per i genitori e per gli eductaori in genere, ormai capaci di rimbalzare di tavolo in tavolo, di convegno in convegno:
- riuscire a navigare insieme nel web;
- essere informati senza essere opprimenti;
- dosare tempi, interessi e spazi;
- evitare il braccio di ferro, giunge a forme di patto condiviso;
- sviluppare una nuova cultura di autoregolamentazione.
Le cose più interessanti a questo riguardo le ha dette il collega del Gemelli che dirige il servizio di neuropsichiatria quando ha fatto riferimento all'uso del videogame per il recupero funzionale a livello percettivo o neurologico (sostituisce la riabilitazione che invece non e' gradita al bambino), quando ha parlato di Mediaterapia (in relazione a motricità, empowerment, engagement), quando ha ricordato che la prevenzione viene da una migliore conoscenza.

Saturday, November 26, 2011

Scuola e società tra crisi e prospettiva


L'AIDEP (Association des Inspecteurs et des Directeurs des Ecoles Primaires) è l'associazione che consorzia ispettori e direttori delle scuole primarie della Svizzera di lingua italiana e francese. Hanno celebrato il loro seminario annuale a Cadro, sopra Lugano. Ho avuto il piacere di esserne relatore, insieme a Mauro Magatti ed Elena Besozzi. Il tema del seminario - "Quale scuola per gli anni a venire?" - era quanto mai stimolante. Provo a restituire qui alcune delle suggestioni più interessanti.

Di chi è la colpa?
Il seminario è stato aperto da Manuele Bertoli, consigliere di stato per l'educazione in Ticino. Un politico sui generis, laureato in pedagogia e con una grande passione per la scuola. Il suo discorso, molto concreto, ha fornito un'indicazione di grande interesse che ha subito dato il la alla riflessione di tutti: "Se siamo qui a interrogarci sul disorientamento del sistema formativo, più che chiederci quale sarà la scuola di domani, ci dovremmo chiedere quale scuola abbiamo avuto finora". Spiazzante, scomodo, ma vero.

Volontà di potenza
Profonda e lucida, come sempre, l'analisi di Mauro Magatti. Nel suo disegno della situazione attuale Mauro ha indicato nella tecnicizzazione e nella mediatizzazione i due dispositivi principali. Nel primo caso si fa riferimento al "macrosistema tecnico planetario" che interpreta il senso profondo della tesi weberiana sulla razionalizzazione; nel secondo allo "spazio estetico mediatizzato" con la sua funzione di filtro rispetto alla percezione che l'individuo ha della realtà.
Su questo sfondo si sono fatte strada due istanze, negli ultimi trent'anni: un'istanza antiautoritaria, soggettivistica ("io sono il fondamento delle mie scelte") e un'istanza neoliberista ("io sono tanto più libero quanto più scelte ho"). In tutti e due i casi il dato con cui fare i conti è l'espansione del sé, ovvero quella che Nietzsche chiamava "volontà di potenza" intendendo con questo il desiderio di vita.
La scuola, in questo contesto, va in crisi e fare l'insegnante è difficile perché significa fare i conti con:
- una domanda forte di soggettività (spesso poi frustrata a livello sociale);
- la capacità di rispondere alla domanda di competenza tecnica da parte del mercato;
- la capacità di rispondere a una cultura plurale.
La conclusione di Magatti è duplice. Da una parte l'invito a recuperare la realtà a discapito dell'espansione del sé: dove l'elemento proiettivo è preponderante, diviene esclusivo, rischia il delirio. Dall'altra l'invito a rivalutare l'impotenza: è sana, reca in sé la cifra dell'essere umano.

Che fare?
La tavola rotonda che ha chiuso la prima giornata di lavori (poco prima avevo tenuto la mia relazione sui neoapprendimenti) ci ha visto proporre da Elena Besozzi questioni molto operative. Personalmente ho provato ad abbozzare una risposta a quella che chiedeva come colmare il gap che sembra oggi allontanare le generazioni, soprattutto in scuola, soprattutto in relazione ai media digitali e alla loro cultura. Ho fornito quattro indicazioni operative:
1) fare i conti con le rappresentazioni sociali dell'infanzia e dell'età adulta. Considerare che spesso sono stereotipate, inattuali, come quando pensiamo che i "nativi digitali" esistano e che siano veramente più esperti degli adulti in materia di tecnologie;
2) concettualizzare i media stessi come spazi di incontro intergenerazionale. Ho portato a questo riguardo l'esempio della comunicazione familiare e di come, in essa, proprio grazie al telefono cellulare, si aprano interessanti spazi di complicità e di opportunità per la presenza genitoriale;
3) predisporre passerelle conversazionali: parlare dei media, dei loro consumi, fare attività di glossa, aiutare i ragazzi a leggere i loro consumi e a orientarli per il meglio;
4) naturalizzare i media. Farli scomparire come macchine, riconcettualizzarli come strumenti di lavoro normali nella quotidianità della classe.

Educare la libertà e la responsabilità
Nel suo intervento Elena Besozzi ha lavorato attorno al concetto di cittadinanza. Lo ha fatto partendo dalla constatazione della crisi del mandato tradizionale che le società hanno sempre dato alla scuola, ovvero di educare il lavoratore r il cittadino. Ma la prospettiva è stata di cogliere più gli spazi di rilancio che quelli di crisi, più i punti forti della crisi che non quelli deboli. Su questi ha costruito la sua proposta, centrata sull'esperienza dell'altro in un percorso che deve mettere in conto 4 R: riconoscimento, rispetto, reciprocità e responsabilità. E ha chiuso citando Stefano Franscini: "Ove non v'è istruzione, non v'è libertà". Oggi, suggerisce Elena, dove non si educa la libertà, non c'è istruzione.

