Sunday, December 12, 2010

La scuola, le LIM e i guerrieri nel cavallo



Se volessimo sintetizzare i risultati del Report di Monitoraggio del Progetto "Lavagne" del MIUR per l'anno 2009-2010 potremmo rifarci al classico: “Niente di nuovo sotto il sole...”. Cosa intendo dire? Intendo dire che alcune linee di tendenza – che con la mia équipe di ricerca del CREMIT ho potuto verificare nel corso degli anni (almeno fino a quando mi è stata rinnovata la fiducia in funzione di questo compito che ora è stato affidato ad altri probabilmente più qualificati) – sembrano essersi consolidate. 

Ne individuo almeno tre che mi paiono interessanti.

1. La prima è di tipo anagrafico. Siamo un Paese in cui si entra in ruolo nella scuola mediamente a 42 anni e mezzo e in cui la fascia di coloro che hanno superato i 46 anni è percentualmente quella che è maggiormente presente nelle scuole (70%). Occorre tenerlo presente nel leggere i dati relativi a progetti che, come “Lavagne”, provano a spingere l'innovazione: un precariato logorante alle spalle e il fatto che gli anni più produttivi (i trenta) siano alle spalle non agevola di sicuro la disposizione al cambiamento, non motiva alla fatica del fare innovazione. Certo la saggezza che proviene dall'esperienza dovrebbe bilanciare... ma non è aritmetico.

2. La seconda è di tipo tecnologico. Il nostro report restituisce alcuni dati interessanti a questo riguardo. La disponibilità della connessione a Internet continua ad essere percentualmente bassissima nelle scuole del Regno: solo nel 7% delle classi internet è presente. Si tratta di un dato significativo, perché dice di un ritardo rispetto alla comprensione dell'evoluzione recente delle tecnologie, sempre più basate sul web e sempre meno identificabili con hardware e software ingombranti. Oltre a questo si continua a registrare, percentualmente, la maggior presenza di connessione nel laboratorio di informatica e nei locali della direzione scolastica e della direzione dei servizi amministrativi. La “geografia” in questo caso è interessante e denota una rappresentazione della tecnologia che continua a essere in larga parte riconducibile alla sua funzionalità extra-didattica (i luoghi del "potere") o, nel caso di un utilizzo didattico, viene in larga parte ancora pensata non come “ingrediente” ordinario della didattica in classe, ma come attività “speciale” (tanto è vero che continua ad essere ospitata nella maggior parte dei casi in laboratorio o in un'aula dedicata, come dimostra il 23% dei casi delle scuole che continuano a posizionare la tecnologia in locali ad hoc).

3. La terza costante è di tipo sociale. Ancora una volta il Report restituisce percentuali di soddisfazione molto incoraggianti, sia per la formazione ottenuta che per la qualità dei tutor. Anche in questo caso si tratta di una tendenza definitasi lungo gli anni, incoraggiante per ANSAS e gratificante per i tutor ma che si potrebbe anche provare a interpretare. Ad esempio ci si potrebbe chiedere quanto pesi l'oggettiva qualità della proposta e quanto, ad esempio, il semplice bisogno di formazione o l'esigenza di qualificarsi nella speranza dell'apririsi di qualche spazio di carriera da parte di insegnanti che, come il Report restituisce, non sono specialisti di tecnologia e che nella maggior parte dei casi si avvicinavano per la prima volta a una LIM.

A questi elementi si possono aggiungere almeno due considerazioni sul versante squisitamente didattico, in particolare rispettivamente all'uso didattico della LIM e alla sua rappresentazione.

In primo luogo, se si riflette sui dati relativi alla rappresentazione della LIM, emerge come la maggior parte degli insegnanti la valuti positivamente in relazione a due funzioni: il fatto che si presume faciliti la comunicazione e che risulti accattivante per gli allievi. Il dato va letto. Qui gli insegnanti più che provare a cogliere due “leve” della LIM, mi pare che proiettivamente ripongano in essa la loro speranza di poter confezionare una didattica maggiormente efficace: in buona sostanza più che di caratteristiche della LIM stiamo parlando di due aspettative diffuse degli insegnanti da ricondurre alle loro principali difficoltà. Tali difficoltà sono indubbiamente da cercare nella comunicazione con i ragazzi (sono così diversi, così lontani, da come eravamo noi... noi “immigranti” e loro “nativi” - su questo cfr. i miei ultimi post) e nella motivazione: la tecnologia come attrazione, come focus di una nuova curiosità, come ingrediente per rendere interessante la scuola.

In seconda istanza, balza all'occhio il dato relativo all'uso della LIM, anche in questo caso nella grande maggioranza dei casi consegnato ad attività frontali e di rappresentazione della conoscenza. La LIM come appunto una lavagna. Seguendo la bella metafora coniata qualche anno fa da Giovanni Biondi, se si trattava di portare il cavallo di Troia (la LIM) dentro le mura della città assediata (la scuola), adesso che è entrato occorre trovare il modo di far uscire i guerrieri dalla pancia del cavallo! In caso contrario, come sempre nell'impiego delle tecnologie, le pratiche (vecchie) prevarranno sull'impatto (innovativo) della tecnologia.

La registrazione di questa doppia osservazione implicherebbe che, accanto al processo di introduzione di tecnologia nelle scuole e di training tecnico-didattico degli insegnanti, ci si interrogasse attentamente su come pilotare l'innovazione a livello di sistema tenendo presente che, come questo Report evidenzia, nel 40% dei casi, essa è lasciata all'iniziativa di singoli docenti, particolarmente esperti e/o motivati.

Thursday, November 25, 2010

Lezioni digitali?


Il 25 novembre ho partecipato, a Bologna, a un seminario su scuola e tecnologie nell'ambito di Handimatica, la mostra-convegno su tecnologie e disabilità che ASPHI organizza ogni anno. Mi ha fatto molto piacere, sia perché sono amico di Piero Cecchini che di ASPHI è l'anima, sia perché sono un grande ammiratore dello straordinario lavoro che lui e i suoi collaboratori fanno da vent'anni a vantaggio di chi è portatore di qualsivoglia abilità diversa.
L'intervento che mi è stato assegnato portava il titolo di "Lezioni digitali". Su di esso mi sono esercitato, procedendo in due passaggi:
- la discussione del titolo;
- l'indicazione di cosa significhi costruire e gestire non una lezione digitale, ma una didattica significativa con le tecnologie in classe.

1. Il titolo si può (si deve) discutere, almeno in tre direzioni.
Anzitutto cosa vuol dire "digitale"?
a) Vuol dire "non analogico" (nel senso della Scuola di Palo Alto), cioè univoco nei suoi significati, non suggestivo, non plurivoco dal punto di vista semantico? Se così fosse, allora una bella lezione dovrebbe essere tutto fuorché "digitale".
b) Vuol dire "ridotto a contenuto digitale"? Ovvero, una lezione che diviene un Learning Oject, come accade nel caso delle videolezioni, delle clip didattiche. Non convince. Mancherebbe completamente interazione e una lezione senza interazione non è una lezione.
c) Quindi deve voler dire "svolta con il supporto di media digitali". A questa accezione mi attengo.
Veniamo al termine "lezione".
Lectio, nell'Università medievale, indica una forma didattica in cui qualcuno legge e commenta, gli altri ascoltano ed apprendono. La lectio implica magistralità: in questo sta il suo valore. Vedere all'opera un maestro (se è veramente tale) è straordinariamente formativo. Il digitale, invece, indica nel senso dell'interattività: se proprio mi devo immaginare una didattica "digitale", non me la immagino nella forma della lezione, ma caso mai del laboratorio.
Quindi: perché le lezioni dovrebbero essere "digitali"? Mi sembra, parafrasando Prensky, che la questione da porre non sia nei termini di una contrapposizione tra lezione tradizionale e lezione appunto "digitale" (dove l'implicito è di leggere la dialettica nel senso di vecchio e nuovo), quanto piuttosto di definire cosa renda eventualmente innovativa ed efficace la lezione "digitale".

2 . Qual è allora la proposta? La proposta è di ripartire dalle tre categorie che Prensky usa per definire i comportamenti digitali delle persone (stupidità, destrezza e saggezza digitale) trasferendole all'uso delle tecnologie nella didattica così da distinguere la stupidità didattica, dal tecnicismo didattico, dalla saggezza didattica.

Quando una didattica è stupida?
Quando concepisce la scuola come una polis media-resistente, la organizza come una provincia monomediale, la pensa come strumento di una vera e propria controcultura (Bohme, 2006). Una didattica di questo genere non valorizza le competenze degli studenti, non prepara al futuro: arroccandosi sulle sue pratiche vecchie confonde la salvaguardia della qualità con la sua incapacità di rispondere alle esigenze dell'oggi.
Ma una didattica è stupida anche quando confonde l'innovazione con l'aggiornamento tecnologico, agisce vecchie pratiche attraverso nuovi formati, mette al centro lo strumento e non i processi. Questa didattica non coglie il significato del cambiamento, inganna gli studenti, illude i genitori.

Quando una didattica è tecni(cisti)ca?
Quando assolutizza la funzione dei linguaggi, porta in primo piano le competenze tecnologiche dell'insegnante, adotta con correttezza formati e strumenti contemporanei. Ma anche quando interviene sulle pratiche tradizionali, le modifica e le aggiorna alla luce del nuovo, si pone questioni di efficacia rispetto agli apprendimenti dei soggetti.
Questa didattica, pur nella correttezza del suo operare, spaventa i meno esperti, non riesce a vincere le resistenze ma rischia di rinforzarle, può diffondere l'idea che alcune discipline rimangano comunque impermeabili all'operazione, promuove la coabitazione di due culture, la vecchia e la nuova.

Come si capisce occorre lavorare in funzione della saggezza. Ma quando una didattica è saggia?
Quando favorisce la riconcettualizzazione della tecnologia come risorsa culturale "normale" per la didattica (è quanto avviene quando il cellulare viene usato in classe per svolgere attività di apprendimento).
Ma anche quando riconosce il valore delle competenze che gli studenti sviluppano nell'informale rendendole funzionali agli apprendimenti di scuola (cfr. le 11 competenze "digitali" di cui parla Jenkins).
Infine, quando rideclina la propria vocazione strutturale (che rimane, al di là di tutti gli aggiornamenti digitali possibili, quella di accompagnare la ricerca di senso e la costruzione identitaria dello studente mediante l'appropriazione di cultura):
- usando molti linguaggi insieme;
- facilitando la ricomposizione dei saperi;
. promuovendo l'interattività e lo scambio;
- formando la competenza di analisi critica e di creazione responsabile dei contenuti mediali.

