Sunday, September 13, 2015

Il deserto, la fede e la storia


1. Malpensa. Il solito gioco delle sensazioni che conosco, la solita voglia di non partire quando arriva il momento. Le cose da fare, gli affetti di cui ti accorgi solo quando devi abbandonarli, anche se per pochi giorni. Il pomeriggio mi riserva in prospettiva un’attesa di oltre quattro ore a Francoforte e l’arrivo ad Amman a notte fonda. Ammazzo il tempo con un libro di John Williams che racconta la storia di un rampollo della Boston bene che viaggia verso Ovest per mettersi sulle piste dei bisonti (e di se stesso). Williams mi ha appena affascinato con il suo capolavoro, Stoner. Anche le prime pagine di Butcher’s Crossing promettono bene. Tocco il letto quasi alle quattro di mattina. Appuntamento alle 9.00. Destinazione Jerash.

2. L’antica Gerasa, al massimo del suo splendore, nel secondo secolo, è una città di 30.000 abitanti, con un’arena che contiene 15.000 spettatori e due teatri. Uno dei centri più importanti della Provincia Araba, insieme a Petra e a Palmira. Si entra passando sotto l’imponente arco di Traiano, si sbuca nella stupefacente piazza ovale. Poi si percorre il cardo massimo fino quasi alla porta nord della città: qui si visita il teatro minore, perfettamente conservato. Poi, attraversato il tempio di Artemide si torna verso la parte sud della città, il teatro maggiore, il tempio di Zeus. Mentre sudiamo sotto il sole di mezzogiorno, il gioco dei pensieri mi suggerisce spunti sparsi. Quel che si visita – che già così è di sicuro uno dei siti archeologici romani più straordinari che io abbia mai visto – è solo il 25% della città. Il resto giace… sotto la moderna città di Jerash, cresciuta dentro il parco archeologico. Storie già viste anche a casa nostra. Intanto un migliaio di chilometri più a nord Palmira rischia di scomparire per mano dei guerriglieri neri dell’ISIS. Angelo e bestia, l’uomo da sempre è bravissimo a dare il meglio e il peggio di sé. La religione non c’entra.



3. La cena ci riserva il piatto nazionale giordano in un ristorante tipico di Amman. Il mansaf è agnello cotto nello yogurt. Viene servito appoggiato sopra un letto di riso con le mandorle e i pinoli: a piacere ci si può versare sopra lo yogurt. Il sapore è forte, deciso, reso tale ancora di più dallo yogurt che durante la cottura ha fatto propri sapore e odore dell’agnello che enfatizzano l’acidità del caglio. Lo accompagno con un bicchiere di limonata alla menta. Il caffè arabo, fatto bollire nella caratteristica cuccuma con abbondante cardamomo, chiude il pasto: lo prendo due volte, poi faccio oscillare la tazza, è il segnale che sono a posto.

4. Il Giordano ai tempi di Gesù era largo sessanta metri. Oggi è un rigagnolo che disegna le sue curve all’interno della zona militare che contiene la frontiera tra Israele e la Giordania. Dalla parte Giordana ci si arriva lasciando le auto al Visitors Center: proseguendo con il minibus si entra nella zona militare, poi si prosegue a piedi. Il caldo è infernale, sfiora i 43 gradi con una umidità incredibile. Il percorso di visita si distende lungo una passerella coperta da tende, ma serve a poco. Sembra che mi abbiano tirato addosso un secchio d’acqua. Dopo due soste in cui la nostra guida ci spiega qualcosa di questa incredibile area monumentale entro cui sorgono almeno una ventina di chiese di epoche e riti diversi, arriviamo al punto esatto in cui gli studiosi hanno stabilito che Gesù sia stato battezzato da Giovanni. Quattro pietre e una pozza d’acqua lo delimitano. L’emozione è grande. Ed è stridente il contrasto tra il luogo e i soldati che presidiano la zona. Scendiamo fino al punto in cui i due Paesi non sono separati che dal Giordano: cinque metri più in là, al di là di quel piccolo fosso, c’è Israele. Ci sediamo. Sull’altra riva dei sacerdoti cattolici stanno accompagnando un pellegrinaggio; pochi metri più in là, un Pope con il camice bianco addosso canta il suo rito mentre i suoi fedeli, anche loro in camice bianco, gli rispondono prima di scendere e bagnarsi nell’aqua. Con noi c’è un pastore battista della North Carolina. Mentre risaliamo, commento con lui che mi sarebbe piaciuto incontrare Gesù in questi luoghi ai suoi tempi. “Ma tu lo hai incontrato per forza se sei credente. Io l’ho incontrato e ha cambiato la mia vita!”. “Yes Pastor, you’re right. He’s not someone to read about in a book, is someone to meet”. Il pastore viene tutti gli anni da queste parti. La sua chiesa sostiene una piccola comunità di Curdi in Turchia: sarà lì la settimana successiva. Lo saluto con affetto. “God bless you” mi dice sorridendo.