Monday, October 31, 2011

Innovazione e tradizione


Qualsiasi innovazione prima o poi si converte in tradizione. Riflettevo su questa constatazione di Walter Benjamin venerdì scorso mentre assistevo al Teatro Carignano di Torino a Man of flesh & cardboard (Uomo di carne e cartone), lo spettacolo con cui Alberto Jona e la direzione del Festival del Teatro di Figura hanno riportato in Italia dopo anni i Bread and Puppet, la storica compagnia di teatro d'avanguardia fondata a New York da Peter Schumann nel 1961.
Bread and puppet vuol dire pane e burattini. Sono i due elementi che hanno sempre contraddistinto la proposta di Schumann: le grandi sagome che sono i veri protagonisti dei suoi spettacoli e il pane che la compagnia distribuisce agli spettatori alla fine della performance, un rito laico che è simbolo di condivisione e allo stesso tempo della quotidiana necessità del teatro. Sì, perché il teatro per Bread and Puppet ha sempre voluto dire impegno politico e partecipazione: una concezione non-spettacolare, volta, secondo i dettami del Nuovo Teatro, ad affermare che la scena è vita e non finzione.
Lo spettacolo presentato a Torino non fa eccezione. Esso mette in scena la vicenda del soldato Manning, in attesa di esecuzione in un carcere militare della Virginia per aver rivelato i dettagli di un massacro di civili compiuto da un elicottero dell'esercito americano nel 2009 a Baghdad. L'allestimento presenta tutte le scelte espressive caratteristiche della compagnia: la presenza di Schumann sulla scena - i lunghi capelli e la barba bianchi - in qualità di officiante del rito; la poetica straniante volta di continuo a strappare lo spettatore all'incanto del teatro; la dimensione corale, a rovesciare la logica dell'attore in quella del gruppo e a riprendere la tradizione della tragedia greca, dove proprio il coro rappresenta il punto di vista esterno sui fatti e lo spazio in cui si organizza la coscienza civile; le scelte espressive rarefatte, densamente simboliche, di chiara provenienza orientale (dal kabuki al bunraku, cui sembrano alludere gli attori-burattinai completamente vestiti di nero). Ma il dispositivo spettacolare non innesca più la protesta, non produce l'adesione dello spettatore. Sono cambiati il clima e il contesto. Negli anni '60 durante la guerra del Vietnam Schumann faceva controinformazione, svegliava l'America e le indicava dove stesse la verità, dietro ai depistaggi dei militari. Oggi la guerra ci è già entrata in casa mille volte grazie alla pervasività dei media: ci ha già sensibilizzati e poi gradualmente assuefatti. Così lo spettacolo si sgonfia e dimostra il suo vero funzionamento, al di là delle intenzioni dello stesso Schumann: è archeologia teatrale, è la messa in scena di un gruppo che è ormai storia. Lo conferma il contesto del Carignano, un gioiello architettonico, ma assolutamente contrastante come spazio-ambiente di un gruppo, i Bread and Puppet, che hanno sempre agito i loro happening nelle strade. Insomma, il vissuto è di non essere a teatro, ma in un museo. Per noi che la poetica del Gruppo l'abbiamo conosciuta sui banchi dell'Università una straordinaria (ma anche un po' nostalgica) madeleine; per alcuni giovani due file dietro a me e all'amico Fabio, una provocazione incomprensibile: "Abbiamo pagato!".
Proprio con Fabio ed Enrica, gli amici torinesi che devo ringraziare per la serata, si commentava lo spettacolo, uscendo dalla sala, mentre Irene ed Eugenia - le adorabili figlie di Enrica - si portavano via come trofeo la testa di un burattino fatta di pane. Si commentava organizzando nel dialogo queste considerazioni che ho provato in gran sintesi a restituire. L'Avanguardia, ciò che negli anni '60 era Avanguardia, oggi è tradizione. Vedere i Bread and Puppet a teatro è un'operazione da intellettuali: negli anni '60 era una forma di protesta. Ma mentre noi - come in un cineforum - "leggiamo" il dato culturale, il soldato Manning sta veramente aspettando l'esecuzione e le madri e i bambini di Baghdad sono veramente morti sotto il tiro degli americani. La verità attorno a cui lo spettacolo ruota è nella frase che si organizza sulla lavagna a fogli mobili che Peter Schumann usa nell'angolo del palco. Su quella lavagna, parole sparse cercano un loro ordine durante l'azione. Quando finalmente lo trovano, la frase che ne risulta è: "Where are we going?". Dove stiamo andando? La domanda è per ciascuno di noi.

Tuesday, October 25, 2011

Fare scuola in ospedale


Da qualche mese il CREMIT, il centro di ricerca che dirigo in Università Cattolica, sta prendendo parte a un percorso di formazione che l'USR della Lombardia ha attivato per i dirigenti e gli insegnanti delle scuole lombarde che hanno una sezione di scuola in ospedale. Si tratta di un percorso importante sotto tanti punti di vista: da quello organizzativo (il percorso si è aperto con una ricerca volta alla definizione di bisogni, modelli didattici e buone pratiche delle scuole partecipanti) a quello didattico (questa proposta di formazione giunge a distanza di diverso tempo dall'ultimo progetto organico al riguardo che risale a una decina di anni fa). Inoltre il percorso di formazione prevede che, sulla base della ridefinizione dei modelli di intervento, si possano sperimentare anche tecnologie innovative a supporto dell'insegnamento e degli apprendimenti, con un accento particolare sul mobile learning.
Dopo i primi due moduli, dedicati rispettivamente alla ricerca sui bisogni e alla relazione inclusiva con lo studente, stiamo per varare il terzo modulo sulle didattiche. Tre sono i punti di attenzione che dalla fase di ricerca sono emersi e che secondo me occorre tenere presenti.
1. Il modello didattico di riferimento, quando si opera in una sezione ospedaliera, non può essere quello dell'insegnamento. Infatti, da una parte, nelle situazioni di gruppo, si presentano tutte le classiche problematiche delle pluriclasse (bambini e ragazzi di tutte le età), dall'altra, nel lavoro individuale (che nel caso dell'istruzione domiciliare è la condizione obbligata), si creano situazioni di relazione molto differenti da quelle della lezione. Tutto indica nella direzione di un cambio di paradigma verso didattiche di tipo tutoriale attraverso l'attivazione di due livelli di intervento:
- il peering e il reciprocal teaching. Ovvero il ricorso alle pratiche di apprendimento tra pari e di reciproco insegnamento in cui il ragazzo più esperto si fa trainer del meno esperto. Sono strategie tipiche delle cultura partecipative giovanile che si aggregano nel social network: un elemento in più per adottarle nella didattica;
- il one-to-one. Ovvero il ricorso a tutte quelle tecniche di aiuto individuale che nel linguaggio del costruttivismo sono indicate come scaffolding, cognitivo ed emotivo.
2. La tecnologia spesso viene salutata per la sua funzione motivazionale e di supporto rispetto agli apprendimenti e all'attività didattica. Di fatto la ricerca recente dimostra che non è tanto la tecnologia a risultare motivante di per sé, quanto piuttosto le attività che ne prevedono l'uso. Questo significa che non è dando un I-pad a ogni ragazzo che si possono ottenere risultati, ma progettando attività interessanti di cui l'I-pad sia il baricentro. Il primato non va dato alla tecnologia, ma alla condivisione delle pratiche.
3. Un ultimo rilievo lo meritano le nuove competenze che proprio la diffusione dei media digitali sta richiedendo di sviluppare e che svolgono un ruolo centrale soprattutto in una didattica atipica come quella che si volge "oltre l'aula". ne accenniamo solo alcune, sulla falsariga di Jenkins (2010):
- le abilità di ricerca;
- il gioco: saper fare esperienze e maturare attitudine al problem solving;
- la simulazione: saper costruire modelli dei processi del mondo reale;
- l'appropriazione: ovvero, come ricavare il massimo dall'abitudine al cut and paste;
- la conoscenza distribuita: come saper archiviare le proprie informazioni e richiamarle al momento opportuno;
- giudizio: valutare credibilità e affidabilità delle fonti.
Si tratta di un obiettivo da far raggiungere, non sono agli studenti ma prima ancora agli insegnanti.

Saturday, October 1, 2011

Media, tecnologie, formazione degli insegnanti


Si è tenuto il 29-30 settembre a Roma il Congresso annuale della SIREM, dedicato quest'anno al tema delle competenze che gli insegnanti devono sviluppare per inserire nella loro didattica i media e le tecnologie. Non voglio ripercorrere qui tutta la ricchezza dei contributi (il programma e la documentazione si possono vedere nel sito della SIREM) ma solo richiamare alcuni temi che al'interno del dibattito sono stati messi a fuoco.