Saturday, November 13, 2010

Morselage cognitivo


Venerdì scorso sono intervenuto a Riva del Garda al convegno del Centro Studi Erickson dedicato alla "Tutela dei minori". La mattinata in cui ero stato invitato a relazionare (sulla fenomenologia dei consumi digitali dei giovani  e relative indicazioni per l'intervento educativo) era varia, per formazione dei relatori e argomento dei loro interventi. Ho imparato moltissimo. Soprattutto ho avuto modo di riflettere sulle ragioni che, quando è di qualità, rendono ancora la forma-convegno interessante e produttiva dal punto di vista intellettuale.
Ecco, in ordine sparso, cosa ho imparato.
1. Da Maurizio Ambrosini (Università Statale di Milano) ho recuperato una bella definizione di Beck, quella di "nazionalismo metodologico", a indicare (ad esempio) la pervicace chiusura con cui in un Paese come il nostro ci si ostina a considerare italiani pronipoti di nostri emigrati che sono nati in Brasile e non conoscono la nostra lingua e a non concedere la cittadinanza a figli di immigrati, nati e cresciuti nel nostro Paese, che parlano l'italiano addirittura con inflessione regionale (e a volte sanno il bergamasco molto meglio dei miei figli).
2. Grazie a Bruno Bortoli (Università Cattolica) ho conosciuto la figura di Charles Loring Brace, un visionario americano che è uno dei primi ideatori dell'affido. I suoi "treni degli orfani" sono, con tutti i limiti che l'esperienza poteva avere, un'idea geniale che negli anni ha regalato un futuro a centinaia di migliaia di bambini.
3. Erano presenti al convegno anche Gale Burford (University of Vermont) e Kate Morris (University of Nottingham), due dei "teorici" del metodo della Family Group Conference. Il loro metodo - ideato e applicato per l'affido dei minori - prevede 5 fasi che possono essere adottate (e lo farò) da chiunque nelle organizzazioni abbia la necessità di giungere a soluzioni negoziate e durature di problemi:
- opening and presentation (inquadramento del problema);
- information sharing (le condividono tutti i partecipanti);
- private time (coloro che devono proporre la soluzione vengono lasciati soli e si chiede loro la propsta di un piani);
- approvation (il piano viene discusso, approvato e sottoscritto);
- evaluation (se ne verifica l'attuazione).
4. Anche il concetto di resilienza (Paola Di Blasio, Università Cattolica) mi pare assolutamente interessante in un contesto come quello attuale in cui la necessità di rispondere a situazione traumatiche o particolarmente stressanti è molto diffusa.
5. Molti spunti, infine, sul ruolo degli adulti nella società odierna sono venuti da Mauro Magatti (Università Cattolica). La sua definizione dell'adulto come soggetto dislocato (tra tentazione giovanilistica e rischio della rottamazione), incoerente (perché "contenitore" universale in cui si addensano mille contraddizioni) e segnato dalla perdita del senso della propria posizione generazionale (tra un prima ed un poi) mi è sembrata illuminante.
Mentre ascoltavo e prendevo nota, riflettevo, appunto, su come stessi "usando" quel convegno, così lontano dai miei temi (il target erano assistenti sociali, educatori e psicologi che operano nei servizi per minori). Mi sono risposto che:
- ho ricavato indicazioni bibliografiche (tra le altre, Ulrick Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna 2003);
- ho fatto euristica categoriale (concetti come quelli di "resilienza", di "nazionalismo metodologico", di "adulto dislocato", possono essere importati e applicati ad alcuni dei temi su cui lavoro);
- ho sperimentato l'efficacia del friends storing (nella società attuale le informazioni si ricavano più facilmente dalle proprie reti che dai libri);
- ho avuto conferme sull'importanza di lasciarsi fertilizzare da interessi di ricerca e approcci disciplinari lontani dai nostri.
Morselage cognitivo, dunque: e al di là di questo il piacere di incontrare amici e colleghi, ragionare in maniera distesa, ritrovare il piacere del confronto intellettuale. Proprio quello che l'Università di solito ti sottrae, presa com'è dai calcoli su minimi e crediti, dalla lotta senza quartiere per la conquista del potere (spesso solo simbolico), dalla stupidità che insegue il vacuo dimenticando che le gratificazioni vere (le uniche, forse) di questo mestiere stanno nel fare cultura e nel piacere di far crescere i giovani che, andrò controcorrente, sono sicuro saranno migliori di noi.

Wednesday, October 27, 2010

Mobile Learning

L'edizione di quest'anno di Teniamoci per mouse si intitola: "La classe è mobile". Nel mio intervento, in apertura, cerco di definire il Mobile Learning (rilanciato con forza dalla diffusione dell'I-pad e della nuova generazione di dispositivi touch suoi stretti parenti). Lo faccio rispondendo a tre domande:
1) cosa è? (asse concettuale)
2) a cosa serve? (asse socio-culturale)
3) come si fa? (asse didattico-tecnologico)

1. Una definizione
In senso proprio si può parlare di "apprendimento mobile", con due significati storicizzabili in precisi momenti dell'evoluzione della tecnologia e delle didattiche dell'e-learning.
Nel primo di questi momenti il ML è pensato come la possibilità di emancipare l'apprendimento dalla postazione fissa, sganciando spazio-temporalmente il soggetto. Siamo negli anni '90 (Keagan, Peters), in concomitanza con la diffusione del palmare. In questo contesto il ML si lega sostanzialmente all'accessibilità real time ed everywhere di contenuti e servizi di piattaforma (accedere alla bacheca del LMS, vedere il proprio grade-book), soprattutto nell'istruzione superiore.
Oggi il ML cambia decisamente di significato e viene concepito come una possibilità per mettere in continuità pratiche di apprendimento e pratiche ordinarie, individuali e sociali. Come da alcune esperienze europee (London Mobile Learning Group) viene indicato, il ML diviene quindi un modo per usufruire dello stesso strumento (I-pod, cellulare, I-pad) per comunicare nelle proprie reti sociali e per svolgere compiti e funzioni nel contesto della classe.
Volendo sintetizzare: dalla tecnologia come opportunità per esportare la scuola nel sociale, alla tecnologia come opportunità per importare il sociale nella scuola.

2. Lo scenario
Così inteso, il ML consente di dare risposta, grazie alla portabilità e alla connettività della tecnologia (ubiquitous computing), ad alcune nuove esigenze dello scenario socio-culturale attuale.
Anzitutto consente di registrare e valorizzare il nuovo ruolo dell'informale, e cioè:
- workflow learning (Cross), che vuol dire che si apprende sempre, a prescindere da quel che si fa;
- friends storing (Siemens), ovvero molto della nostra conoscenza è archiviato nei nostri amici;
- user generated contexts (Haque), che vuol dire la tendenza dei soggetti ad appropriarsi del mondo costruendo mappe delle loro esperienze e sintesi delle loro conoscenze.
In seconda battuta, il ML interpreta il nuovo ruolo della tecnologia, e cioè:
- quello di esternalizzare una parte delle funzioni che le teorie classiche dell'apprendimento collocavano nella mente (come l'archiviazione delle informazioni, appunto);
- quello di consentire la costruzione e il mantenimento di reti sociali.
Il ML fa questo in due modi.
1) Supporta gli studenti nel collegare scuola e mondo della vita (Jenkins, 2010):
- costruendo passerelle conversazionali tra dentro e fuori, casa e scuola;
- usando il cellulare (il dispositivo mobile) come strumento di continuità tra i due mondi.
2) Crea contesti mediali di apprendimento:
- favorendo la ricezione del dispositivo mobile come risorsa culturale degna di stare in classe;
- progettando situazioni di apprendimento di cui il mobile device sia protagonista.

3. Tecnologia, didattica
Il versante applicativo si può leggere a tre livelli:
a) gli usi. Sono quelli censiti dal rapporto BECTA 2008 realizzato dall'Università di Nottingham e su cui torno in A scuola con i media digitali. Sostanzialmente il dispositivo mobile come: memoria elettronica, agenda elettronica, centrale di comunicazione, macchina creativa;
b) i modi. Qui è centrale il concetto di EAS (Episodio di Apprendimento Situato), ovvero un'attività al centro della quale vi sia l'uso motivato della tecnologia. Esempi di EAS sono: scattare fotografie di angoli come compito a casa; girare un video di 30 secondi per presentare un personaggio storico; usare il voice recorder per salvare la discussione all'interno del proprio gruppo e poi farne una sitesi, ecc.
c) il ruolo dell'insegnante, in tutto questo, come la vignetta di Glasbergen in apertura suggerisce, è di regista della situazione, con l'attenzione però a non versare vino vecchio nelle nuove botti.

Riferimenti bibliografici:
H. Jenkins (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Milano: Guerini.

Saturday, October 23, 2010

Da Marc Prensky... a Marc Prensky

Marc Prensky è l'autore di un articolo, Digital natives, digital immigrants, che ha segnato gli ultimi anni del dibattito sulle tecnologie dell'educazione. In quell'articolo, adottando una metafora normalmente usata per spiegare le migrazioni di popoli (o la differenza tra un madrelingua e qualcuno che la lingua l'ha imparata già avanti con gli anni), Prensky addebitava al fatto che in mezzo alle tecnologie i più giovani ci fossero nati, una serie di gap difficilmente componibili con il molto adulto: usi differenti delle tecnologie, stili cognitivi differenti, culture differenti.

Sulle due categorie dei nativi e degli immigranti sono sempre stato abbastanza critico e in un paio di post in questo blog già le avevo criticate. Le ragioni sono tre:
1) alcuni adulti stanno diventando nativi. Pensiamo all'uso del cellulare per messaggiare i figli, alla massiccia presenza nel social network, all'i-pod attaccato anche alle nostre orecchie, non solo a quelle degli adolescenti. Insomma, proprio come quando si studiano le culture altre sul campo, anche noi stiamo via via "going natives", diventando nativi;
2) diverse ricerche recenti dimostrano che l'uso delle tecnologie non separa ma avvicina le generazioni. Pensiamo al videogame come spazio conviviale tra genitori e figli, al cellulare come oggetto di negoziazione e quindi di dialogo, al social network come occasione di creare complicità e condividere interessi;
3) infine, l'esperienza dell'adulto immigrante, a prescindere dalla sua bravura nell'uso dei media, può essere utile al nativo per promuovere la sua riflessione, per invitarlo a pensare le sue pratiche, insomma per fargli maturare senso critico.
A distanza di un po' di anni da quell'articolo, Prensky, motivandola su per giù con le stesse motivazioni, accoglie quest'idea e riconosce in un nuovo articolo che quelle due categorie hanno fatto il loro tempo. Per superarle Prensky propone tre nuovi profili:
a) quello del saggio digitale (digital wisdom). Si tratta di un utente, giovane o anziano che sia, capace di un uso critico e responsabile delle tecnolgoie digitali;
b) quello dello smanettone digitale (digital skilness). E' colui che possiede le competenze tecniche già attribuite al nativo: rapido, esperto, dotato di grande dimestichezza rispetto ai diversi supporti;
c) quello dello stupido digitale (digital stupidity). E' colui che delle tecnologie fa usi impropri, dannosi, trasgressivi; o anche colui che rifiuta apriori di avvicinarsi ad esse ritenendole fonte di tutti i mali.
Il problema per Prensky è tendere verso la saggezza digitale e trovare il mondo di accompagnarvi tutti. Si tratta di una questione che ci suggerisce in conclusione tre sintetiche considerazioni.
Non mi sembra vi sia molta differenza tra la saggezza di cui Prensky parla e l'obiettivo che da decenni la Media Literacy si propone: responsabilità, senso critico, consapevolezza nell'uso dei media sono da sempre "nel mirino" di un movimento vastissimo e con una tradizione enorme.
Sicuramente la saggezza digitale corrisponde a quell'idea di competenza digitale cui la Comunità Europea pensa quando la indica all'interno del framework delle competenze di cittadinanza.
Infine, proprio prendendo spunto da quest'ultimo cenno, mi pare che la competenza digitale (la saggezza digitale) costituisca oggi un problema importante non solo dell'educazione ai media digitali, ma dell'educazione alla cittadinanza tout court.

