La medialità nei suoi nuovi formati interpella gli attori e i sistemi dell'educazione e della formazione. In particolare solleva dubbi sul rischio che magari, dietro o sotto le immagini, vadano rarefacendosi i racconti, le storie tendano ad emanciparsi dai linguaggi. O ancora, che alla costruzione dei rapporti subentri la semplice attivazione o disattivazione di una connessione. Dubbi che occupano la coscienza e la responsabilità dell'educatore. Dubbi che, però, non devono farci correre un altro rischio: quello di ritenere che non vi siano più storie da raccontare, o che "Noi sì che sapevamo raccontare!". Insomma: la riedizione del solito gioco del noi e loro (noi, gli adulti, i figli di un'altra generazione; loro, gli adolescenti, i figli della Rete e del telefonino), dove l'implicito è che "prima" era meglio e oggi è peggio.
Per evitare di cadere nella trappola credo occorra sforzarsi di interpretare le culture mediali attuali (intese come congiunto di complessi tecnologici e di pratiche che attorno ad essi si costruiscono) nella loro specifcità. Suggerisco in questa direzione quattro spunti che vogliono funzionare da altrettante piste di ricerca e di progettazione educativa.
La de-mediazione. Ciò cui oggi stiamo assistendo è la morte degli apparati, la fine dei sistemi di comunicazione come li conoscevamo. La comunicazione tende a essere im-mediata grazie alla marcata interattività dei servizi: è la differenza che passa tra la televisione al tempo delle Televisioni e la televisione al tempo di You-tube. Educativamente cambia molto. Eravamo abituati a preoccuparci del Grande Fratello (nel senso orwelliano, non del reality!), del rischio di un Pensiero Unico (per dirla con Freire e Martin Barbero); oggi dobbiamo preoccuparci piuttosto del pensiero nomade. Alla paura dell'omologazione subentra quella di perdersi nell'eccesso di possibilità.
La de-professionalizzazione. Non serve più essere giornalisti per fare i giornalisti, né essere operatori per fare video. La facilità d'uso delle tecnologie digitale e del Web 2.0 consente a ogni lettore di diventare autore. E' il senso di quel che si definisce lo user generated content: il contenuto prodotto dall'utente. Educativamente si tratta di un altro scatto in avanti, che esige un cambio di paradigma. Eravamo abituati a pensare di dover educare (solo) lettori critici. Oggi dobbiamo immaginare invece di educare la responsabilità di ciascuno di noi in quanto autore. All'etica delle emittenti subentra la responsabilità diffusa di qualsiasi comunic-attore quale ciascuno di noi è nella misura in cui può produrre messaggi e non solo consumarli.
La frantumazione. I linguaggi cambiano. Alle narrazioni distese, ai lunghi racconti del cinema e del romanzo, si sostituiscono le micronarrazioni dei nuovi formati: sms, blog, mail, sono supporti che non amano la prolissità. La comunicazione si contrae, il pensiero diventa breve; salgono alla ribalta la poetica del frammento, la scrittura minimalista. Non è peggio di prima: è diverso.
Infine l'estroflessione. I media digitali ridisegnano il concetto di spazio pubblico, cancellano i bordi di ciò che in relazione ad esso si definisce al contrario come spazio del privato. Ma è il concetto stesso di privato che entra in crisi. I nativi digitali non chiedono rispetto per la loro privacy; chiedono di poter aver diritto alla visibilità. Solo così si può capire il perché del volersi raccontare davanti al popolo della rete. Non è esibizionismo: è comunicazione che forse intende convocare proprio il mondo degli adulti.
Ecco, gli adulti. Cosa possono fare? Si sentono chiamati in causa ma senza sapere come intervenire. Credo che qui il gap sia culturale. Gli adulti, gli immigranti digitali, continuano a pensare ai media come a degli strumenti. Gli strumenti si possono usare oppure no. Sono sempre comunque sotto il nostro controllo. Ma i media non sono più strumenti. Sono migrati nelle nostre vite. Sono protesi quasi-organiche attraverso le quali gestiamo relazioni, conoscenza. Chiuderle fuori della porta della classe non serve.
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