Contenitori della conoscenza. Ne ha parlato Vittorio Midoro nel suo intervento sottolineando come sia soprattutto a questo riguardo che va registrato il principale cambiamento derivante dall'adozione delle tecnologie nella didattica. Con questa categoria inclusiva si fa riferimento tanto ai giacimenti di risorse (contenitori espliciti) quanto alle comunità di pratica (contenitori impliciti). Molte delle questioni didatticamente rilevanti nella ricerca tecnologica oggi passano da qui. Ne ricordo alcuni: l'approccio semantico alla ricerca delle informazioni, le ontologie, la Crowdsourced Education.

Coltivatori digitali. Nicola Paparella, intervenendo nel dibattito, ha sottolineato come in materia di tecnologie dell'informazione e della comunicazione siamo passati senza step intermedi dall'uomo "raccoglitore" all'uomo "cacciatore". Il primo pedina le informazioni, le recupera, le ordina. Il secondo le "stana" senza molta strategia e quando trova qualcosa la infila nel carniere. Mentre Nicola parlava pensavo a molti miei studenti: non hanno più bisogno di essere raccoglitori, perché la riserva di caccia del web è a portata di clic; ma la caccia è spesso frettolosa, condotta senza metodo, "si tira" alla prima cosa che si muove. Continuando sul filo della metafora l'indicazione è di lavorare a costruire dei coltivatori digitali. Per esserlo occorrono scienza ed esperienza, il rapporto con il territorio, la consapevolezza dei tempi, la pazienza della semina e la capacità di scegliere i tempi del raccolto. Insomma, tutto quello che si addice ad un atteggiamento di saggezza, la virtù per eccellenza dell'etica digitale.

Un nuovo maestro Manzi. Si auspica di vederlo spuntare all'orizzonte Alfio Andronico, uno dei padri di AICA e dell'informatica nella didattica in Italia. Anche qui il suggerimento mi piace. Perché il Maestro Manzi aveva capito che con i media (nel suo caso la televisione) si può essere efficaci solo se si comprendono in profondità i loro linguaggi e si è capaci di esprimersi con essi. Si tratta di un'operazione di traduzione linguistica e culturale senza di cui è difficile andare lontano.

Questioni aperte. Sono anche emerse tutta una serie di questioni che meritano attenzione: il problema della definizione di uno standard (o quanto meno di linee-guida) per le competenze digitali degli insegnanti; il problema della certificazione di queste competenze; il problema della spinta a che, anche in Italia, si possa diffondere - come già all'estero - la buona prassi di istituire nelle università Centri  che si occupino di Teaching and Learning; da ultimo il problema di riconoscere alle università la possibilità di occuparsi della formazione iniziale degli insegnanti anche in modalità e-learning, venendo incontro alle esigenze di molti insegnanti a diverso titolo già professionalmente impegnati.

Un documento di programma. La SIREM, durante il convegno, ha presentato e discusso un documento che, integrato e modificato, diventerà la proposta ufficiale che la Società Scientifica farà al MIUR e alla CRUI per avviare una discussione seria su un tema non aggirabile. La competenza digitale nel 2011 non può essere considerata un optional o un "pallino" di alcuni insegnanti "tecnologici", ma deve diventare un sapere professionale proprio come gli altri che entrano fattivamente a costituire il profilo professionale di chi insegna. E' un impegno.


Tuesday, May 31, 2011

I ragazzi, gli adulti e i media

Su richiesta degli amici delle ASL liguri torno sui contenuti del dibattito che fece seguito al mio intervento “genovese” di cui ho già riferito in un recente post di questo blog. Si discuteva di “nativi” e “migranti” e di come colmare il gap esistente tra loro per facilitarne la comunicazione. Avevo organizzato le risposte alle domande – tante e tutte interessanti – attorno a tre grandi item:
- i concetti;
- gli attori;
- le pratiche.
Restituisco in sintesi in questo post l’intelaiatura del mio discorso a tutti e tre questi livelli.

1. I concetti
Un primo focus riguarda categorie come quelle di “virtualità” e di “informazione” che continuano a fare problema. Ci si chiede, infatti, se “essere sociali” nel Web sia la stessa cosa che esserlo “nel sociale”: la preoccupazione è, insomma, che alla lunga la socialità mediata sottragga tempo e spessore alla socialità “in carne ed ossa”. Sul versante dell’informazione, invece, soprattutto da parte di chi opera nella prevenzione, è sempre più chiaro che la conoscenza del rischio non è sufficiente a garantire che il ragazzo lo eviti.
La prima questione mi consente di dire che la categoria del virtuale, in quanto contrapposta a quella del reale, va definitivamente dichiarata superata. Ci aveva già pensato diversi anni orsono Pierre Levy a far osservare che l’opposto del virtuale non è il reale, ma l'attuale. Aristotelicamente, la virtus (ovvero la potenza, la entelechia) non è nulla, ma una forma d’essere assolutamente "reale": nel seme il frutto è in potenza, nel frutto la potenzialità del seme è portata all’atto. Vale lo stesso per la tecnologia. Una relazione mediata da computer non è priva di realtà, al contrario: soprattutto non è alternativa rispetto ad altre forme della relazione insieme alle quali determina l’insieme delle possibilità attraverso cui il soggetto costruisce il proprio mondo sociale. Non ha più senso parlare di reale e virtuale in un contesto come quello attuale in cui quel che sperimentiamo è piuttosto uno spazio-tempo assemblato: le categorie importanti oggi sono quelle di intimo/privato, o di isolamento/partecipazione.
Quanto all’informazione è chiaro che essa non esaurisce il compito della formazione. L’informazione di per sé può non essere sufficiente a prevenire il rischio: essa perde di efficacia man mano che passa il tempo dal momento in cui la si è reperita; può alimentare la curiosità invece di sollecitare l’attenzione; se è troppo tecnica rischia di essere molto lontana dalle pratiche dei soggetti, che fanno fatica a ricondurla ai contesti di vita dei quali fanno esperienza. Tutto questo spinge a sperimentare altre forme di intervento.

2. Gli attori
I protagonisti della “partita” sono i ragazzi e gli adulti. Si tratta di due categorie di soggetti che più che divise da differenze generazionali (o, peggio, evolutive) mi sembrano incapaci di ascolto e relazione, soprattutto per colpa degli adulti.
La ricerca recente sui consumi degli adolescenti indica che i ragazzi distribuiscono bene le loro attività: le loro “diete” sono equilibrate. Rari sono i casi di ragazzi riconducibili al profilo degli “hikikomori”. La casa sta sostituendo la piazza come luogo di ritrovo, o meglio, dalla casa è possibile raggiungere quei luoghi sociali perfettamente integrati nelle nostre vite che sono i social network: gli adolescenti sono sempre in contatto, sia off che on line. Usano i loro media non per isolarsi ma per fare comunità. Certo Internet rappresenta per loro anche un rischio (se si pensa al pericolo del grooming, soprattutto per i più piccoli), ma occorre non dimenticare che sono numerosi i casi in cui sono proprio gli adolescenti ad “adescare” gli adulti.
Gli adulti sono normalmente molto lontani dalle forme di consumo dei ragazzi. Le culture partecipative di cui loro sono protagonisti sono distanti. L’adulto ha spesso voglia di ritirarsi più che di partecipare, oppure vede nel social network un’opportunità per tornare in gioco, senza riuscire a capire che colmare il gap non significa tornare adolescenti. Se poi parliamo di quel tipo particolare di adulto che è l’insegnante, pare di poter dire che la categoria che per lo più lo descrive (tranne le positive eccezioni, che pure esistono) sia quella della refrattarietà. Gli insegnanti non si mettono in gioco, hanno paura. Le ragioni sono diverse: bassa autostima, percezione di richieste elevate, mancanza di formazione metodologica, un atteggiamento conservativo come forma di autodifesa. In una battuta: la scuola non è cambiata, il mondo sì.