Monday, October 18, 2010

La famiglia digitale

Negli ultimi tempi, in maniera sempre più convinta, la letteratura di area psico-sociale e gli studi sulla comunicazione neomediale parlano di "famiglia digitale" in riferimento al ruolo che il cellulare e il social network stanno assumendo in relazione alle pratiche familiari. Grazie a questi media la famiglia:
- può restare connessa (pensiamo a come questo sia vero per la famiglia degli immigrati, che spesso rimane nel loro paese di origine);
- ricongiungersi (re-connectivity);
- estendere le proprie interazioni sociali e/o mantenerle (come nel caso delle "amicizie" in Facebook).
Su questo fenomeno mi è capitato di recente di intervenire (per la formazione dei genitori e degli operatori dei servizi educativi per l'infanzia, nell'ambito di un seminario di ricerca presso l'Università di Bolzano-Bressanone) e coordino, insieme a Camillo Regalia (amico e collega di psicologia sociale), in Università Cattolica un progetto di ricerca: Family.tag.
Provo in questo post a inquadrare rapidamente i termini della questione ragionando su tre descrittori: lo scenario, le fragilità, l'intervento educativo.

1. Lo scenario della famiglia e della comunicazione digitale è segnato da due fenomeni particolarmente importanti, che occorre tenere in considerazione.
Il primo è la democratizzazione delle relazioni all'interno della famiglia con quel che ne consegue:
- la libertà decisionale riconosciuta ai figli (spesso senza condizioni e in età precoce);
- la pariteticità di diritti e doveri tra genitori e figli (ad esempio i piccoli servizi, su cui viene rivendicato il diritto alla turnazione con il risultato che lavorano sempre i genitori);
- la perdita di autorità da parte dei genitori e il tentativo frequente di sostituirla con un innalzamento del tono affettivo.
Il secondo fenomeno è l'esplosione della comunicazione, contraddistinta da:
- pervasività (i media mobili e connessi sono sempre con noi);
- socialità mediata (prolunga oltre i limiti della presenza le relazioni e  le interazioni);
- naturalità (la tecnologia "scompare" sempre più dentro gli oggetti d'uso comune facilitando la nostra appropriazione di essi).

2. Questo scenario consente di inquadrare, nella logica della famiglia digitale, almeno tre fragilità relative ad altrettante parole-chiave (denunciare queste fragilità non significa, naturalmente, disconoscere le enormi opportunità che i social media alla famiglia dischiudono).
a) Tempo. Non c'è più tempo per guardarsi negli occhi, la connettività perenne prolunga il tempo lavorativo ben oltre i suoi limiti con il duplice risultato di produrre una ferializzazione indiscriminata anche del tempo festivo e una colonizzazione anche di quei non-tempi che si sottraevano all'agire (quando non so cosa fare messaggio, telefono, gioco con la play-station, ...).
b) Spazio. Si è sovvertito il rapporto tra dentro e fuori. La comunicazione mediata pare più facile, rapida, efficace. Il risultato è un'estroflessione generalizzata di aspetti personali (pensiamo agli adolescenti in Facebook): alla difesa della privacy di noi adulti, i più giovani rispondo con una gigantesca fuga dal privato.
c) Relazione. La comunicazione si fa rapida, frammentaria, spesso superficiale (se è rapida, difficilmente può essere profonda). Mancano regole condivise che la possano disciplinare.

3. Quali ipotesi di intervento, allora? Ne indico quattro che meriterebbero di essere riprese ed approfondite:
- evitare il surriscaldamento affettivo. Essere troppo teneri, protettivi, remissivi, colloquiali non paga;
- evitare l'effetto-tenaglia. Non paga nemmeno costringere all'angolo, stressare, ripetere fino alla nausea raccomandazioni e divieti che poi magari non si ha la forza di far rispettare (le grida dei Bravi);
- conoscere i linguaggi e le culture. Evitare l'effetto di quella vignetta di Glasbergen in cui un padre dice al figlio che gli chiede se può tenere un blog: "Io e tua madre non sappiamo cosa sia un blog, in ogni caso te lo proibiamo!";
- promuovere una pedagogia del contratto. Una pedagogia del contratto non è sintomo di una resa, ma una strategia dialogica che consente al genitore di riaffermare il suo diritto all'asimmetria educativa, ma allo stesso tempo di promuovere la responsabilità dei figli attraverso il dialogo.

Monday, October 4, 2010

La didattica dell'esperienza


Sabato scorso sono stato invitato da carissimi amici a partecipare alla cerimonia di inaugurazione della loro fattoria didattica, la fattoria Cascina Pezzoli di Treviglio, in provincia di Bergamo. Come l’agronomo e gli altri convenuti hanno ben spiegato, oggi una fattoria didattica (come un agriturismo) rappresenta una forma di mantenimento (o di ampliamento) del reddito agricolo. Sono tempi difficili per chi vive del lavoro della terra: le quote-latte comunitarie hanno imposto una brusca riduzione degli allevamenti, l’urbanizzazione selvaggia ruba sempre nuovi spazi alla campagna, la tropicalizzazione del clima rende ancora più aleatoria la possibilità di giungere al raccolto senza danni. Ma certo una fattoria didattica non è solo questo. È anche (soprattutto) un’opportunità educativa e didattica per bambini e ragazzi che hanno spesso perso il contatto con la natura, non ne conoscono più i ritmi e i frutti. Non si tratta solo di educazione ambientale o storica (che si attinge nella ri-scoperta degli attrezzi di un tempo, del dialetto, dei racconti), si tratta di educare il bambino all'importanza dell'esperienza. Proprio all’insegna dell’esperienza, della sua centralità educativa, ho condotto la mia breve prolusione, partendo da due passi di Freinet, il “maestro” Freinet, che nel 1960 (La formation de l’Enfance et de la Jeunesse) scrive: «Oggi la nostra scuola entra nella vita circostante e ne diventa una componente. Per questo fatto, il fanciullo è automaticamente portato a ricondurre la propria attività nell’ambito di questa vita, il che costituisce sicuramente un fattore di equilibrio e di armonia. Se un cacciatore abbatte un uccello rapace, se un compagno trova un insetto, se un contadino dissotterra un fossile, la scuola riuscirà sempre a trarne un vantaggio. Al rientro, i ragazzi rivolgeranno ai genitori un’infinità di domande su cui dovranno riflettere. La scuola diventa un elemento attivo del villaggio e del quartiere». E nel 1964 (L’organisation de la classe): «Io ritengo (e l’esperienza me lo ha sempre dimostrato) che il fanciullo si educhi non già con le lezioni dall’esterno bensì con il tatonnement sperimentale, nel pieno della vita. Egli assomiglia al corso d’acqua che, all’origine, già possiede una sua forza e una sua portata la quale via via si arricchisce e si rafforza grazie agli apporti generosi dislocati lungo il percorso. Noi vogliamo partire proprio da questa vita. La nutriamo, la sviluppiamo, la arricchiamo».
In questi due brani si possono isolare tre parole-chiave: vita, attivo, tatonemment.

1. Vita. Mettere la vita al centro, nell’agire didattico, vuol dire:
- apprendimento spontaneo, non solo insegnato; cioè riconoscere che qualsiasi situazione quotidiana costituisce uno spazio importante per imparare (e questo vale ancora di più oggi, con lo sviluppo dei media digitali);
- necessità di uscire dall’ambiente scolastico, che è artificiale, per immergersi nei contesti reali;
- bisogno di ritornare all’esperienza senza mediazioni (quanto, invece, nel nostro tempo c’è di mediato nelle nostre conoscenze, nella nostra rappresentazione della storia, ecc-).
Il riferimento teorico obbligato, qui, è Vygotsky, la sua idea che l’apprendimento può avvenire solo in contesto.

2. Attivo. Il valore dell’attività in didattica implica:
- la capacità di andare oltre il libro e la forma-lezione. È ancora una volta Freinet a indicarlo con efficacia rintracciando proprio nel libro di testo e nella lezione i due elementi che più facilmente possono indurre passività negli alunni;
 - la capacità di mettere il bambino al centro, nel segno di quella rivoluzione copernicana dell’educazione che proprio l’attivismo pedagogico ha preparato e voluto.
Anche qui un riferimento teorico è d’obbligo: Dewey, nello specifico la sua idea del learning by doing, dell’apprendere facendo come forma più efficace di problem solving.

3. Tatonemment. Anche qui due sottolineature:
- toccare, tastare, rappresenta il modo più naturale che il bambino ha di apprendere. La centralità dell’esperienza significa quindi collocare l’azione di insegnare in continuità con quella dell’apprendere e fare tutto questo secondo i modi e le forme che al bambino sono più familiari;
- oltre a ciò, fare centro sull’esperienza significa andare al cuore del metodo sperimentale (ipotesi, esperimento, verifica), farne lo strumento attraverso il quale il bambino costruisce conoscenza. Piaget e l’idea che l’apprendimento per scoperta è quello più efficace si impongono a questo livello come riferimento teorico.

Sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda non significa “tornare a Freinet”, ovvero fare un’operazione un po’ vintage di recupero del passato, quanto piuttosto creare le condizioni perché il nostro fare scuola provi a formare quella che si può ritenere la competenza-chiave, ovvero la capacità di gestire il proprio sapere come un processo. Questo vuol dire essere creativi, sapersi confrontare con la complessità, apprendere nella relazione con l’altro, coltivare l’attitudine all’indagine. La didattica laboratoriale che nella fattoria didattica si può fare risponde a queste esigenze: sviluppa la creatività permettendo ai bambini di esprimere le loro emozioni e di riappropriarsi del piacere del fare; li pone di fronte alla complessità di un mondo, quello rurale, che è fatto di saperi, culture, tecnologie; sviluppa la dimensione relazionale nella collaborazione e nel lavoro per gruppi; infine, avvia all’indagine proprio grazie al principio dell’esperienza.   

Wednesday, September 22, 2010

Information Literacy


Sto concludendo in Brasile, alla Universidade Federal de Santa Catarina, a Florianopolis, il mio corso su Metodi di ricerca, media e educazione. La lezione di ieri era dedicata alla Information Literacy. Mi fa piacere condividerne le linee essenziali.

1. Una definizione
Si può definire la Information Literacy come un insieme di competenze che, nella società dell'informazione, indicano la possibilità da parte del soggetto di cercare, selezionare e certificare le informazioni reperite in rete.
Alcune sottolineature si impongono:
- questa competenza diviene necessaria in una società in cui le informazioni sono sempre più abbondanti e il sapere diviene intotalizzabile (secondo la celebre metafora del "secondo diluvio universale" proposta da Pierre Levy);
- è parte integrante del campo di esperienza della Media Literacy, soprattutto in relazione alla capacità critica dei soggetti di valutare le fonti delle informazioni trovate;
- va inclusa a tutti gli effetti tra le competenze del ricercatore, per il quale oggi internet rappresenta un'ampia e abituale forma di attività;
- quando parliamo di informazione, occorre che distinguiamo il termine da quelli di conoscenza e sapere. Sinteticamente: l'informazione è il dato; quando formuliamo un giudizio (ovvero organizziamo in termini proposizionali i dati) costruiamo conoscenza; il risultato dell'appropriazione di queste conoscenze è ciò che chiamiamo sapere.

