Tuesday, June 17, 2008

Lo sguardo dell'altro


In questi giorni sto riflettendo su un passaggio di un libro di Susan Sontag in cui l'intellettuale americana osserva come nella società attuale «l'altro, anche quando non è un nemico, è considerato soltanto come qualcuno da vedere, e non come qualcuno che (come noi) vede».
Il rilievo è acuto, puntuale. La Sontag lo inserisce all'interno di una riflessione che la occupò per decenni: quella del rapporto tra la fotografia e la guerra. In quest'ottica l'immagine fotografica diviene spazio sia di esaltazione patriottica che di compassione umana: il corpo straziato che giace sotto l'obiettivo può diventare ora cemento per la retorica bellica, ora strumento di condanna per la guerra, per tutte le guerre. In ogni caso, comunque, il dispositivo dello sguardo ci rende spettatori: l'altro non ha diritto a guardare, ma solo a essere guardato.
La considerazione apre ad almeno due ordini di questioni, entrambe strettamente legate con la formazione in quanto di essa c'è di valore, di più legato all'etica (la formazione, in quanto Bildung, costruzione dell'uomo, non può che fare riferimento sempre anche al valore).
Prima questione. La spettacolarizzazione della sofferenza. L'immagine del dolore è qualcosa che nella società dell'informazione diviene merce all'ingrosso: i telegiornali e la carta stampata ne riempiono la nostra giornata. Le giustificazioni solitamente sono due: il diritto ad informare e il supposto valore deterrente di queste immagini. L'implicito è che se veniamo informati dell'enormità del dolore che l'uomo può causare, dovremmo desistere dal causarne a nostra volta. Ma di fatto quel che si genera è qualcosa di diverso. Guardando le sofferenze degli altri, mentre ne proviamo compassione. otteniamo allo stesso tempo di allontarle da noi perché tutto sommato quel che vediamo non sta accadendo a noi. Si tratta di un dispositivo proprio sia della catarsi aristotelica che della teorizzazione del '700 sul sublime: «lo spettatore gode non della sublimità degli oggetti che la sua teoria gli dischiude, - come osserva Blumemberg - ma della consapevolezza di sé di fornte al turbine di atomi di cui consiste tutto ciò che egli osserva - perfino lui stesso». Compassione senza impegno, compassione come strumento di allontanamento, compassione come sedativo dell'emozione.
Seconda questione. Lo stesso dispositivo spettatoriale può essere assunto a criterio di interpretazione di molti fenomeni propri della nostra società. Penso a quelli che il sociologo Marc Augé ha definito non-luoghi e che occupano larga parte del nostro tempo libero: il grande centro commerciale, l'outlet, i parchi a tema. Si tratta di spazi in cui il dispositivo della spettacolarizzazione diviene iperbolico poiché il suo oggetto non è più la realtà ma lo spettacolo. Come nel caso di Disneyland. «Noi vi facciamo l'esperienza di una pura libertà, senza oggetto, senza ragione, senza posta in gioco. Non vi ritroviamo né l'America né la nostra infanzia, ma la gratuità assoluta di un gioco d'immagini in cui ciascuno di coloro che ci sono accanto ma che non rivedremo mai più può mettere quel che vuole. Disneyland è il mondo di oggi, in quello che ha di peggiore e di migliore: l'esperienza del vuoto e della libertà».
[Nell'immagine: "Miliziano lealista nel momento della sua morte, Cerro Muriano, 5 settembre 1936", di Robert Capa].

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6 comments:

Anonymous said...

Pensieri sparsi, scrivo velocemente...

Una fotografia, quella di Capa (fotografo che peraltro stimo molto), che sarebbe da taluni ritenuta una messa in scena... e quindi, al di là della messa in mostra dell'immagine del dolore, si tratterebbe di simulazione del dolore?
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Quando parli di spettacolarizzazione della sofferenza, mi viene in mente in particolare uno tra i tanti telegiornali delle nostre reti, che evito il più possibile di guardare... è vero che l'effetto che si ottiene è allontanare da noi la sofferenza che non stiamo vivendo - e che quindi non può realmente toccarci -, ma soprattutto mi chiedo cosa ci sia di "informativo" in un servizio in cui si raccontano dei particolari, talvolta raccapriccianti, che non aggiungono nulla all'economia della notizia, ma inducono chi guarda a cambiare canale e a voler dimenticare il prima possibile quanto appena ascoltato.
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Nei nonluoghi si vive il tempo presente, si è di passaggio e non vi si abita. Ritengo che la crescita delle tante fobie (agorafobia, ad esempio) possa essere legata a questa sensazione di "provvisorietà".
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Un gruppo di fotografia su Flickr che ritrae i non-luoghi.

Pier Cesare Rivoltella said...

