Wednesday, May 9, 2012

Tifo, festa, appartenenza



Domenica sera ero in piazza. Come me i miei figli. Avevamo appena vinto lo scudetto, dopo sei anni, dopo la serie B, dopo due stagioni finite in maniera mediocre, dopo aver disperato che saremmo mai tornati. Maglia e sciarpe indossate subito dopo il fischio finale, giusto il tempo di vedere Chiellini soffocato dall'abbraccio dei tifosi e via nel corteo dei tifosi. 
Bambini con cappelli bianconeri a tre punte, trattori a trombe spiegate, scooter con a bordo gli stessi passeggeri che troverebbero posto in una utilitaria. Una folla variopinta. In tutti la voglia di urlare la propria felicità, di trovare un motivo per fare festa, per rivendicare una appartenenza. 
In prossimità della piazza il corteo frena, si ferma. Auto di traverso, parcheggiate dove capita. Al centro della piazza la festa vera del tifo. Cori, "chi non salta è milanista, è". I miei figli incontrano amici, tutti juventini, tranne uno, infiltrato, tifoso del Milan. Poche parole, complimenti di rito. Dalla piazza parte un coro all'indirizzo di Allegri. Il ragazzo annuisce: "Hanno ragione". Poi guarda un gruppo di ragazzi magrebini tra i più accessi, avvolti in maglie e bandiere bianconere: "Erano qui anche l'anno scorso. Facevano festa con noi". 
Fare festa, rivendicare un'appartenenza. C'è un filo invisibile che lega il tifo, l'appartenenza sportiva, con le logiche e le pratiche della cittadinanza e dell'inclusione in una società multiculturale. Per quei ragazzi il problema non è essere della Juve o del Milan, ma sentirsi parte di qualche cosa, trovare un motivo per scendere in piazza. Una questione chiave soprattutto per le seconde generazioni, nate nel nostro Paese, che per una serie di ragioni non si sentono più parte della cultura dei padri ma che per un'altra serie di ragioni avvertono di non essere pienamente "pari" dei loro coetanei. Mentre lasciamo la piazza ci penso e rifletto che il dispositivo è in fondo lo stesso anche per noi. Sentirsi parte di una storia, riconoscersi. Come diceva Vujadin Boskov: "Noi siamo noi, loro sono loro". Un progetto ma allo stesso tempo un problema educativo.

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