2. Strategie di ricerca in rete
Quando si parla di ricercare informazioni in rete occorre subito distinguere due grandi modelli, che corrispondono ad altrettanti paradigmi della Information Literacy. Il primo è quello che fa centro sul contenuto (Content centered): convinti dell'importanza dei contenuti nella ricerca, i fautori di questo modello hanno come loro capostipite Google. L'altro modello è quello che fa centro sulle persone (User centered): in questo caso la base della ricerca sono le conoscenze dei soggetti, come l'esperienza di Facebook insegna..

Per quanto riguarda il primo modello, quello centrato sui contenuti, al di là delle tante teorizzazioni mi sembra siano sostanzialmente tre le strategie che lo caratterizzano.
a) Starting point
Si parte da una parola di ricerca. Si apre un motore (o Wikipedia, o qualsiasi altro punto abituale di accesso alla rete). Si individuano le risposte più interessanti restituite dal motore. Si seguono i link che vi si possono trovare.
Caratteristiche: razionale, deduttivo, prevedibile.
b) Walking around
Si "spazzolano" i siti della rete senza una precisa intenzione di ricerca. Si genera una biblioteca dei propri preferiti. La si alimenta costantemente creando il presupposto per attivare facilmente la ricerca nel caso serva.
Caratteristiche: serendip, anarchico, dispendioso.
c) Indexing
Si parte per la ricerca da repertori on line, indici di risorse telematiche, banche dati (nel caso della ricerca è il caso di SCIELO, di Google Scholar, ecc.).

Ciascuna di queste strategie, assolutizzate, non pagano. Probabilmente un primo accorgimento potrebbe essere quello di incrociarle per minimizzare i loro limiti e massimizzarne i vantaggi.
Al di là di questo si possono fare proprie alcune indicazioni operative che servono a rendere più efficace e valida la ricerca. Ne individuo tre.
Usare "motori" differenti. Si può:
- partire nella ricerca da metamotori, come Copernic (la versione base, in download, è free);
- servirisi di motori diversi per approfittare delle specificità di funzionamento dei loro diversi algoritmi (Google non è l'unico motore disponibile, ce ne sono a decine, a partire da Altavista o da Bing, il motore di Microsoft, che ha caratteristiche tecniche completamente diverse già orientate nella direzione della ricerca semantica);
- fare ricorso a indici telematici (come Yahoo, ad esempio).
Usare parole di ricerca diverse. E' il caso della ricerca avanzata, che può stressare gli operatori booleani, piuttosto che altri sistemi per mirare maggiormente la ricerca.
Usare lingue diverse. Normalmente le parole di ricerca sono inserite nella propria lingua materna: questo preclude la possibilità di trovare risorse disponibili in altre lingue.

3. L'utente è il vero valore
Il paradigma che fa centro sulla persona, sull'utente, per cercare informazioni in modo efficace, prevede due strategie possibili di azione.
a) Head hunting
Andare a "caccia di teste" in rete significa cercare persone (non contenuti) che possano essere in possesso delle informazioni che ci servono o indicarci dove e come procurarcele. Due sono le modalità di operare in questa direzione:
- postare una domanda di ricerca in un newsgroup (strategia classica, da sempre frequentata soprattutto dagli sviluppatori di software - Linux è nato e cresciuto così);
- usare Facebook Search per cercare tra tutti coloro che hanno un profilo in Facebook quelli che tra le informazioni del profilo stesso, le loro note, i contenuti condivisi, possono presentare qualcosa che abbia relazione con la nostra domanda di ricerca.
b) Social networking
E' l'altra grande strategia che consiste nell'approfittare dei pareri, delle indicazioni o dei punti di vista che vengono condivisi in rete da utenti esperti. Alcune modalità di operare in questa direzione sono:
- partire nella ricerca da un blog tematico (spesso funzionano da veri e propri miniportali);
- partire da un archivio open access (come a loro modo sono Slideshare per le presentazioni di Powerpoint o Scribd per paper e articoli);
- partire dai repertori di preferiti condivisi in rete (come avviene in Delicious);
- seguire alcuni opinion leader in Twitter.

Tenere presenti questi aspetti, costruire dei mix personalizzati di strategie e strumenti, sono competenze centrali che la Information Literacy mira a far acquisire. Certo, una volta risolto il problema della competenza di cercare in rete in maniera efficace restano da risolvere le altre due questioni: come selezionare le informazioni così reperite, soprattutto come certificarne l'autorevolezza. C'è spazio per altri post.

Per approfondire:
- The Information Literacy Website
- The Information Literacy Weblog

Wednesday, September 8, 2010

L'educazione di fronte alla sfida dei media

Il 9 e 10 settembre si è svolto a Brescia il raduno abituale di Scholé, convegno in cui i pedagogisti di area cattolica si incontrano per riflettere su temi rilevanti della ricerca educativa. Quest'anno il focus era il rapporto tra la scuola e le diverse formazioni sociali. Tra queste formazione uno spazio rilevante lo occupano i media che sono stati oggetto della sessione dei lavori della seconda giornata. Faccio sintesi di seguito del mio intervento (che in questi giorni è diventato anche la lezione inaugurale del corso sui Metodi di ricerca in educazione mediale che sto tenendo presso l'Università federale di Santa Catarina, nel Sud del Brasile), nel quale ho adottato come criterio organizzatore lo schema con cui l’équipe di Stanford (Ito et alii, 2010) ha deciso di mettere ordine nel suo rapporto di ricerca sul significato dei nuovi media per le giovani generazioni. Ciascuno dei quattro descrittori (participation, publics, learning, literacy), infatti, ci consente di pensare a un aspetto della sfida che i media lanciano all’educazione.

1. Participation

I media stanno modificando completamente il significato e le forme della partecipazione. La comunicazione esplode, si dilata temporalmente oltre il momento dell’interazione face to face. Ne sono complici la diffusione del telefono cellulare (che decreta la reperibilità perenne di chi ne fa uso) e la pervasività dell’instant messaging (Google Talk, MSN, Skype). La socialità si intensifica, moltiplica i suoi sforzi di attivazione, inserisce i soggetti al centro di reti che li pluricollocano. Il social network, i blog, le mille aggregazioni possibili nel web facilitano questo processo. Le opportunità di questo scenario sono evidenti: i legami si possono consolidare; si aprono spazi per la relazionalità dialogica; la consapevolezza dell’altro si allarga oltre i limiti dell’appartenenza geografica e dell’informazione ufficiale. Ma sono chiare anche le criticità che spingono a pensare in termini educativi: la partecipazione “a bassa definizione” che si accontenta di scrivere (su un forum, su un blog) per esternare il dissenso o di pagare (come nel caso di Telethon) per vivere la solidarietà; la logica delle “fedeltà parallele” (Bauman, 2010) che può celare la mancanza di impegno e consentire al soggetto di non giocarsi mai fino in fondo nelle situazioni.

2. Publics

Publics è al plurale, perché si intende fare riferimento ad almeno due idee del pubblico che il consumo di nuovi media sta trasformando in profondità. In primo luogo è lo spazio pubblico, ovvero il luogo in cui dall’Illuminismo in poi è possibile al soggetto formulare il proprio parere per sottoporlo al confronto. Le regole di accesso a questo spazio sono completamente saltate erodendone i contorni fino quasi a dissolverli. In secondo luogo è il pubblico inteso come target, come destinatario del messaggio. Anche qui l’autorialità dei media ne sta cambiando i contorni che prima lo distinguevano nettamente dall’emittente. Ogni ogni lettore è anche autore ed editore (almeno potenzialmente): basta possedere un blog, avere un account in You-tube. Anche in questo caso sono chiare le opportunità: si apre e si estende la possibilità di accesso all’informazione; sembrano crearsi le condizioni per un nuovo pluralismo, al di là delle fonti di informazione ufficiali; il lettore-autore è più attivo, più protagonista, e questo è funzionale a un incremento del suo livello di consapevolezza e di partecipazione. Per converso sono evidenti le criticità: si modifica fino quasi a scomparire il senso del privato e di cosa esso comporta; il venire meno delle mediazioni aumenta la possibilità delle trasgressioni, delle violazioni della norma; il facile protagonismo del singolo utente contribuisce alla liquidazione dell’autorità.

3. Learning/Literacy

I media modificano in profondità anche le modalità attraverso le quali i soggetti apprendono (learning) e, di conseguenza, anche quelle attraverso le quali i sistemi formativi cercano di provvederli con competenze adeguate (literacy). Il punto di partenza, in questo caso, è già quello di una distanza tradizionale tra il costrutto “scuola” e il costrutto “media”. Géneviéve Jacquinot (2000) lo ha efficacemente rappresentato parlando di un giansenismo della scuola contrapposto all’edonismo dei media. La scuola è giansenista perché: l’acquisizione del dato culturale costa fatica; è il luogo dell’impegno; i risultati arrivano solo con il tempo, dopo una lunga applicazione. I media sono invece edonisti perché: il consumo è leggero e non costa fatica; sono il luogo dell’evasione; tutto si consuma nell’immediato ed è effimero. I nuovi media aggiungono a questa dialettica un ulteriore elemento di analisi che è costituito dal progressivo allontanamento delle pratiche con cui i giovani apprendono e costruiscono significati nell’informale e quelle invece che sono invitati a sviluppare nei contesti formali. Qui risiede il problema della definizione di una Literacy adeguata. Essa deve: farsi carico del problema degli apprendimenti, ma anche degli altri (Partecipazione e pubblici sono parte integrante di una moderna educazione alla/della cittadinanza); sviluppare competenze in un contesto in cui non sono solo i media a suggerire nuove sfide e le necessità di nuove soluzioni (Multiliteracy).

Riferimenti bibliografici

Bauman, S. (2010). L’etica in un mondo di consumatori. Bari-Roma: Laterza.

Ito, M. (2010). Hanging out, Messing around, and Geeking out. Kids Living and Learning with New Media. Cambridge (Ma.): MIT Press.

Jacquinot, G. (2000). Educazione e comunicazione: lo choc delle culture. In D. Salzano (ed.), Comunicazione ed educazione. Incontro di due culture. Napoli: Isola dei ragazzi, pp. 117-129.

Tuesday, June 29, 2010

I media digitali e la formazione dei formatori

Ieri giornata di formazione ad Arese, con gli operatori e i responsabili dei CFP Salesiani della Lombardia. Insieme al piacere di tornare tra amici (don Ettore, don Ivano, don Roberto) in una casa storica della presenza educativa dei Salesiani, c'era l'interesse di prendere parte a un interessante progetto di formazione "di rete" che i CFP salesiani hanno avuto il merito di allestire.
Il tema della giornata era il rapporto che lega i media digitali con i comportamenti e gli apprendimenti degli adolescenti. Svolgimento secondo copione, con una mattinata dedicata a due percorsi di approfondimento (uno sullo scenario tecnologico attuale, l'altro sugli aspetti educativi e didattici) e il pomeriggio finalizzato all'attivazione, nei gruppi di lavoro, di un'attività di progettazione capace di dare continuità nei singoli CFP all'intervento sul tema.
Il risultato del lavoro di gruppo mi pare esemplare nell'individuare temi, metodo e punti di attenzione che la formazione non può non considerare quando ragiona di nuovi media in relazione al vissuto dei ragazzi. Ne sintetizzo di seguito le linee principali.