3. Le pratiche
Come attivare il dialogo? Come colmare il gap? Procedendo per punti, schematicamente, si possono fissare alcune indicazioni operative:
- riscoprire il valore della mediazione (che però significa chiedere agli adulti di riappropriarsi di questo compito, di tornare ad essere significativi per i ragazzi);
- usare i media e i linguaggi dei giovani per aprire dei canali di prevenzione;
- mettere al centro il bambino-autore, ossia promuovere l’uso creativo del cellulare e degli altri media per sviluppare senso critico attraverso la produzione dei messaggi;
- ibridare le culture e condividere le pratiche;
- allestire delle passerelle conversazionali da percorrere nei due sensi: ci sono esperienze dei ragazzi che devono poter “entrare” nel mondo degli adulti e viceversa. E a volte proprio la rete, minacciando di compromettere per sempre la relazione, finisce per attivarla, come succede nel film di Veronesi Genitori e figli. Agitare bene prima dell'uso.


Thursday, May 26, 2011

La relazione educatore-bambino

Sono reduce da una bella mattinata. Con Susanna Mantovani abbiamo tenuto le due relazioni-guida di una giornata di formazione per le insegnanti di scuola dell'infanzia e le educatrici di nido del Comune di Milano,  nell'ambito di un più articolato progetto formativo. Il tema della giornata era la relazione tra educatore e bambino. Susanna lo ha affrontato occupandosi del "dentro" (la sezione, la classe). Lo ha fatto con la proverbiale efficacia comunicativa, la passione che le brilla negli occhi quando si parla di bambini, la smisurata competenza che ne fa su questo tema uno dei massimi esperti a livello internazionale. Io mi sono inserito provando a costruire un quadro complementare a quello della sua analisi. Partendo dalla sua affermazione secondo cui nelle relazioni esistono delle costanti (e delle variabili) culturali ho cercato di restituire un punto di vista interpretativo su quelle tra queste costanti che caratterizzano l'oggi, disegnando un quadro di quel che rispetto alla sezione e alla classe è il "fuori".
Il mio punto di partenza è (stato) un dato, evidente a chiunque si occupi di educazione: sembra che i bambini (ma anche gli adolescenti, i giovani) di oggi siano in qualche modo diversi da come eravamo noi (o anche solo i loro predecessori di 5/10 anni orsono). Più svegli? Più distratti? Più intelligenti? Meno profondi? Meno creativi? Meno obbedienti? Più irrequieti?
Ma è vero? In che misura? E su che base?
Provo a rispondere in tre passaggi:
- una tesi;
- alcune linee di analisi;
- delle piste operative.

1. La tesi
Non sono diversi i bambini, è diversa la società, ma i sistemi formativi sono sempre gli stessi.
Da questa tesi derivano alcune conseguenze:
a) fissarsi sulla "loro" diversità è un alibi per la "nostra" incapacità (come sempre capita quando si gioca il gioco del "noi e loro");
b) fissarsi sulla "loro" diversità innesca meccanismi nostalgici di ritorno a presunte età dell'oro dell'educazione ("non ci sono più i bambini di una volta", "eh, la scuola di una volta sì...");
c) fissarsi sulla "loro" diversità non consente di accettare e vivere il cambiamento.

2. Linee di analisi
Ma dove passa il cambiamento? Quali sono gli elementi che alimentano la percezione di diversità dei bambini di oggi? Ne individuo tre (potrebbero essere di più).
a) La precocità. Va addebitata alla società degli adulti, al venir meno della strada e del cortile (percepiti come poco sicuri e la percezione è spesso sproporzionata rispetto alla sicurezza reale), al fatto che i bambini si interfacciano soprattutto con gli adulti, ne assumono i comportamenti, ne prendono a modello gli stili. Il risultato è l'adultizzazione precoce, il furto dell'infanzia perpetrato ai danni del bambino, che ce se ne renda conto o meno. Ne è immagine eloquente Little Miss America, il programma della televisione americana che nelle ultime settimane mantiene il primo posto nella classifica di Striscia dedicata ai nuovi mostri.
b) La familiarità con i dispositivi tecnologici. I bambini - senza riaddentrarci nella questione dei "nativi digitali" - vivono nella società dell'informazione, una società in cui la diffusione, la naturalizzazione e l'indossabilità dei media li rende sempre più integrati con le pratiche dei soggetti.
Da questa familiarità dipendono altri aspetti della "nuova infanzia":
- velocità esecutiva;
- attenzione distribuita;
- multitasking.
c) La difficoltà a gestire la frustrazione. La nostra è una società dell'abbondanza in cui il disagio è spesso legato all'avere troppo. I bambini di oggi sono vittime del surriscaldamento affettivo (Meirieu) di cui i genitori li circondano, ovvero: iperaccudimento, protezione, difesa d'ufficio, assecondamento. La troppogenitorialità di cui parla Anna Mariani in un suo libro.

3. Proposte educative
Come costruire la relazione di fronte a queste istanze? La risposta passa per la lettura di questi elementi e la individuazione dei bisogni che ne derivano. In sintesi:
a) compensare, disadultizzare, proporre attività e stili di relazione a misura di bambino;
b) garantire continuità (i media devono essere anche in classe, in sezione) ma allo stesso tempo bilanciare, mediare i media, favorire esperienze dirette e outdoor, lavorare sulla natura tattile dei media, un aspetto ch essi condividono con le altre esperienze del bambino;
c) sdrammatizzare, contenere, chiedere al genitore atteggiamenti più equilibrati. Qui incomincia veramente il difficile.