5. Il pomeriggio ci si trasferisce a Petra. Di strada c’è il tempo di una puntata al castello di Shabak: ne rimangono i possenti contrafforti, il villaggio che racchiudeva è ormai completamente diroccato. Tutto intorno, a 360 gradi, sabbia e arbusti a perdita d’occhio. Siamo sulla via che portava i pellegrini alla Mecca: il castello aveva funzioni di protezione e ristoro. Riprendiamo la strada e prima di arrivare a Petra ci fermiamo nell’antico villaggio di Dana. All’imboccatura di un Wadi, di una valle, che ospita oggi una importante riserva naturale, il villaggio è fatto di case di pietra, antiche cinquecento anni. In un gruppo di esse è ricavato un piccolo albergo, il Tower Hotel. Entriamo. Il proprietario è parte del clan dei Noawli, la tribù della Wadi Musa cui appartiene il nostro amico Uahil. Ci servono tè alla menta che sorseggiamo su una terrazza mentre il sole si spegne. Tutto intorno è silenzio. Sarà una cifra di questo viaggio.



6. Sono a Petra dopo pochi mesi dall’ultima visita. Questa volta, però, non è la tormenta di neve ad accoglierci, ma sono i 40 gradi della fine estate giordana. L’area archeologica è immensa: ospita 3500 giacimenti monumentali e si stima che molto sia ancora sotto la sabbia. Il visitatore, attraversato il sik, la gola che introduce alla città, e smaltita appena l’emozione prodotta dalla vista del Tesoro – il monumento più famoso di Petra – vede aprirsi davanti a sé uno spazio metafisico creato dalla perfetta compenetrazione delle piramidi di calcare di cui il territorio è costituito con l’opera dei Nabatei, di cui Petra era la capitale. La visita è insieme un’esperienza di trekking, un viaggio nell’arte e un’avventura per lo spirito. I cammelli e gli asini dei beduini ti vengono offerti ogni momento per alleviare la fatica. Rinunciamo e risaliamo a piedi tutta l’area degli scavi fino al suo estremo dove, dopo un’ascesa impegnativa scandita da più di ottocento gradini scavati nella pietra, si sbuca su uno spiazzo. Voltandosi indietro ci si accorge di essere nell’area antistante il Monastero, l’altro monumento simbolo di Petra. Le alture di fronte promettono panorami da sogno. Decidiamo di fare l’ultimo sforzo. E ne vale la pena. Ci ritroviamo su un pianerottolo calcareo sospeso a strapiombo sulla Wadi Araba. All’orizzonte si staglia il monte sulla cui cima brilla il bianco della tomba di Aronne. In fondo, lontano, la valle del Giordano che risale verso il Mar Morto. Il paesaggio è mozzafiato. Rimango a guardare in direzione della tomba del Patriarca. Per arrivarci occorrono sei ore di cammino. Chi ci va, poi, di solito rimane a dormire al campo sul luogo della sepoltura. Penso che dovrò tornare in Giordania anche solo per questo.