1. Temi
Quattro sono i temi-chiave attorno ai quali l'impiego dei media digitali si può dimostrare utile, due più di interesse educativo, gli altri due maggiormente riguardanti la didattica.
Sul versante educativo:
a) sicuramente richiede attenzione e progettazione educativa il tema della trasgressione, ovvero di tutti quei comportamenti di cattivo uso della cittadinanza digitale che prendono corpo nel cyberbullismo, nelle diverse forme di reato informatico, negli usi impropri (inappropriati) della tecnologia;
b) insieme a questo vi è l'altro grande tema dei criteri per l'accesso e la valutazione consapevole alle (e delle) informazioni. Un tema di grande rilievo che appartiene all'alveo della Information Literacy e che costituisce una competenza irrinunciabile per un soggetto che oggi esca dalla formazione verso il mondo del lavoro.
Sul versante didattico, invece, abbiamo:
c) il problema degli apprendimenti. E' un tema di grande impatto in un CFP, la cui utenza condivide spesso carriere scolastiche non esemplari, oltre a provenire da contesti segnati da svantaggio sociale e culturale. Media digitali e tecnologie possono servire a innescare la motivazione, a moltiplicare i punti di accesso alla conoscenza, a facilitare la "tenuta" dell'attenzione;
d) infine, la condivisione dei contenuti didattici, ovvero la possibilità di avvalersi di sistemi di gestione dei contenuti (LCMS) attraverso i quali mettere a disposizione degli alunni materiali didattici e di supporto agli apprendimenti.

2. Metodo
Quattro anche le indicazioni di metodo emerse:
a) applicare il principio della trasversalità. I media non costituiscono un curricolo disciplinare: tutti i formatori/insegnanti e ciascuna disciplina hanno qualcosa da dare come contributo al riguardo;
b) la sensibilizzazione (dei genitori, dei formatori). Risponde al primo criterio cui rifarsi quando si intende ragionare su temi innovativi in contesto formativo, ovvero la visibilità. Senza visibilità è difficile ottenere l'appropriazione e pensare di spostare le pratiche sulla base di essa;
c) i tempi. Il modello "corso di formazione" non funziona più; occorre collocarsi nel solco di una progettualità di medio termine in una logica di coaching e monitoraggio;
d) ricerca. Senza ricerca la formazione difficilmente ottiene risultati duraturi. Nel caso dei media digitali la ricerca può proficuamente riguardare il monitoraggio dei consumi dei ragazzi.

3. Punti di attenzione
Tre principali questioni. In sintesi:
a) piattaforma elearning 1.0 o piattaforma 2.0 (come Edmodo o Twiducate)? Avere i propri contenuti su un server lontano può destare paure, ma sono certo più sicuri lì che sul mio hard-disk o sulla mia pen-drive. E poi le piattaforme 1.0 prevedono identificazione e sono "separate" dal social network in cui invece i ragazzi normalmente si trovano;
b) l'Information Literacy. E' un tema di grande interesse, evidenziato anche dalla Commissione Europea in una Raccomandazione del 16 agosto 2009. La competenza di cui si parla fa parte del quadro europeo delle competenze-chiave di cittadinanza;
c) il rapporto tra media digitali e tempo libero. Il cellulare distrae i ragazzi dal cortile, dalla socializzazione? O è proprio perché non sanno come stare in cortile che "trafficano" sul cellulare? La tecnologia è una cartina al tornasole: occorre imparare risalire dietro di essa per intercettare quello che essa manifesta, senza correre il rischio di scambiarla per il disagio che invece evidenzia.

Sunday, June 20, 2010

Scuola del futuro?

Con un pomeriggio di convegno si conclude domani il progetto "Classe del futuro". Si tratta di un progetto di ricerca-intervento che il CREMIT, il mio centro di ricerca, ha seguito in collaborazione con la rete di scuole che fa capo all'I.C. di Fontanellato, in Provincia di Parma. Un progetto di integrazione delle tecnologie didattiche in scuola che ha approfittato di una singolare convergenza: la presenza sul territorio (grazie al consorzio dei comuni delle "Terre Verdiane") di un programma di innovazione della didattica attraverso la tecnologia che già aveva coinvolto la rete negli anni precedenti e il fatto che la stessa rete sia risultata vincitrice del bando "Innovascuola" promosso dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Il progetto in tutte le sue fasi è descritto in un volume (completo di DVD) che inaugura la nuova collana dei "Quaderni del CREMIT" e il cui titolo, Scuola del futuro?, volutamente problematizza la facile relazione che potrebbe venire spontaneo istituire tra tecnologia e innovazione.
Quali le evidenze? Quali i principali risultati di un anno di lavoro con gli insegnanti delle scuole?
Proviamo a sintetizzarli in tre indicazioni.

1. Mind the gaps! - Si tratta di un primo dato da tenere molto ben presente quando si pone la questione del rapporto tra la scuola e le tecnologie digitali. Tenere presenti le differenze, lo scarto, è di fondamentale importanza. Ma scarto tra cosa? Direi:
- tra ricerca e pratiche (spesso la ricerca disegna paesaggi futuribili che la concretezza e le inerzie delle pratiche non consentono di adeguare con facilità);
- tra competenze degli insegnanti e dei cosiddetti "nativi digitali" (anche se, probabilmente, sul piano dei comportamenti di consumo nel tempo libero le somiglianze sono più di quanto si possa pensare);
- tra il "dentro" e il "fuori" rispetto all'organizzazione-scuola (il fuori dell'informale sociale, il dentro della didattica in classe).

2. Considerare la complessità! - Operativamente, il dirigente o l'insegnante che intenda collocarsi dal punto di vista dell'innovazione servendosi delle tecnologie didattiche come di un volano della stessa deve guadagnare il punto di vista della complessità. Questo comporta di:
- guardare all'intero dell'organizzazione (introdurre tecnologia non significa solo collocarla materialmente nelle classi);
- operare per la sua riduzione (come avviene nel caso dell'Information Literacy, ovvero della ricerca e selezione delle informazioni in quanto sapere di base che la scuola del futuro deve mettere nel mirino);
- ragionare in termini inclusivi e non esclusivi (le tecnologie "nuove" non si insediano a discapito di quelle "vecchie"; è scorretto porre in alternativa libro e media digitali).

3. Frequentare i confini! - L'ultima indicazione è un invito ad abbandonare i punti di vista puri. Più precisamente:
- la contaminazione dei saperi (tipica della fase attuale dello sviluppo delle scienze) genera oggetti ibridi che sfuggono alla comprensione di approcci epistemologicamente puri;
- punti di vista differenti apromo prospettive inattese, fertilizzano lo spazio della ricerca;
- il confine è ciò che sta in mezzo: la questione non è né l'insegnante né il soggetto che apprende, ma le affordances, ovvero quel che sta in mezzo tra la tecnologia e i soggetti che se ne servono.

Friday, May 28, 2010

Requiem nel Social Network


Ieri mi trovavo a Roma. Ero in riunione, all'Università Salesiana, nell'ambito di un'attività di peer reviewing universitaria. Un SMS mi raggiunge. E' di mio figlio. Leggo e rimango paralizzato; poi lentamente ritrovo il ritmo del respiro. Mi segnala la scomparsa di un collega e amico di tanti anni, musicista raffinato e professore di musica, con cui abbiamo condiviso tanto: l'obiezione di coscienza, i miei primi passi di educatore, l'amicizia di un fratello maggiore - il nostro Don Emilio; poi il fatto di essere colleghi, infine di gestire entrambi una responsabilità che nel sistema scolastico salesiano è quella del Consigliere.
Per Don Bosco il Consigliere doveva (e deve) essere il padre dei suoi ragazzi: incaricato della disciplina, doveva (e deve) trasmettere il rispetto delle regole, ma anche la correttezza, il senso di responsabilità. Lo affianca il Catechista: incaricato della formazione spirituale, incarna la figura materna. L'uno ragione, l'altro amorevolezza; l'uno più "severo", l'altro più "umano".
Quante volte con Ivano ci si lamentava un po' della nostra condizione... Ci dicevamo che toccava sempre a noi fare i duri. Lui, poi, il duro lo faceva bene... Oh si, se lo faceva bene! Anche se sorrideva di sottecchi mentre "faceva la parte", perché come tutti quelli che sono abitati dal carisma di Don Bosco non poteva trattenersi da una irresistibile simpatia per i più "difficili", gli indisciplinati, i "creativi nel casino". Non posso dargli torto. I migliori si ricordano di te, ma quelli che veramente hai segnato e non ti dimenticheranno mai sono quelli che hai dovuto "correggere". Quelli a cui i genitori non hanno prestato abbastanza attenzione, quelli a cui nessuno ha mai detto un no, quelli che per tanti motivi hanno fatto scelte sbagliate: ecco, per loro sei stato Maestro, proprio nella durezza di un richiamo che era però segno dell'interesse per la loro persona. "Chi ti vuol bene ti fa piangere" recitava un vecchio adagio: la correzione, anche "robusta", è cosa del cuore, parla il linguaggio dell'amore...
Lo hanno capito i ragazzi di Ivano, i suoi tanti allievi ed ex-allievi. Hanno aperto gruppi in Facebook, sempre in Facebook hanno fatto correre il tam-tam per il funerale che si celebra domani. Curioso. Facebook, questo spazio tanto discusso che sarebbe lo spazio del disimpegno e della leggerezza di una generazione, i nativi, gli adolescenti, incapaci di sentimenti veri (almeno questo sentenziano molti soloni), bene Facebook manifesta il suo volto vero e cioè di essere un fenomeno profondamente re-ligioso.
La re-ligio è un re-legare, è un tenere insieme: l'uomo con Dio, l'uomo con l'altro uomo. Nel momento della morte dell'insegnante tanto amato, "maestro, fratello e amico", i suoi ragazzi si re-legano in Facebook. Le pagine, i messaggi che si susseguono, i commenti, i tag, i "mi piace", i "ci sono" disegnano una teoria incredibile, rendono palpabile l'amore, il bisogno di maestri veri di una generazione più profonda di quanto non ci possiamo immaginare. E la cosa straordinaria è che la re-ligione di Facebook unisce veramente le generazioni, se è vero che tutti siamo qui a condividere le stesse emozioni, lo stesso sentire, in un'esperienza che non è semplicemente sociale, ma corale.
Un requiem in Facebook è meno solenne che altrove, ma è vivo e consegna a tutti i noi e ai cari che Ivano lascia una certezza: il suo messaggio di bene, il suo essere testimone nell'educazione, vivono nei suoi allievi e nei suoi amici. Il Social Network lo sigilla: molti di coloro che grazie a lui non si sono persi, diventando uomini, lo raccontano come in una estrema forma di ringraziamento.
Scrivi e piangi. Piangi leggendo i ricordi, le frasi, i saluti. Piangi e non capisci se è perché soffri o perché ti sorge dentro una strana gioia. E' la gioia di vedere - proprio in Facebook - la prova dell'amore, o meglio, la prova che l'amore vince sempre e trasforma tutte le cose.
"Ora lascia, O signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola..."

