Nella
“Moratoria sulla Buona Scuola”, un appello firmato nei mesi scorsi da un migliaio
di insegnanti e studiosi, si legge: «La scuola è e deve essere sempre
meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri,
modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma
inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale». E ancora:
«Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione,
la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e
interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico
che asfissia e destituisce?». La tesi è nota e coglie nella formazione di
scuola la contrapposizione tra due paradigmi antagonisti, quello “del
capitale umano”, economicistico e orientato all’efficienza e alla produzione, e
quello “dello sviluppo umano”, preoccupato invece della promozione dell’uomo e
delle libertà personali (Baldacci, 2014). In buona sostanza: l’istruzione per il
profitto e l’istruzione per la democrazia (Nussbaum, 2011).
Scorrendo
le pagine del documento mi sono sentito confermato nelle ragioni che mi hanno
spinto a scrivere, in almeno due direzioni.
La
prima è la convinzione che oggi più che mai si abbia bisogno di un’idea di
scuola. Non di discorsi: di un’idea. “Pensare la scuola” è il compito che
tradizionalmente è sempre stato svolto dalla pedagogia della scuola e che oggi
rischia di essere delegato da una parte alla politica, dall’altra ai tecnici.
Il problema è che l’una e gli altri – la politica e i tecnici – un’idea di
scuola, anche se ingenua e implicita, ce l’hanno: così le loro scelte, anche se
lontane dalla pedagogia, finiscono per materializzarla. Di qui l’importanza di
tornare a pensare la scuola, di riproporre un confronto sulla scuola.
Qui
trovo l’altro spunto. Se è importante riproporre un confronto sulla scuola,
discutere di quale sia l’idea di scuola che vogliamo realizzare, è altrettanto
importante farlo in modo non ideologico, lontano da preconcetti. È ancora
fresca la memoria della berlusconiana scuola “delle tre i” (Impresa, Inglese,
Informatica) e di come il governo di centro-sinistra le avesse sostituito la
scuola “della serietà, del merito, delle regole”. Discutere di un’idea di
scuola significa non accingersi all’ennesimo testacoda, non sostituire la
“buona scuola” con un altro slogan (i “contenuti”, figli della cultura e della
libertà di pensiero, al posto delle competenze, sintomo dell’asservimento al
mercato e alla produzione), ma riprendere con serietà il discorso da dove è
stato interrotto: la scuola è troppo importante perché diventi solo uno spazio
di schermaglie da bar dello sport.
Il
libro muove da queste consapevolezze (alimentate negli ultimi anni dalla
partecipazione a seminari, da molti incontri di formazione degli insegnanti, da
scritti brevi generati da queste occasioni) e si costruisce su quattro idee,
una per ciascuno dei capitoli di cui è composto.
Il
primo capitolo lavora sulla constatazione che la scuola funziona ancora oggi
come un dispositivo. Tutto lo suggerisce: il rapporto tra uno che parla e gli
altri che ascoltano, l’orario, la suddivisione in classi e discipline, il
registro, i voti, le sanzioni, l’autorità, la verticalità dei rapporti. Invece,
nello stesso tempo, la società è andata sempre più orizzontalizzandosi (Marzano
& Urbinati, 2017) e la famiglia ridefinendosi secondo un modello affettivo
piuttosto che normativo (Lancini, 2017). Lo scarto è evidente e si traduce in
un ritardo culturale, nell’incapacità di risultare significativa per i suoi
studenti.
Il
secondo capitolo è dedicato al “fiuto degli studenti” e agli “insegnanti
incompiuti”. Un insegnante è incompiuto
se è sempre in ricerca, se non si accontenta. Non è un professionista seduto,
l’insegnante, ma qualcuno che la consapevolezza del proprio dovere e lo sguardo
dei suoi ragazzi guidano costantemente verso il meglio. Solo così l’insegnante
risulta significativo e merita il riconoscimento degli studenti.
Il
terzo capitolo è organizzato attorno al metodo. In una società orizzontale
potrebbe sembrare che il metodo non serva, poiché rappresenta, probabilmente,
una traccia della verticalità di cui ci si dovrebbe essere finalmente liberati.
Ma non è così. Se il lavorare con metodo non si traduce in una gabbia, per
l’insegnante e per lo studente, esso è lo spazio attraverso il quale
l’insegnante può organizzare le proprie pratiche professionali e la scuola
assumere l’innovazione. Quanto allo studente, il metodo gli garantisce il
giusto grado di direttività, che non vuol dire che l’insegnante gli si
sostituisca togliendogli il margine di qualsiasi responsabilità, ma che gli
possa indicare il quadro e le coordinate entro cui muoversi per fronteggiare la
complessità.
L’ultimo
capitolo discute dei media digitali, muovendo dall’assunto che oggi noi e i
nostri ragazzi siamo, per così dire, “attraversati dai media”. Questo comporta
che non abbia senso discutere se ritagliare o meno per essi uno spazio in scuola:
se la scuola vuole essere contemporanea deve occuparsi dei media, come
linguaggi in cui le culture giovanili sono articolate e come dispositivi
attraverso i quali le vite di tutti sono espresse. Occuparsi dei media non
significa cedere a una moda, ma perseguire l’obiettivo di rendere la scuola
contemporanea. I media nella scuola sono frontiera etica e spazio di
costruzione della cittadinanza.
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