7. La mattina del giorno dopo ci immergiamo nel calore e nella vivacità di Aqaba. Mentre ci si arriva, percorrendo l’ultimo tratto in discesa della Desert Highway, se ne apprezza la meravigliosa posizione, tra l’Arabia Saudita da una parte, la città di Eilat in Israele dall’altra e l’inizio della penisola del Sinai che diventa presto Egitto. Prendiamo un caffè fatto bollire nella sabbia secondo la tradizione. Il sapore forte del cardamomo ci accompagna verso il suk. Prendiamo un succo di frutta fresca seduti all’incrocio di una trafficatissima strada: gli odori della verdura e delle spezie si mischiano al colore della gente. Tutto è allegro, vivo. Riprendiamo l’auto e scendiamo verso le spiagge a sud della città. Siamo a pochi chilometri dalla frontiera con l’Arabia Saudita. Troviamo una spiaggia pubblica. Il tempo di rimanere in costume e le acque limpide del Mar Rosso ci accolgono.  Svariano dal verde all’azzurro intenso. Basta mettere la testa sott’acqua e un acquario di mille colori prende forma. Riemergiamo, ci lasciamo asciugare dal vento caldo e dal sole. Poi via verso il Wadi Rum.

8. Il deserto del Wadi Rum occupa la parte sud-est della Giordania, un mare di sabbia e torri di roccia scolpite dall’erosione. Lo si attraversa a bordo dei pick-up dei beduini che scivolano sulla sabbia leggeri, come moderni cammelli. Più ti addentri nel deserto e più ti senti immerso in un silenzio sovrumano. Lentamente vengono meno i riferimenti spaziali, ti accorgi che potresti essere ovunque. Le piste si intravedono soltanto: fai fatica a capire come i beduini le lascino e le trovino con facilità estrema muovendosi nel nulla come se una mappa invisibile li accompagnasse. “Sono nati qui, conoscono ogni palmo del deserto!”. Uahil come sempre in modo lapidario ci fornisce la spiegazione. La giornata passa tra una sosta e l’altra: ora osserviamo un paesaggio, ora ci arrampichiamo su una roccia. Il pranzo veloce in una tenda beduina ci serve da ristoro. Poi via fino al tramonto che andiamo a salutare da un’altura. La notte riposiamo in un accampamento speciale: un vero e proprio resort ricavato da tende beduine in un angolo protetto da una conca naturale di rocce. Il cielo è incredibile: non ricordo di aver mai visto tante stelle e il tracciato della Via Lattea così nitidamente. Si rimane attorno al fuoco, sulle stuoie, con lo sguardo verso l’alto. Il silenzio riempie il tempo. Penso al pastore errante nell’Asia di Leopardi.




9. Madaba ci accoglie come ultima tappa del viaggio. È la città giordana con il maggior numero di cristiani. E con una tradizione antichissima legata al mosaico. Prima di conoscere la decadenza in epoca ottomana, la città era stata un importante centro prima romano e poi bizantino. Ancora oggi splendidi mosaici pavimentali si trovano un po’ dappertutto e non è raro accedere agli scavi di una chiesa attraverso una bottega o una casa privata, come nel caso della chiesa dei Santi Martiri. Tra questi mosaici il più famoso è di sicuro quello che si trova nella chiesa di San Giorgio e che riproduce la mappa della Palestina. L’abbiamo presente quando nel pomeriggio facciamo visita al memoriale di Mosè sul Monte Nevo. Qui la tradizione dice che dopo la liberazione dall’Egitto e il lungo viaggio che ne conseguì, Mosè sia morto gettando lo sguardo sulla Terra Promessa. La vista è suggestiva e per la seconda volta dopo la visita al luogo del Battesimo sul Giordano mi prende una fortissima emozione. È l’emozione tutta particolare che nasce quando la fede incontra la storia. Rimango a osservare in direzione di Gerusalemme anche se la città non si vede, come invece accadrebbe in una nitida giornata d’inverno. L’aria è densa e solarizzata, sembriamo avvolti dalla nebbia. Ci spiegano che è polvere: una tempesta di sabbia dall’Iraq si sta spostando verso il Libano e queste ne sono le conseguenze. Il giorno dopo andando verso l’aeroporto la polvere è ancora più fitta. Decolliamo e dopo qualche minuto l’azzurro del cielo torna ad avvolgerci.