Saturday, March 13, 2010

Il male di vivere. Una lettura educativa

Martedì 9 marzo ho aperto un ciclo di tre serate sul Male di vivere, organizzate da Don Enrico Radaelli, presso la parrocchia di San Zeno, a Treviglio. Don Enrico "mi ha avuto" tra i suoi ragazzi prima come direttore dell'oratorio di S. Agostino, dai sette agli undici anni, poi come parroco di San Zeno, durante la mia adolescenza. L'affetto e la stima che ho per lui e i ricordi che il tornare tra gli amici in "cascina" (il nostro oratorio era una vecchia cascina) fa tornare alla memoria mi fanno sempre accettare con piacere il suo invito.
Il tema, questa volta, è il male di vivere, quel groviglio di sensazioni e di fenomeni che a volte paiono consegnarci l'immagine di una società - e soprattutto di giovani - in crisi, una crisi irrimediabile, di senso. Il problema è capire cosa i ragazzi oggi chiedano alle agenzie formative, alla famiglia, alla scuola, all'oratorio. Ho deciso di affrontare la questione attraverso una premessa, tre sintetici quadri, e una conclusione.

1. Una premessa: non ce li meritiamo!
Il pieghevole illustrativo del ciclo di incontri riporta il punto di vista di scrittori e filosofi sulla congiuntura attuale. Salvatore Natoli parla di Internet come di "un modo per chattare a vuoto". La Mastrocola dipinge ragazzi "perennemente collegati con il vuoto e lontani da ogni relazione vera".
Rifletto su queste affermazioni e mi nascono spontanee alcune considerazioni.
Prima considerazione. Quante volte parliamo senza conoscere, costruiamo teorie senza la serietà di confrontarle con i dati, le esperienze, la vita... Ecco, l'idea che i giovani di oggi siano solipsisti, incapaci di relazioni, abbrutiti nel mondo delle chat, la può partorire solo qualcuno che non conosce nulla, né dei giovani né del mondo della Rete. Anche se scrive romanzi di successo...
Seconda considerazione. Si tratta di un gioco vecchio. Si chiama "il gioco del noi e loro". "Loro sono iperattivi, inconcludenti, superficiali, senza relazioni vere... Noi eravamo riflessivi, profondi, centrati sul nostro compito, capaci di relazioni..."
In margine a questo gioco si possono fare alcune osservazioni:
- le generazioni adulte lo hanno sempre giocato con le più giovani. Quante volte lo abbiamo sentito fare e fatto noi stessi. I nostri genitori lo giocavano con noi. E i loro genitori (i nostri nonni) con loro: "I giùen d'una olta i era 'n oter laùr...";
- questo gioco rivela la paura: la paura del nuovo (ciò che non si conosce fa sempre paura), la paura della propria responsabilità, la paura di non essere all'altezza;
- infine, addebita la propria incapacità e il proprio disagio alla "differenza" dei ragazzi. Così: "Io non sono capace" diventa: "Loro sono diversi".
Terza considerazione. Non ce li meritiamo! "Loro", i giovani, i ragazzi, sono incommensurabilmente meglio di noi e di come ce li rappresentiamo.
Ha ragione il Cardinale Martini (quanto ci manca nella fase attuale la sua voce!): "Non c'è spettacolo più deprimente che incontrare genitori ed educatori che si dolgono in continuazione dei loro ragazzi e non riescono a convincersi di possedere strumenti educativi formidabili".

2. Primo quadro: le richieste dei ragazzi alla famiglia
Le richieste dei ragazzi alla famiglia mi paiono due. Le chiedono di essere presente e di incarnare il "principio di origine" (Meirieu).
Rispondere richiede competenze genitoriali che i genitori, spesso, non hanno più.
Per i genitori essere presenti vuol dire (e qui mi faccio aiutare da Anna Mariani, che su questi temi ha scritto cose molto belle):
1) non essere "troppo-genitori". Cioè evitare sia la presenza invadente (la supergenitorialità di chi ha già fatto tutto e benissimo, frustrando l'iniziativa dei figli) che la prescrittività che impone norme rigide ed esige il riconoscimento attraverso questa imposizione;
2) non essere "non-genitori". Cioè evitare: la mancanza, il non esserci (sono non genitore se sono sempre fuori e quando ci sono mi assento); il silenzio, che passa per la delega al coniuge o la dedizione al lavoro ("Chiedi alla mamma...", "No, adesso no, devo lavorare..."); l'astensione, per non "ledere la sua libertà..." (discorso assurdo di chi scambia la par condicio per l'educazione e confonde il rispetto dell'altro con il laissez-faire);
3) non essere "iper-genitori". Cioè evitare: di proteggerli a prescindere (quando il pupo ha sempre ragione ed è l'insegnante che non lo capisce, l'allenatore che non comprende il suo talento o lo fa giocare in un ruolo non suo...); di dare loro amore (?) senza norme (quando ci si sente in colpa, perché si è spesso assenti o perché si pensa di averli danneggiati con la propria separazione, si tende a "compensare" con un ipernutrimento affettivo che, in mancanza di norme, è però assolutamente diseducativo).
E veniamo al principio d'origine. Vuol dire almeno tre cose:
1) sceglierli per la seconda volta (la prima li scegliamo quando li concepiamo, come dice Angelini, ma poi vanno scelti di nuovo, vanno creati una seconda volta);
2) essere loro di riferimento per la costruzione della loro personalità;
3) generarli non solo alla vita, ma ai valori.

3. Secondo quadro: le richieste dei ragazzi alla scuola
Sono tre: essere attuale, incarnare il "principio di verità" (Meirieu) e in-segnare. E anche in questo caso si pone il problema delle competenze, questa volta dell'insegnante...
Attualità della scuola vuol dire non dover sempre rincorrere la società. Un tempo era la scuola "avanti": oggi il rapporto si è rovesciato e la scuola sembra sempre in ritardo, continuamente superata dall'innovazione, perennemente a disagio, apparentemente impegnata in una lotta di retroguardia che non riesce a incidere sull'oggi.
Attualità della scuola vuol dire anche saper leggere le culture giovanili offrendo ad esse ospitalità nella didattica. Infine, significa adottare i linguaggi dell'oggi per costruirvi attorno un nuovo alfabetismo fatto di senso critico e responsabilità espressiva.
Incarnare il principio di verità, invece, significa anzitutto essere maestri, nel senso della relazione magistrale, cioè della capacità di mettere in forma la conoscenza del mondo in modo modellizzante. Significa anche essere testimoni, cioè incarnare uno stile di pensiero e di vita emblematico che possa servire al giovane per essere cittadino. Infine, far comprendere che la cultura consente di interpretare le cose e che questo consente di leggere in esse le tracce dell'Oltre.
Quanto all'in-segnare, occorre tornare a Platone per capire cosa comporti, a Platone che definiva l'insegnamento uno "strofinarsi di anima contro anima". Niente di più intimo e di più tremendamente importante: insieme privilegio ed enorme responsabilità. Un significato che forse si è perso con il tempo, fino a ridurre l'insegnamento a qualcosa di tecnico, a un mestiere. Se invece il senso profondo dell'in-segnare viene custodito, allora si capisce che esso ha a che fare con il formare (nel senso della Bildung, del dare-forma) e con l'esperienza della ricerca della verità fatta in comune con l'alunno. Un compito alto, un compito rilevante, un compito da non svilire e da non addormentare nella routine.

4. Terzo quadro: le richieste dei ragazzi all'oratorio.
Siamo all'oratorio. Anche in questo caso isolo due importantissime richieste che i ragazzi gli fanno oggi: la richiesta di essere accogliente e di incarnare il "principio di carità". Le competenze fanno problema anche qui, perché servono catechisti ed educatori di nuovo modello. La disponibilità e la buona volontà non bastano più...
Cosa comporta l'accoglienza?
Comporta, in primo luogo, di saper essere una casa per tutti, nella consapevolezza che la mancanza di luoghi di aggregazione per i giovani porta all'oratorio anche solo come a uno spazio di ritrovo.
Comporta di accettare l'altro senza restrizioni, senza vincoli, senza garanzie di reciprocità. Se ti amo, non ti amo a condizione di..., lo faccio senza riserve e senza aspettarmi nulla in cambio.
Ma comporta anche di essere esigenti, cioè di coniugare l'accoglienza con le regole, il rispetto, nella consapevolezza che in molti casi questo è l'unico spazio in cui viverle e praticarle per molti ragazzi. L'amore incondizionato è anche un amore esigente. Il messaggio i giovani lo capiscono e lo apprezzano.
E il principio di carità? Anche qui per punti indico tre linee di lavoro per farlo proprio:
- costruire l'oratorio come uno spazio per intercettare i bisogni e, dialogando con le istituzioni, allestire i dispositivi per soddisfarli (si pensi ai tanti esempi di "patto di comunità" che anche in Diocesi si stanno moltiplicando);
- costruire l'oratorio come uno spazio di gratuità, dove si vale per quello che si è e si impara la capacità del dono senza tornaconto;
- costruire l'oratorio come uno spazio della Grazia, cioè un luogo in cui mettersi alla ricerca della propria vocazione, del proprio posto nel mondo. Se penso al mio oratorio, posso dire che l'essere insegnanti, politici, religiosi, di molti di noi sia maturato proprio tra le sale e il cortile dell'oratorio...

5. Una conclusione
Se ripercorriamo i tre quadri che abbiamo rapidamente disegnato, riconosciamo quelle che la tradizione francescana, rifacendosi a S. Agostino, chiamava le tre primalità (esse, nosse, velle) ritenendole il riflesso di Dio nell'anima dell'uomo.
A ben vedere, famiglia, scuola e oratorio rispondo alla stessa logica:
- la famiglia, la sua generatività, è il luogo dell'essere;
- la scuola, la sua magistralità, è il luogo del conoscere;
- l'oratorio, la sua missionarietà, è il luogo della volontà e dell'amore, e cioè della scelta.
Il problema è che oggi, a volte, una delle tre (anche tutte e tre, capita) manca e questo comporta un sovraccarico nel mandato di qualcuna di esse (si chiede tutto alla scuola, si pretende che l'oratorio sopperisca).
Altro problema: a volte famiglia, scuola e oratorio lavorano disgiunti, al limite in contraddizione. Serve un coordinamento: ecco lo spazio del patto di comunità.
Infine, la deriva verso l'informale, verso l'educazione senza mediazioni, pone a rischio l'educazione vera: dipende da noi adulti fare in modo che non sia così. Educare è cosa del cuore, come diceva Don Bosco. E l'augurio, per tutti noi, genitori, insegnanti ed animatori è di poter rivolgere un giorno ai nostri ragazzi le stesse parole di Don Lorenzo Milani nel suo testamento: "Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto".