Saturday, May 21, 2011

Abitanti digitali


Sono reduce da Macerata, dove ho preso parte al Convegno "Abitanti digitali", l'ultimo (per ora) organizzato dall'Ufficio Comunicazioni Sociali della CEI sul tema del rapporto tra i nuovi media e la pastorale. Sulla via del ritorno ho maturato alcune riflessioni che "in punta di piedi" mi piace condividere.
La prima. Come si potrebbe dire citando Cetto La Qualunque, abbiamo capito cosa oggi renda qualsiasi cosa un successo: solo, quantunquemente ed esclusivamente IL DIGITALE. Responsabili delle politiche pubbliche, giornalisti, professori universitari (mi ci metto anch'io), tutti sono accomunati da un unico grande discorso: nativi digitali, scuole digitali, montagne digitali, parchi digitali, tutto digitale. E' la maledizione dell'avanguardia, come suggeriva Benjamin: prima o poi si converte in tradizione! Lì nasce il problema: perché se tutto è digitale è come se nulla più lo fosse. Tutti ne parlano. Non si distingue più niente, non si capisce più molto. Mi era già capitato di assistere a qualcosa di simile con la Media Education e quando è successo mi sono detto che dovevo smetterla di occuparmene: mi sa che farò lo stesso con il digitale...
Seconda considerazione. Ieri mattina, durante il dibattito seguito alla relazione-chiave del convegno, si sono ascoltati un sacerdote, un padre di famiglia, un giovane di 23 anni, un nonno. Forse in maniera non del tutto composta (soprattutto se si pensa che l'evento era in streaming sul Web) hanno detto alcune cose che mi hanno fatto pensare e mi hanno un po' messo in crisi. Il sacerdote ha chiesto perché non gli lasciassero "dire Messa" lì dove i ragazzi si incontrano: la piazza, la pizzeria... Il padre di famiglia si è chiesto: ma se tutti i preti sono su Facebook, poi, con la gente chi ci parla per davvero? Il giovane anche lui si faceva una domanda: perché TV 2000, la TV dei Vescovi, ha chiuso l'unico programma per i giovani della televisione italiana, "Uno X Uno" (lo aveva ideato e ne era l'anima Gianfranco Scancarello, un grande educatore, uno splendido padre di famiglia, un testimone della fede la cui vita da cinque anni è stata violentata dai presunti fatti di Rignano)? E poi il nonno. Un nonno toscano, che ha parlato dell'importanza di insegnare ai bambini l'odore delle vacche e a resistere alle mode. La ricetta in "cinque" parole targate Lorenzo Milani: "Ribellatevi! Ne avete l'età". Mi sembrano spunti belli, importanti: se devo essere sincero me li sono portati a casa come il guadagno vero del convegno, con tutto il rispetto per la sua parte "accademica" (mia relazione inclusa).
Terza considerazione. Un sacerdote della diocesi di Padova, in un quarto d'ora, prima del pranzo, quando il richiamo delle olive ascolane era già forte, ha dato a tutti una lezione. Una lezione di pastorale vissuta. Don Marco Sanavio è un "animale pastorale": la creatività e il genio di saper stare con i giovani ce l'ha nel sangue. Il suo racconto di un corso elearning "libero" per gli animatori pastorali, che ha innescato una "rete di feste" della pace in tutta la diocesi è stato commovente come sempre sa esserlo tutto ciò che tocca in profondità quel che c'è in noi di più umano. Auguro a Don Marco di non fare carriera: credo che il posto migliore per uno come lui sia stare in mezzo ai ragazzi. Se lo portassero via di lì allora sì che sarebbe un delitto. Sarebbe un delitto perché abbiamo bisogno di educatori, ne abbiamo bisogno come il pane. Solo dagli educatori, dai testimoni veri, dipende la possibilità per noi di avere un futuro. Diamo fiducia ai giovani: se la meritano e aspettano solo che qualcuno di noi si sintonizzi con loro. A patto di essere significativo. Ah, dimenticavo... L'immagine è tratta dal ciclo dedicato da Arcabas ad Emmaus. Rappresenta il "fotogramma" della missione: "E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme..."...

Saturday, April 30, 2011

Nativi... migranti: come colmare il gap per comunicare meglio

Il 28 aprile scorso sono stato impegnato a Genova in una giornata di formazione con gli operatori delle ASL liguri che inaugurava un ciclo di incontri sulla Media Education come strumento di prevenzione nel lavoro con gli adolescenti. Il titolo che mi è stato assegnato chiedeva di problematizzare il rapporto tra generazioni riguardo all'uso dei media e di indicare strategie operative per superare il gap a questo riguardo. Ho organizzato il mio intervento in tre momenti:
- un'attività di innesco;
- una definizione dei termini e dei problemi in gioco;
- l'indicazione di alcune proposte operative.

1. Giochiamo con gli SMS...
Ho iniziato col verificare che tutti avessero il cellulare... acceso. Poi ho chiesto di comporre un SMS nel quale spiegare a chi non ne sapesse nulla chi/cosa è un nativo digitale. Mentre tutti tenevano il loro SMS composto sullo schermo del loro telefonino ho avviato un brain storming sulle difficoltà incontrate per redigere il testo. Le risposte, in ordine sparso, hanno constatato che:
- occorre una manualità allenata;
- è difficile digitare velocemente;
- occorre conoscere la sintassi degli SMS (ad esempio per ricorrere a smileys e abbreviazioni);
- si deve sintetizzare in poche battute un concetto complesso e articolato;
- bisogna tenere presente il target cui ci si sta rivolgendo.
L'analisi di queste osservazioni ci ha condotto a una prima conclusione provvisoria: la redazione di un SMS non è un gioco banale,  richiede lo sviluppo di skills e competenze.
Per skill intendo un'abilità procedurale, la destrezza, la capacità d'uso che si acquisisce in forma di habitus (nel senso aristotelico del termine) attraverso l'esercizio, la reiterazione del compito.
La competenza, invece, è un sapere di azione, è la capacità di agire strategicamente orchestrando schemi di azione per risolvere problemi complessi.
Ho chiesto a questo punto di inviarmi gli SMS. Eccone qui di seguito qualcuno (ricordo che la richiesta era di definire il nativo digitale):
- "Chi è cresciuto respirando le nuove tecnologie"
- "Nato con la tast, il pc e amico di google e dei blog"
- "Chi è nato e cresciuto nell'era di internet dal '90 in poi"
- "Persone che sono cresciute masticando pane e tecnologie digitali. Inevitabilmente giovani"
- "Nessun pulsante, nessuno schermo, nessuna tastiera o attrezzo "connesso" mette in crisi un nativo digitale!"
La pubblica lettura di questi SMS (erano molti di più, ho riportato i principali) ha consentito di avviare una discussione sulle rappresentazioni individuali e sociali del nativo digitale. Il risultato è stato l'accordo sul fatto che il nativo abbia dimestichezza con la tecnologia, ma l'apertura di due fronti: quello di coloro che lo ritengono una categoria generazionale (giovane, nato negli anni ''90) e chi invece ritiene di no. Tornerò più avanti sulla questione che ho già peraltro "liquidato" in un altro post di questo blog.

2. Termini e problemi in gioco
La diffusione sociale dei nuovi media genera nuove forme di organizzazione cognitiva che sono legate a nuove modalità di fare esperienza del mondo. Ne individuo tre fornendo di ciascuna una definizione, alcuni esempi, la funzione cognitiva che essa interessa e il tipo di gap che suggerisce.

a) Workflow Learning (WL)
Si tratta letteralmente di un apprendimento che avviene contestualmente allo svolgimento di occupazioni che non hanno nulla a che vedere con l'apprendimento.
Alcuni esempi:
- apprendere le funzioni di un cellulare usandolo;
- sviluppare competenze inferenziali videogiocando;
- raccogliere informazioni sull'attualità facendo zapping in televisione;
- imparare a rendere la propria comunicazione sintetica, significativa e mirata al suo target componendo SMS.
La funzione cognitiva maggiormente sollecitata (modificata?) dal WL è l'attenzione: non viene richiesto che sia focalizzata; si apprende comunque anche se essa è distribuita.
Qui il gap rispetto a logiche di apprendimento più tradizionali si registra esattamente al livello della coppia focalizzato/distribuito: in contesto formale l'apprendimento è sempre intenzionale e presuppone l'attenzione esclusiva di chi apprende.