Il dolore, nella fotografia, al di là che sia vero o simulato ciò che viene ripreso (sulla foto di capa si è scritto tantissimo al riguardo), è sempre emotivamente reale. Il realismo è anzitutto realismo delle emozioni, al di là del realismo nel senso proprio del termine (quello che implica che la foto sia "vera").
Quanto all'eccesso informativo del telegiornale: perfettamente d'accordo! E infatti quel che si ottiene è la rimozione... Ma ciò su cui si gioca è l'attrazione che l'immagine del dolore comunque esercita: un po' di voyerismo, in tutti noi, c'è...
Infine i non-luoghi. Vero che non ci si abita, e che dovrebbero alimentare (come di fatto alimentano) il senso della provvisorietà e del non sentirsi a casa. E tuttavia, cosa ci fa sentire a casa quando siamo all'estero se non proprio il non-luogo? Mac-Donald a Pechino? Ikea a Rhyad, nel centro di Rhyad (come è capitato di vedere a me...). Merita riflttereci...

Anonymous said...

Dal fotolibro su Robert Doisneau, edito da Contrasto, intervista al fotografo, febbraio 1983.

D. La foto per la stampa e lei siete due cose distinte. Non ci sono mai avvenimenti nelle sue foto. Mi piace molto l'aneddoto raccontato da Prévert, quello del gregge che lei stava accompagnando mentre è capitato un incidente, un camion ha schiacciato alcune pecore e lei, invece di scattare la foto, ha consolato il pastore.

R. Sì, non si poteva fare altrimenti, c'era quella massa sanguinolenta, quelle pecore che ancora si muovevano e che bisognava uccidere, non volevo farlo vedere, forse è da vigliacchi, ma non mi interessa. Ho notato che i giovani fotografi spesso reagiscono in modo inverso, per paura senz'altro di essere accusati di sdolcinature facendo vedere cose gradevoli. Allora mostrano il dramma, immagini crudeli e quelle più crudeli sono solitamente fatte dalle donne, per bisogno di affermarsi, come gli uomini che vogliono fare foto di guerra. Credo che non si possano usare tutti i mezzi a disposizione, che ci siamo ambiti segreti in cui non bisogna entrare. Senza tener conto che il sensazionale è spesso una ammissione di impotenza a vedere [...]

Quanti, oggi, consolerebbero il pastore?

Cadeira de papel said...

Maravilhosa a reflexão a partir de Sontag,professor. Obrigada mais uma vez por dividir conosco suas leituras.

Qual seria a estética da foto-dor? É possível pensar na beleza de fotos catastróficas?

A hipérbole da vida, com suas tragédias e massacres, parece ofercer uma outra via que não seja feita apenas de sorrisos para cliques.

Fico na dúvida sobre qual preço pagar: o de distanciamento ao sofrimento do outro ou o de trazer para perto dos olhos apenas o que há de leve e harmônico.

Lendo Marilena Chauí, "Simulacro e poder: uma análise da mídia" encontro as raízes do termo espetáculo:

" A palavra espetáculo vem dos verbos latinos specio e specto. Specio: ver, observar, olhar, perceber; specto: ver, olhar, ver com reflexão, provar, ajuizar, acautelar, esperar; species a forma visível da coisa real, sua essência ou verdade. Spectabilis é o visível; speculum é o espelho; spetaculum, a festa pública; spectator, o que vê, observa, espectador; spectrum é aparição irreal, visão ilusória; speculare é ver com os olhos do espírito. Espetáculo pertence ao campo da visão." (Chauí, 2006, p.14)

Sem saber o que posso ver, enquanto isso, em momento de suspensão, escolho: óculos escuros.Que a filosofia me deixe pensar e decidir.

Um beijo.

Pier Cesare Rivoltella said...

Grazie Serena, Obrigado Ilana. Giusto consolare il pastore, ma se le pecore fossero state la prova di un massacro che avrebbe potuto inchiodare alle sue responsabilità l'autore? La linea di demarcazione tra l'etico e ciò che etico non è è realmente sottile e difficile da tracciare. Enquanto ao comentario da Ilana: o problema è isso. Na medida na qual, na foto, o real vira sò espetàculo, jà a gente decidiu de reduzir-se a olhar. E olhar, na maiorìa das vezes, quer dizer não atuar. E' o que o Boltanski fala lebrando do Evangelio: quando na rua olhamos pessoa soferecendo, estamos tentados de passar sò olhando. Pode ser que no nosso corazão estamos emocionados, muito choqueados, mas o resultado é que não vamos fazer nada. Esta è a logica do espetàculo: olhar sem fazer.

Cadeira de papel said...

Esta nossa reflexão me remete à descrição de Blanchot (1978, L´entreténien infini. Paris, Gallimard, p.358) encontrada ainda no livro da Chauí.

"Não temos que nos inquietar com os acontecimentos desde que pousemos o olhar desinteressado sobre sua imagem; a seguir, um olhar simplesmente curioso e por fim, um olhar vazio, mas fascinado. Para que tomar parte de uma manifestação de rua, se no mesmo momento, no repouso e na segurança, graças a um aparelho de televisão assistimos à manifestação ali onde, produzida e reproduzida, oferece-se à nossa vista em seu conjunto, deixando-se acreditar que ela só existe para nós, suas testemunhas superiores
?"
O efeito seria evidente, como você disse, professor: a despolitização.

Beijos, Ilana.