Riferimenti bibliografici
Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 2006 (quarta edizione)
Mariani, A., La scuola può fare molto ma non può fare tutto, SEI, Torino 2006
Meirieu, P., I compiti a casa, Feltrinelli, Milano 2000

Sunday, March 7, 2010

Le pratiche mediali dei giovani


Il 3 marzo scorso sono stato invitato dalla Fondazione Ambrosianeum a commentare i dati del Rapporto Città di Milano 2009. Si tratta di un rapporto che annualmente fotografa la situazione della città dal punto di vista delle tematiche che meglio concorrono a definirne le linee di crescita e gli spazi di intervento. Quest'anno il rapporto ruota interamente attorno alla condizione giovanile. A me è stato chiesto di analizzarne i risultati dal punto di vista delle pratiche sociali dei giovani, tra reale e virtuale, o meglio tra media vecchi e nuovi.
Lo sfondo a partire dal quale ho provato ad accostare il tema è quello della ricerca che negli ultimi tre anni il mio centro, il CREMIT, ha sviluppato sull'argomento e i cui dati sono stati raccolti anche nella città di Milano. Mi riferisco in particolare a: I-pod, You-tube e noi?, un progetto di ricerca-intervento per la prevenzione del cyberbullismo in classe; Guinzaglio elettronico, una ricerca sull'uso intergenerazionale del cellulare nel contesto delle relazioni familiari (ora pubblicato in volume per Donzelli); A che gioco giochiamo, una ricerca sui comportamenti di gioco di bambini e adolescenti (2500 tra gli 8 e i 16 anni ) in Diocesi di Milano per verificare il rapporto esistente tra attività videoludica e di gioco all'aria aperta; infine Crescere nel conflitto (con l'Università di Milano Bicocca) per sviluppare una cultura della mediazione rispetto ai conflitti tra gli adolescenti.
Da questo sfondo si possono isolare tre evidenze utili a leggere le istanze contenute nel Rapporto:
- il problema del luogo;
- il problema della relazione;
- il problema della trasgressione.

1. Sul tema del luogo, il Rapporto in maniera opportuna indica il superamento della dialettica reale/virtuale. Non c'è discontinuità, ma continuità tra le pratiche poste in atto con e senza le tecnologie. La tecnologia è migrata dentro le vite dei giovani, è "reale" anche quando dispone di spazi di interazione mediata.
Piuttosto pare opportuno adottare come criterio di lettura delle pratiche giovanili un'altra coppia categoriale, quella di dentro/fuori. Essa ha a che fare con la questione cruciale della ridefinizione di ciò che è spazio pubblico e di ciò che invece è spazio privato: il confine tra le due dimensioni è reso sottile dalle tecnologie. Nel caso dei giovani si traduce in una sporgenza verso il fuori: estroflessione dell'identità, costruzione del sé nello spazio pubblico.
Infine, in relazione al luogo, occorre sottolineare lo sviluppo della tecnologia verso forme sempre più comode di portabilità. Questo comporta:
- l'emancipazione dal luogo (delocalizzazione) con l'allontanamento del consumo dalla casa;
- la perdita del "controllo" da parte dell'adulto (soprattutto genitore).

2. Quanto alla relazione le nostre ricerche ci dicono che le forme di dipendenza e di autoreclusione (per usare le parole di Charmet nel Rapporto) impattano fortunatamente in modo non significativo (circa l'1% da quanto risulta dal British Journal od Developmental Psychology che dedica un numero monografico, il n.1 2009, al consumo mediale in adolescenza). Questo non significa non preoccuparsene, ma percepire che educativamente parlando occorre lavorare sulla normalità e non solo sulla patologia.
Lo studio della normalità suggerisce alcuni spunti:
- la tecnologia non sostituisce ma prolunga la possibilità della relazione;
- questo materializza un fortissimo bisogno di contatto;
- l'incontro negli ambienti fisici, il face to face, se possibile, è gradito (come emerge quando si chiede riguardo al gradimento per il gioco all'aria aperta registrando come spesso il videogiocare sia la conseguenza dell'impossibilità di giocare all'aperto, soprattutto per problemi legati alla percezione di sicurezza dello spazio pubblico da parte del genitore).
Le attenzioni educative sono altre. Ne indico due:
- la tendenza a protesizzare le proprie competenze sociali attraverso la tecnologia (quando devo dire a qualcuno una cosa spiacevole gli mando un SMS);
- la tendenza a colonizzare i non-tempi con il conseguente fenomeno della fuga dal silenzio (quando ho un tempo libero lo riempio messaggiando, telefonando o giocando con il game-boy).

3. E siamo alla trasgressione. Qui occorre subito appuntare come il confine tra lecito e illecito sia diventato sottile, soprattutto varcabile nelle due direzioni e in modo reversibile (un tratto comune ad altri comportamenti giovanili a rischio, primo fra tutti l'abuso di sostanze). Esso è reso ancora più sottile dai caratteri tecnologici dei media digitali. Penso in particolare alla socialità (confusione tra dentro e fuori) e all'autorialità (facilità di pubblicazione).
Su questa base sono convinto che molti comportamenti trasgressivi siano dovuti sostanzialmente a:
- una cattiva conoscenza delle grammatiche e delle sintassi. Per seguire la metafora: mi pare che i ragazzi imparino a parlare in fretta (in tema di media digitali), ma spesso in modo scorretto;
- un approccio leggero, superficiale, spesso poco consapevole di effetti e impatti delle proprie azioni.
Questo richiama i compiti della famiglia e della scuola. Di fronte alla nuova socialità mediata giovanile, l'atteggiamento è di vietare e sanzionare per proteggere o di negare ed espellere credendo di educare. In questo modo si lascia solo l'adolescente con il suo problema, manifestando tutto il proprio disagio. Occorre invece educare le responsabilità perché oggi la competenza mediale è una delle competenze di cittadinanza-chiave. Nel Rapporto viene opportunamente richiamato.


Thursday, February 11, 2010

Diario Carioca



Madrid, 30 gennaio 2010
Sempre lo stesso vissuto. Scarsa voglia di partire, ansia per il viaggio, come se gli affetti ti si facessero presenti solo nel momento in cui li perdi (anche se solo per poco tempo). Una morte simbolica, come è il viaggio ogni volta. Nella terra di mezzo che sta tra partenza e arrivo, non luogo e non tempo, pensi, rifletti, la memoria si attiva. L'altra soglia ti apre il mondo nuovo. Ainda uma vez, Brasil!

Rio de Janeiro, 31 gennaio 2010
Domenica a Ipanema. L'Arpoador, quella lingua di pietra che fende il mare separando la spiaggia di Copacabana dal litorale di Ipanema e Leblon, rosseggia come sempre all'alba. Il popolo dei barraqueiros, dei coqueiros, dei mille ambulanti allestisce come ogni giorno il suo palcoscenico. Come formiche, in fila, i forzati della marcia tonica solcano il lungomare, avanti e indietro. L'ultimo lembo di terra, dopo Leblon, lascia scorgere la favela di Vidigal che si tuffa nel mare proprio sopra allo Sheraton-Rio: la sintesi di una città. Esco. Respiro l'odore della salsedine, mischiato a quello di cento creme solari, del pudim de leite, del maracujà. Attraverso il Parque do Arpoador. Dopo la messa nella Igresia da Resurreçao, guadagno la Praça General Osorio, in qualche modo il cuore di Ipanema. Agli angoli le nuove fermate del metro. Poco più avanti le cuciniere bahiane con il loro abito tradizionale, bianco, stanno preparando l'acarajè. Mi immergo nella Feira Hippy, il mercato dell'artigianato: cuoio, argento, rendas, pedras. Se sai evitare i banchi più commerciali e conosci la lingua ti si apre un mondo. Compro dei sandali. Mi cuciono il cinturino sul momento. Due americani intanto si fanno rifilare un portafoglio di cuoio a un prezzo assurdo. L'artigiano mi guarda, alza le spalle e sorride: "Gringos...". Faccio sosta al Brasilerinho: caipirinha di lime senza zucchero, carne con riso e fagioli neri, dolce di zucca e cannella. Penso a Jorge Amado, alla sua Gabriela. Torno al'Arpoador. Poso il mio bottino e sono in spiaggia. Le acque dell'Oceano non sono fredde come al solito. Riguadagno la mia camera. Sul letto penso che a una strada da qui Vinicio componeva i suoi versi. La baia rosseggia e una lama di luce taglia l'orizzonte. La gente sulla spiaggia applaude il sole per lo spettacolo. Quando i Carioca dicono che questo è il posto più bello del mondo sanno di avere ragione...

Santa Marta, 3 febbraio 2010
Il morro di Santa Marta è uno dei più verticali della città. Ti arrampichi per scale che arrivano fino in cima alla montagna, da dove hai una delle viste più belle di Rio, quasi a 360 gradi, dal Redentor, al Pao d'Açucar, alle spiagge di Copacabana e Ipanema. Santa Marta è una comunidade di circa 4000 persone. Qui è nato il traffico di droga, negli anni Settanta. Qui la Prefeitura di Rio ha iniziato il suo programma di "pacificazione" delle 41 favelas di Rio de Janeiro, una sorta di patto che consente alla polizia di riappropriarsi di un territorio che altrimenti sarebbe rimasto off-limits. Del programma fa parte anche la formazione di nuovi poliziotti, formati apposta per lavorare in questi contesti così da evitare che possano agire per vendetta o per interesse. Il risultato è che adesso tutti vengono a Santa Marta: ci era stata Madonna, con grande clamore; nella mattinata che ci sono rimasto, ho incontrato una troupe della televisione tedesca e un'altra troupe che girava una nota telenovela di Rede Globo. Alla Prefeitura fa gioco: in vista di Olimpiadi e Mondiale deve smontare l'immagine di Rio città violenta. Il problema è che Santa Marta non è un giardino zoologico e i suoi abitanti sono persone normali e non attrazioni da fiera!
Entro a Santa Marta con Dulce, Slavisa, suo marito André, Alexandre e Chico. Dulce ha lavorato al Ministero dell'Educazione Federale fino al 2002: adesso fa parte di un programma della Fondazione Roberto Marinho per l'alfabetizzazione delle fasce povere. Alexandre è un ex-poliziotto: quando ha realizzato che la sua vita poteva finire per un "tiro de um adolescente" o che avrebbe potuto lui ammazzare per sbaglio un bambino in qualche raid, si è licenziato, si è iscritto alla Facoltà di Geografia e adesso vuole entrare in favela non più per sparare, ma per aiutare la gente a realizzare i suoi sogni. Slavisa e André sono insegnanti. Straordinari! Lui musicista di origini olandesi, lei, di famiglia serba, media educator. Tengono una oficina di produzione video con un gruppo di ragazzi che si ispira ai miei lavori sulla Media Education. Chico è responsabile del Progetto Telecentros: luoghi in cui con la metodologia Paulo Freire gruppi di persone di tutte le età riprendono (o cominciano) a studiare. Ne visito uno. Fabiana, l'educatrice, è molto brava. La turma è composta di 5 allievi oggi. Vediamo un DVD sulle fonti energetiche. Si discute. L'attenzione cade sui rifiuti che sono il grande problema del morro: di difficile smaltimento, vengono buttati nei canali a cielo aperto che ne costituiscono il sistema di fognatura finendo per intasarli. "Dovrebbero venire qui a vedere, quelli della Prefeitura!". Saliamo più in alto. Nella piattaforma di una delle fermate della cremagliera che serve la comunidade registriamo una sessione di lavoro con i ragazzi dell'oficina video. Il tema è l'educazione ai media. Mi accorgo che i consumi sono gli stessi anche qui: televisione, cellulare, internet. Faccio domande. Ricevo risposte incredibili, precise, mature. Tutti sono un po' timidi, tranne Junior (intelligentissimo), Ila e Alas. Alas (con me e Ila nella foto) è il più piccolo. Ha dodici anni. Segue tutta la discussione serissimo. Alla mia domanda se le immagini sono realtà o costruzioni, Alas risponde: "Costruzioni. Perché chi sta dietro la macchina sceglie cosa riprendere e poi monta quello che vuole. Come facciamo noi...". "Parabens Alas - gli dico - Voce è muito intelligente. Gostei muito da sua risposta!". Registro una testimonianza per il video che André e Slavisa stanno realizzando insieme ai ragazzi. Dopo si va. Ila e Alas vengono a salutarmi. "Eu sou torcidor do Flamengo e voceis?". Ila ride: "Noceis também. Olhe là!" e mi mostra la bandiera del Flamengo che sventola di fianco a quella brasiliana sul tetto di una baracca. Ordem e Progresso. Alas mi abbraccia.Vado via commosso. Ho visto negli occhi di questi ragazzi la voglia di imparare, di prendersi la vita. Il Paese dovrebbe ripartire da qui, da questa risorsa umana straordinaria che è la sua vera ricchezza. Un macaco ci guarda con il suo piccolo sul dorso. Due bimbi bellissimi, per mano alla loro mamma bambina li indicano e ridono. Ringrazio Dulce, André e Slavisa. Spero che sia un inizio e non una visita-ninja, come chiamano i ragazzi del morro alcuni progetti delle ONG: ninja, perché arrivano all'improvviso e all'improvviso finiscono, senza cambiare nulla. Un altro spunto di riflessione per un Occidente che sta capendo poco, anche di quel che vuol dire aiuto e promozione dell'uomo.