b) User Generated Context
Si tratta di una forma particolare di protagonismo dell'utente che consiste nella capacità di generare contesti cognitivi personali all'interno dei quali collocare le informazioni e le esperienze che ci appartengono per assegnare ad esse significato.
Alcuni esempi:
- ricorrere ad aggregatori di risorse Web per disporre di una mappa sintetica delle proprie forme di presenza on line;
- utilizzare gli RSS feed per rimanere aggiornati sui temi di proprio interesse;
- organizzare le proprie informazioni in forma di repertori di link (come in Delicious);
- usare tecniche di ritaglio, riporto, citazione per appropriarsi di idee e contenuti che ci sentiamo di condividere.
La funzione cognitiva in questo caso sollecitata è la memoria: quella a breve termine viene sollecitata al momento della navigazione/selezione delle risorse da contestualizzare, quella a lungo termine viene chiamata a fissare più che i contenuti, i contesti e i percorsi che servono al recupero efficace dei dati.
Il gap rispetto alle logiche di apprendimento tradizionale è legato a un uso diverso della memoria a lungo termine: dalla memoria-magazzino alla memoria-indice.

c) Friends Storing
Si tratta della capacità di allestire e mantenere reti sociali all'interno delle quali reperire risorse e informazioni e attraverso le quali esercitare l'intelligenza collettiva e la partecipazione.
Alcuni esempi:
- organizzare la lista dei propri amici nel social network;
- creare e mantenere gruppi in Facebook;
- partecipare a newsgroup e liste di discussione;
- utilizzare servizi di condivisione e conversazione come Google Buzz e Twitter.
In questo caso quel che viene sollecitato è l'intelligenza sociale e connettiva: la capacità di entrare in relazione con altri soggetti, di entrare in logiche di tipo collaborativo, di sviluppare forme di partecipazione.
Il gap in questo caso è legato al tipo differente di cultura che si costruisce insieme alle sue logiche. Le culture di questo tipo sono culture partecipative (Jenkins) basate sulla condivisione di spazi di affinità (Gee) e caratterizzate da alcuni elementi distintivi:
- forte senso di appartenenza, percezione di importanza rispetto al legame sociale;
- forme di tutoraggio peer-to-peer;
- spinta alla condivisione e alla creazione di materiali;
- barriere abbastanza basse rispetto a impegno civico ed espressione creativa.
Si tratta di aspetti che normalmente non appartengono ai contesti tradizionali, tendenzialmente individuali e non partecipativi.

In tutti questi casi il gap è generazionale? E' un problema di anagrafica? O di competenze sviluppate con l'uso?

3. Colmare il gap
Cominciano a individuare livelli diversi ai quali il gap si può registrare.
Vi è anzitutto un participation gap: è il problema dell'accesso diseguale, che comporta di negare a chi non ha accesso la possibilità di usufruire delle opportunità dei media digitali, a chi ha già delle competenze di non poterle utilizzare.
A un livello più alto è il language gap: si può avere accesso dal punto di vista tecnico ma non possedere gli alfabeti. Le competenze informatiche di base sono una competenza-chiave di cittadinanza nella società odierna.
Il linguaggio, il controllo tecnico del mezzo e dei suoi alfabeti non è tutto. Vi sono conoscenze relative al mondo della comunicazione digitale che non si possono ridurre alla padronanza del mezzo (knowledge gap).
Infine, occorre comprendere che i media sono sistemi culturali che modellano le rappresentazioni e i valori e costituiscono spazi di organizzazione dei significati e delle pratiche attraverso cui produrli (culture gap).
Metodologicamente, questi gap si possono colmare a due livelli:
- individuale, attraverso lo sforzo di conoscere, sperimentare, usare, acquisire competenze;
- operativo, immaginando modalità che consentano all'operatore di usare nell'intervento gli stessi strumenti, gli stessi linguaggi, le stesse logiche che animano le attività individuali e sociali con i media nel tempo e negli spazi dell'informale.

Riferimenti bibliografici:
H. Jenkins (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Milano: Guerini & Associati
P.C.Rivoltella, S. Ferrari (eds.)(2010). A scuola con i media digitali. Milano: Vita e Pensiero.

Per approfondire la questione dei nativi digitali:
http://www.giannimarconato.it/2010/01/come-apprende-un-nativo-digitale-una-testimonianza/

Tuesday, April 19, 2011

Amici reali e virtuali

Il 2 aprile scorso sono intervenuto ad Arese, vicino a Milano, nell'ambito di un ciclo di incontri per genitori organizzato dall'amministrazione comunale in collaborazione con il COSPES locale. Il tema - Amici reali e virtuali - mi ha consentito di articolare un intervento scandito in una premessa e tre passaggi che restituisco di seguito.
La premessa è costituita dal "peso" che la discorsivizzazione sociale su questo tema è andata e va tuttora assumendo attraverso la stampa, la televisione, gli incontri come quello in oggetto. Questa discorsivizzazione è il luogo della contrapposizione di due grandi racconti.
Il primo è un racconto di emancipazione. Esso è alimentato dall'utopia tecnofila che lega alla tecnologia una serie di valori: l'emancipazione dal luogo (poter comunicare da qualsiasi posto, essere sempre connessi), l'emancipazione dal corpo (fare a meno di essere presenti), l'ampliamento delle possibilità umane.
L'altro è invece un racconto di conservazione. Lo alimenta la distopia tecnofoba che lega alla tecnologia la perdita del valore. Questo discorso produce la convinzione che i ragazzi di oggi siano diversi da quelli di ieri, che i nuovi media siano una moda e non vera cultura, che siano superficie laddove invece occorrerebbe la profondità (si veda come esempio di questa distopia l'ultimo libro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo).
Sono convinto che occorra andare oltre. Si tratta di lasciar perdere i discorsi e confrontarsi con serietà sulle pratiche.
Ed ecco i tre passaggi che scandiscono la mia analisi.

1. Amici reali, amici virtuali
Partiamo dagli amici. In Facebook ne ho 1339, la "legge dei 150" dice che tanti se ne possono annoverare in una vita intera, le analisi di Cameron Marlowe, sociologo in-house di Facebook, dice che nel social network ne abbiamo in media 120 ma che solo 4 o 5 di questi sono maintained. Si tratta di un primo spunto di riflessione: quando si parla di amici si tratta di intendersi sui termini.
Quanto al fatto, poi, che siano virtuali sembra ormai necessaria una decisa riconcettualizzazione del termine. Occorre passare dalla contrapposizione (real life vs artifical life) alla continuità: la rete costituisce solo uno dei tanti scenari di azione che costellano la nostra vita di relazione. Non c'è ragione di credere che sia meno "reale" o significativo di altri.

2. Fenomenologia della comunicazione mediata
Telefono cellulare e social media concorrono a modificare le logiche secondo le quali i ragazzi (ma anche noi) costruiscono la loro identità, le loro relazioni, ripensano la loro partecipazione.
La costruzione identitaria passa oggi in larga parte dalla mediazione dei media. Come altre volte ho ricordato, l'estroflessione e la fuga dal privato rappresentano due indicatori importanti di questo fenomeno: si passa dal diario custodito nel cassetto della scrivania al wall di Facebook. L'Identity Performance subentra alla Identity Erasure: non si gioca più a nascondersi o a simulare di essere altri da sé, ma si è pienamente se stessi, nel modo più pubblico che si possa immaginare.
Per quanto riguarda la relazione va notato come la comunicazione mediata non le sottragga tempo, ma di fatto la prolunghi: è questa la funzione di Messenger o di Facebook per gli adolescenti, ovvero di tenerli in contatto anche quando non possono più stare insieme fisicamente. Ma c'è di più. La relazione mediata sta producendo un ritorno dei legami: gli adolescenti tengono a far sapere di essere "fidanzati con", si fotografano con il loro lui/lei, rendono pubblica e ufficiale la loro relazione. D'altra parte, il telefono cellulare sta diventando uno strumento importantissimo di parenting: un guinzaglio sul cui filo si gioca la dialettica tra libnertà e controllo tra genitori e figli.
Un cenno merita infine la partecipazione. Il social network riporta in primo piano la razionalità dialogica per la soluzione dei conflitti e allo stesso tempo propone nuove forme di appartenenza: è il caso dei gruppi di Facebook, esperienze localizzanti più che globalizzanti. Ma allo stesso tempo occorre riflettere su come, questa volta in senso globalizzante, la rete estenda la percezione dell'altro oltre i limiti del locale. Una dialettica interessante su cui merita riflettere.

3. Per l'intervento educativo
Sul piano educativo, a margine di questi rilievi, ci si può muovere a due livelli.ù
In primo luogo occorre registrare delle oscillazioni che possono sfociare in criticità:
- nel caso del'identità, la fine della mediazione e la crisi dell'autorità;
- nel caso della relazione, la fuga dal silenzio e la saturazione sociale;
- nel caso della partecipazione, la costruzione di legami a bassa definizione o improntati alla logica dele fedeltà parallele.
Il secondo tipo di rilievo riguarda le strategie di intervento. Le domande dei genitori e degli educatori sono chiare: qual è l'età giusta per il primo cellulare? E quali competenze servono? Come si possono formare gli adulti? I filtri servono ?
In ordine sparso si possono annotare alcune indicazioni:
- educare non proteggere;
- inserire sempre la norma (le regole) all'interno della relazione;
- non prestare attenzione solo al tempo passato dai ragazzi con i media, ma anche ai contenuti, al tipo di attività che essi svolgono con essi.

Saturday, March 26, 2011

Le tecnologie e il "mestiere dello scienziato"

Si è concluso a ieri all'Università di Macerata un convegno internazionale, molto bello per la qualità degli interventi e il tenore del dibattito. Si è parlato di ricerca educativa, di come valutarne adeguatamente i prodotti,del ruolo delle riviste. Io sono stato invitato a tenervi una relazione  dal titolo "Paradigmi, metodi e tecnologie della ricerca educativa" che sarà pubblicata negli atti del convegno in uscita entro giugno di quest'anno. Ne anticipo in questo post una parte che ragiona sul ruolo mutato di chi fa ricerca.
Pierre Bourdieu, nel Mestiere dello scienziato (2003), estendendo la sua idea del capitale culturale alla comunità scientifica (capitale scientifico) vi distingue due retoriche che chiama repertorio empirista e repertorio contingente.
Il repertorio empirista è la retorica ufficiale della comunità scientifica: essa si esprime nei papers pubblicati sulle riviste e adotta una forma di comunicazione formale basata sull’espulsione della sfera soggettiva, sulla impersonalità, sulla controllabilità. Il repertorio contingente, invece, si esprime all’interno dei rapporti informali che gli studiosi hanno tra loro. Esso è fatto di intuizioni non dimostrate, di pratiche apprese con l’uso, di tutto il portato di cui il vissuto personale del ricercatore è costituito.
Queste due retoriche coesistono, anche se in forma ipocrita la comunità scientifica tende a nascondere la seconda costruendo così l’immagine ingannevole di un discorso scientifico che è il riflesso puro e semplice di una “conoscenza conoscente”. Di fatto, invece, se “dietro” quel discorso formale non ci fosse un habitus, «un “mestiere”, cioè un senso pratico dei problemi da trattare, dei modi più adeguati di trattarli, ecc.» (Bourdieu, 2003; 54) non avremmo neppure il discorso formale: «Questa padronanza pratica è una sorta di “connoisseurship” (arte del conoscitore) che può essere comunicata attraverso l’esempio, e non per via di precetti (contro la metodologia) e non è troppo diversa dall’arte di scovare un buon quadro, o di indicarne l’epoca e l’autore, senza essere necessariamente in grado di articolare i criteri impiegati» (Bourdieu, 2003; 54).
Ora, il capitale scientifico, ovvero quella particolare forma di potere simbolico dalla quale il ricercatore ricava il suo prestigio e la sua riconoscibilità all’interno della comunità scientifica, dipende tradizionalmente dalla posizione che egli si vede riconosciuta dai suoi colleghi/concorrenti proprio in ragione del suo repertorio empirico: lo strumento di questo riconoscimento è la citazione. Il duplice dispositivo dell’Impact Factor e dell’H-Index dipende da questa dialettica. Troviamo qui una prima “traiettoria”, un primo “stile”, che Bourdieu riconosce proprio dei “centrali”, degli “ortodossi”, dei “continuatori”.
Molto diversa da questa è la traiettoria dei “marginali”, degli “eretici”, dei “novatori” il cui habitus si esprime meglio in tutti quei momenti in cui sono chiamati a “essere se stessi”: nel momento degli esami, quando tengono delle relazioni nei seminari, quando accompagnano gli studenti nella redazione dei loro lavori, ma più semplicemente nel loro portamento, nei loro tic, nel loro modo di fare. Non è detto che questi tratti contraddistinguano il ricercatore riconosciuto dalla sua comunità scientifica: spesso sono propri invece del ricercatore che si guadagna una forte visibilità sociale (un fenomeno tipico di tutta la stagione neotelevisiva, in cui la presenza in studio dello “scienziato” in qualità di testimonial e certificatore è una costante) magari a discapito della sua posizione di marginalità nella sua comunità scientifica, oppure dello studioso che antepone alla “lotta per il riconoscimento” dentro la sua comunità scientifica, altri valori come la scelta educativa per lo studente.
Le tecnologie modificano in profondità questo rapporto.
In primo luogo, la possibilità di gestire un sito web o un blog personali, o ancor di più un profilo nei social network, favorisce la condivisione sociale del repertorio contingente del ricercatore. Questo comporta sia che il ricercatore dotato di un elevato capitale scientifico lo possa “spendere” anche socialmente fuori della sua comunità scientifica (nell’ambito della ricerca educativa è quanto succede per molti “guru” del momento, da Mizuko Ito, a Henry Jenkins, a Paul Gee), sia che ricercatori “marginali” o “eretici” ottengano un loro palcoscenico.
Al di là di questo, e in modo particolare per quanto attiene la ricerca educativa, la presenza del ricercatore all’interno della blogosfera o del social network ne costituisce uno strategico canale di comunicazione (e di influenza) sulle categorie professionali verso le quali la sua ricerca si sviluppa. È il caso degli insegnanti e della funzione che diversi ricercatori svolgono all’interno delle loro community, come il gruppo di Facebook “Insegnanti” o la comunità di Ning “La scuola che funziona”.
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una situazione molto diversa da quella del ricercatore che trova ospitalità sugli schermi dei media tradizionali. Infatti in questo caso, come Bourdieu ha fatto opportunamente rilevare, il ricercatore-opinionista televisivo, mentre guadagna in visibilità sociale il più delle volte perde il suo status di rispettabilità dentro la sua comunità scientifica. Nel caso dei social media la logica è diversa: soprattutto nel caso della ricerca educativa, essere presenti in essi rappresenta una scelta non dissonante ma complementare e coerente rispetto alla propria posizione all’interno della comunità scientifica.