Niteroi, 4 febbraio 2010
I Carioca per scherzare dicono che l'unica cosa bella di Niteroi è la vista di Rio de Janeiro. In verità la geografia pare proprio dar loro ragione. La città sorge infatti sull'altra sponda della Baia di Guanabara. La punta estrema di Niteroi, la Fortaleza de Santa Cruz, dal 1555 ha difeso da chi arrivava dal mare aperto l'ingresso via mare alla città. Ma Niteroi non ha solo la vista di Rio (peraltro meravigliosa). C'è almeno un altro motivo per farci una scappata, e cioè il "caminho de Niemayer", ovvero un asse stradale su cui si trovano le principali realizzazioni che il grande architetto fece in questa città, dall'imbarcadero dell'aliscafo per Rio al MAC, il Museo di Arte Contemporanea. Qui l'opera d'arte è il contenitore. Niemayer immagina il museo come un'astronave che sfida la forza di gravità poggiando, grazie a uno stelo di cemento armato, su un promontorio roccioso. La scelta del luogo non è casuale. Sul retro del museo, lungo il lato rivolto verso il mare, si apre una vetrata che consente allo sguardo di spaziare tutto intorno con una vista mozzafiato. Il messaggio dell'edificio è che l'arte è la fuori. E lo conferma con il ricorso agli specchi d'acqua a raso che hanno contribuito a rendere grande la fama del Maestro nel mondo . Il ponte - sempre di Niemayer - che collega Niteroi a Rio ci riporta verso Ipanema. Le piattaforme di petrolio, i cargo alla rada, le banchine del porto fanno da contrappunto all'arte e alla natura. Dall'altra parte del viadotto una delle tante scuole di samba sta facendo gli ultimi preparativi per il Carnevale. Tra sabato e domenica diversi blocos saranno già per le strade.

Rio de Janeiro, 5 febbraio 2010
Sono le 22.00. Il Canecao (uno dei santuari dello show dal vivo Carioca) è pieno. Si attende l'inizio di "Isto è Brasil", una fantasia di danza popolare brasiliana. Il maestro, insieme coreografo e protagonista, dello spettacolo è Carlinho de Jesus, uno dei grandi interpreti della danza brasiliana contemporanea. Dicono che la sua jinga - ovvero il movimento fluttuante del corpo nella danza - non abbia uguali.
Lo show è semplice, come costruzione e come messaggio. Mostrando come la danza brasiliana abbia le sue radici in quella africana e poi si contamini con altri elementi generando una varietà enorme di generi e stili (foro, frevo, samba, chorinho), Carlinho dice a tutti che "Questo è il Brasile", una terra dove le differenze non sono mai discriminate ma integrate diventando ingredienti di un mix di razze e culture senza uguali. Per dimostrare questa tesi, Carlinho ha invitato a far parte dello show Ana Botafogo, la più importante ballerina classica del Paese. Gira con lui nello spettacolo da sei anni. Il messaggio è che danza classica e popolare possono convivere: la cultura bassa è parte della cultura alta e viceversa.
La compagnia è fantastica. I corpi ammiccano, si incontrano, scivolano gli uni sugli altri: nella danza brasiliana (come in quella caraibica e nel tango) l'erotismo è fortemente presente, la sensualità è parte del gioco. Nelle figure che i ballerini disegnano sul palco come se stessero volando lo spettatore riconosce la vita e la morte, le scene di tutti i giorni, l'essenza dell'uomo, come Borges diceva del tango. Lo spettacolo si chiude nel tripudio dei presenti. La compagnia saluta il pubblico danzando l'inno brasiliano rifatto a tempo di forò. Carlinho bacia la bandiera e si batte il cuore. Dico ai miei amici Carioca che in Italia questo orgoglio del Paese e questo amore della bandiera non lo conosciamo. Flavia mi risponde: "Nem aquì! Sò acontece no palco. Ou no ano da Copa do Mundo, se a seleçao ganhar...". Rido. Il taxi mi riporta all'Arpoador. Negli occhi la jinga di Carlinho, ma anche della splendida ballerina di colore che aprirà il desfile delle scuole nel Sambodromo venerdì prossimo.

Tijuca, 6 febbraio 2010
La Tijuca è un quartiere popolare di Rio de Janeiro, collocato tra il centro della città e un morro oltre il quale si estende il nuovo quartiere della Barra, la Maiami di Rio de Janeiro, con le case dei ricchi, gli shopping più moderni, i locali alla moda. A Tijuca si trova una delle scuole di samba più tradizionali di Rio de Janeiro, la escola do Salgueiro, campione in carica dallo scorso Carnevale. Salgueiro è il nome della comunidade che di solito sempre sta dietro a una scuola di samba. E' sabato e in vista del Carnevale la scuola apre al pubblico (come ogni sabato da novembre a febbraio) una delle prove che "a bateria" fa.
Il meccanismo del Carnevale a Rio è complesso. Non è anarchia, ma ordine. Le scuole sono qualcosa di simile alle contrade senesi: ciascuna con i suoi colori, la sua academia, la sua macchina organizzativa. Lavorano un anno intero per sfilare nel Sambodromo, vicino a Central do Brasil (la stazione di Rio, ombelico del mondo e luogo di raccolta di tutte le povertà umane): in palio l'onore, ma anche tanti soldi.
Una scuola che sfila è composta di una "bateria", ovvero un gruppo (fino a 200 e più) di percussionisti coordinato dal mestre da bateria, che detta i tempi e scandisce le scelte di ritmo. Si tratta del cuore della scuola: il Samba è sostanzialmente batida, potrebbe anche fare a meno degli altri strumenti. Dietro e davanti alla bateria sfilano i gruppi di figuranti (alas) e i carri allegorici. Apre la sfilata la "reina da bateria": secondo tradizione la ballerina più bella e più brava (oggi spesso un'attrice, comunque un personaggio famoso). Le fa da contraltare il puxador: il cantante, che ha come compito quello appunto di puxar, di tirare, il gruppo.
Mentre le scuole sfilano (ogni sfilata, dal giovedì prima di Carnevale al martedì successivo) si apre attorno alle 20.30 e può terminare anche la mattina dopo) delle giurie specializzate assegnano i punteggi: tra i "criterios" ci sono i travestimenti (fantasia), la bravura dei ballerini, la precisione/coordinamento/armonia della bateria, la qualità del tema sviluppato.
Un mondo complesso, quasi una società parallela che vive e lavora un anno intero in funzione del Carnevale. Con una funzione di equilibrio sociale. Infatti, per tradizione, le scuole di samba appartengono ai quartieri poveri; spesso i padroni devono chiedere ai loro inservienti di poter sfilare; e inoltre chi balla e chi suona ha nella scuola la sua rivincita sociale, "conta", è qualcuno.
Ma negli ultimi anni la spinta degli interessi commerciali sta travolgendo tutto. Le allegorie sono sempre più care, così per sfilare occorre pagare: e quindi lo spirito popolare si va perdendo. A sfilare sono i ricchi, che "possono". I Carioca sono critici su questo sviluppo del sistema e già guardano al passato con un po' di saudade.
Mentre ero nel mezzo della academia di Salgueiro (con qualche migliaio di persone) mi guardavo intorno. Guardavo i percussionisti e i ballerini: tempi e ritmi forsennati, che non a caso sono gli stessi del candomblé e arrivano a indurre la trance. Ma anche la gente comune è letteralmente fuori di sé: c'è corpo, c'è natura. Più che la trasgressione è l'anima nera, africana, di un popolo intero che si libera. In Brasile tutto è etnografia, sempre. Un europeo può provare a capire: ma ha altri battiti dentro. Pensa di assistere a uno spettacolo: ma il Carnevale, a Rio, è ancora un rito. E' il disordine che lotta con l'ordine, è un gigantesco dispositivo sociale di disinnesco della violenza: nel pagliaccio che non può entrare in Chiesa e viene cacciato da tutti si riconosce l'ombra del capro espiatorio. Occorre tornare a rileggere René Girard, che proprio a Rio ha dato l'intervista che rappresenta la panoramica più sintetica e completa del suo pensiero.

Rio de Janeiro, 9 febbraio 2010
Il teatro Rival è uno dei luoghi classici della musica dal vivo a Rio. Nel cuore di Cinelandia (il centro della città, con il Teatro Municipal riconsegnato allo splendore di un tempo dal restauro, e la Biblioteca Nacional) ha visto passare sul suo palco tutti i grandi interpreti della musica brasiliana. Questa sera è Teresa Cristina di scena. Una delle voci più belle della nuova generazione. Fa samba de raizes, Teresa: è il samba più tradizionale e intimo che ha come maestro Paulinho da Viola. Teresa l'ho sentita la prima volta nel Club Democraticos, una sala da musica che si trova alla base della salita che porta a Santa Teresa, il quartiere degli artisti di fine Ottocento, la Montmartre di Rio. Sono passati sei anni. E' diventata famosa. La voce è sempre meravigliosa, come meravigliosi sono i suoi musicisti: tre alle percussioni, uno alla chitarra, uno al cavaquinho. Il repertorio è dei suoi: spazia dal ritmo bahiano a Paulinho e concede alla platea qualche grande classico. E' la mia despedida da Rio, il mio saluto. Torno in albergo con le parole di Paulinho nella testa: "Eu sou assim, quem gostar de mim eu sou assim...". Sembra parlare di Rio de Janeiro. Il mio volo per Madrid parte domani. Il mio pezzo di alma carioca mi aspetterà qui, da qualche parte, fino alla prossima volta che, ne sono certo, ci sarà.