Tuesday, March 1, 2011

Scegliere per il futuro


Nelle ultime settimane mi è capitato di partecipare, in contesti diversi, a iniziative di orientamento alla scelta universitaria degli studenti della scuola secondaria. Le riflessioni che ho condiviso con loro si possono organizzare attorno a tre punti: l'università oggi, le trasformazioni del mercato e del mondo del lavoro, alcuni consigli.

1. L'Università oggi
Il "processo di Bologna" come tutti sanno ha comportato la modifica degli ordinamenti universitari con l'introduzione del "3+2" e del sistema dei CFU (Crediti Formativi Universitari).
Le principali ragioni alla base di questa trasformazione erano:
- la facilitazione della mobilità degli studenti e dei docenti;
- il riconoscimento dei titoli per favorire l'occupazione nel mercato europeo.
Nel nostro Paese i risultati sono stati leggermente diversi:
- aumento del numero dei corsi di laurea (erano 3256 a fine 2008);
- proliferazione delle sedi periferiche (521 in 251 Comuni);
- moltiplicazione e differenziazione degli insegnamenti e delle loro denominazioni (che naturalmente ha significato moltiplicazione dei posti di ricercatore e di professore).
Risultato: disorientamento degli studenti e delle loro famiglie.
In questo momento il MIUR sta correggendo l'errore di sistema imponendo una drastica riduzione delle sedi, dei corsi, degli insegnamenti e anche dei posti. Inoltre sta aumentando il carico di insegnamento dei docenti in servizio.
Risultato: per la terza volta negli ultimi 5 anni le università stanno modificando la loro offerta formativa; un numero inferiore di professori con un maggiore carico di lavoro significa meno tempo per la ricerca e un aumento del rapporto docenti/studenti (e non si capisce sinceramente come questo possa significare aumento della qualità e più opportunità per i giovani). Il disorientamento degli studenti e delle famiglie resta.


2. Le trasformazioni del mercato e del mondo del lavoro
Indico solo alcuni elementi da tenere in considerazione nella scelta dell'università.
a) E' saltata la corrispondenza tra corso di studi e tipo di esito professionale (tranne che per i casi delle professioni in senso forte, dal medico al farmacista). Questo significa maggiore libertà nella scelta, ma anche maggiore impegno nel progettare il proprio futuro,
b) Si è modificato il concetto di professione/professionalità. Weberianamente lo si concepiva in termini di potere carismatico (appartenenza a una casta), oggi in termini di competenze. Questo significa che conta il voto di laurea, ma conterà sempre di più il Diploma Supplement che lo accompagna, ovvero la certificazione di quello che si sa fare.
c) Il mercato è dominato dal lavoro flessibile che ha subito un incremento del +36% negli ultimi quattro anni. Questo implica che i giovani (il 50,6% dei quali si immagina un futuro lontano dall'Italia secondo i dati Eurispes del Rapporto Italia 2011) ragionino in termini di occupabilità più che di occupazione.

3. Alcuni consigli
Come accostarsi alla scelta, allora? Quali le attenzioni da tenere? Alcune indicazioni di cui mi assumo la responsabilità.
a) L'Università è un luogo di formazione, ma lo è nella misura in cui vi si fa ricerca e vi si produce cultura. Quindi: scegliere "atenei di ricerca", non "atenei di erogazione".
b) L'Università è uno spazio di elaborazione culturale aperto ai diversi saperi. Quindi: vivere l'Università, frequentare, intercettare conferenze, seminari, occasioni di fare cultura, al di là del mero calcolo dei CFU.
c) Ragionare già fin dalla scuola secondaria in termini di portfolio delle proprie competenze per poi tradurle in CFU. Quindi: anticipare se possibile l'ottenimento di certificazione L2, diplomi e brevetti, e fare seriamente il proprio lavoro.
d) Infine, sfruttare le opportunità che l'Università offre, tra tutte la mobilità all'estero.

Friday, February 11, 2011

Ciao Vittorio!


Non ce l'ho fatta! Non sono riuscito ad andarlo a trovare! E nemmeno l'ho chiamato! Adesso di lui mi restano solo i ricordi, belli, intensi, importanti.
Se ne è andato un grande salesiano e un grande uomo. Vulcanico nella sua creatività, irresistibilmente simpatico, capace di toccare con la parola le profondità di chi lo ascoltava, impareggiabile nel suo stare in mezzo ai giovani. E con i giovani era vissuto sempre: una costante dei suoi principali incarichi.
Più volte Direttore ad Arese - da dove, chi lo conosceva bene, sapeva che in fondo non si era mai mosso! -, direttore di oratorio e impegnato nella pastorale giovanile a Reggio Emilia, delegato della comunicazione e dei CGS. I giovani come orizzonte, come vocazione, come significato. Il volto di Don Bosco.
L'ho incontrato la prima volta - lui, trevigliese come me - quando ero un ragazzino. Quarta ginnasio. Laboratorio di clownerie. Con lui Bano, suo compagno di avventure da sempre e per sempre. Poi di nuovo la clownerie a Nave, campo animatori. Infine i CGS, i campi di Cevo e di Como, la collaborazione stretta per la formazione cinematografica e teatrale.
Ricordo le tante notti passate a "progettare" il lavoro. Con me e con lui il "marcio" Marcello, Diego, Bano, don Claudio Ghisolfi: notti conviviali, in cui la risata e il piacere di mangiare insieme costruivano il clima che poi consentiva a tutti di dare il meglio.
Ricordo i corsi di Cevo, con Candido, don Giacinto Ghioni quando era ancora più uomo di teatro che economo, una giovanissima Cecilia (che lui adorava), Novella, Antonella, Alessandra che poi sarebbe diventata mia moglie.
Ricordo i ragazzi che da Arese venivano a partecipare a quei campi: ragazzi con storie terribili alle spalle che in mezzo ai coetanei riconquistavano la loro dignità. Lo sguardo più tenero di Don Vittorio era per loro. Una tenerezza fatta anche di ceffoni, come le volte in cui si faceva chiudere in direzione perché doveva "scambiare quattro parole" con qualcuno di loro. Ma il ceffone era dettato dall'amore: era spesso il segno che qualcuno, per la prima volta, ci teneva davvero a te.
Adesso Don Vittorio è tra gli angeli. Sono sicuro che avrà già messo un naso rosso a tutti quanti. Anche a Don Saverio, altro grande salesiano e teatrante, e a Don Emilio, come lui maestro di vita energico e allegro.
Ti abbraccio Don Vittorio e perdonami: perdonami perché non ce l'ho fatta a dirti "Ciao!". Quando sarà venuto il mio tempo salderò il mio debito: "il dolce sul salato", come ai bei tempi, e un naso rosso in tasca...